n. 4
aprile 2003

 

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La fraternità, cammino e orizzonte d'una vita consacrata nella povertà, castità e obbedienza
di Amedeo Cencini

 

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Nel cammino postconciliare di rinnovamento della vita consacrata (VC), cammino tutt’altro che concluso, uno degli argomenti maggiormente discussi sono stati i voti, ovvero quella componente considerata fin dagli inizi persino qualificante questa opzione di vita, in qualche modo il suo contenuto: ci si consacra a Dio, infatti, nella povertà, castità e obbedienza.

La discussione, evidentemente, non verte sulla consacrazione in se stessa, quanto sui tre classici voti, circa i quali ci si chiede (da parte di alcuni) se davvero siano in grado di rappresentare la totalità della vita, o ciò che è più peculiare dell’essere umano, al punto da saper esprimere anche la singolarità essenziale d’un’esistenza tutta orientata su Dio e sbilanciata sulle sue promesse. Oppure, ci s’interroga - sul piano della cultura odierna - su quale senso possa avere esser poveri, casti e obbedienti per il regno dei cieli in una società per la quale la povertà è una maledizione, la castità cosa insensata e incomprensibile, l’obbedienza abnorme incrocio tra autoritarismo e infantilismo. E si è finito per fare proposte alternative, di sostituire i vecchi classici voti con altre opzioni di vita, con spostamenti di significato non del tutto irrilevanti; o, in altri casi, s’è rischiato di ridurre il problema a una questione solo nominalistica, che non dà alcun contributo di autentico rinnovamento alla VC.

Il tema di questo articolo ci da la possibilità di portare un piccolo chiarimento nell’intera vicenda.

 

Tempo lacerato

 Anzitutto diamo un po’ le coordinate del discorso, a livello di cultura in cui viviamo, di clima che si respira, a partire dagli avvenimenti di questi ultimi tempi, e pure a livello di VC, del suo stato di salute o del suo umore generale. In estrema sintesi potremmo fotografare l’ethos culturale-esistenziale odierno così: il mondo d’oggi vive in una situazione di profonda divisione e lacerazione, «non si sono globalizzate solo tecnologia ed economia, ma anche insicurezza e paura, criminalità e violenza, ingiustizie e guerre»1. Viviamo tempi di relazioni lacerate.

 La Chiesa, chiamata a vivere in questo tempo, è pure chiamata a dar risposta a esso e alla sua lacerazione. La VC è una di queste risposte, quale immagine d’una fraternità che non viene dalla carne e dal sangue e che pure è più forte di carne e sangue e di quanto potrebbe dividere l’uomo dal suo simile; o forse, potremmo dire, senza alcun’enfasi, che la VC, col suo impulso missionario, la sua diffusione universale e la sua composizione interna multietnica, è uno dei primi esempi di globalizzazione del messaggio cristiano.

Tutto questo diviene particolarmente vero e urgente da dire e testimoniare oggi, in questo tempo lacerato, e proprio in tal senso vanno alcuni dei più recenti documenti magisteriali2, in cui la Chiesa “chiede” alla VC d’esser esattamente testimone di fraternità: d’una fraternità intracomunitaria, anzitutto, visibile e vivibile anche da altri e in altri contesti, entro una relazione in cui non solo l’altro è accettato in quanto tale, ma in cui ci si fa carico di lui con tutta la sua diversità e a lui ci si affida come a mediazione normale del proprio rapporto con Dio; e d’una fraternità che a questo punto s’estende inevitabilmente al di fuori del gruppo religioso, non fine a se stessa, dunque, ma capace di creare fraternità, e non solo offrendo col proprio esempio un modello di relazione, ma pure operando concretamente per bonificare l’ambiente umano, entrando di fatto in quelle lacerazioni per sanarle, proponendo un modo diverso di considerare l’uomo e ciò che è importante per la dignità umana, a livello dell’amare, dell’avere, del gestire la vita.

 È qui che s’inserisce il discorso dei voti, all’interno del più ampio e radicale orientamento della VC verso la fraternità, dentro e fuori della comunità religiosa, come valore culturale e spirituale da annunciare, quale dono e sfida per tutti indistintamente e che la VC testimonia come concretamente possibile. Non avrebbe senso un discorso sui voti sganciato da questa prospettiva.

 

Fede e relazione  

In realtà la testimonianza della fraternità e l’urgenza di tale testimonianza non può esser legata unicamente a un’emergenza storica contingente e passeggera. Poiché questa testimonianza, e l’idea dell’altro, stanno alla base della stessa idea di VC e ancor prima della fede. Credere vuol dire accogliere incondizionatamente l’Altro nella propria vita e ancor prima sentirsi da lui accolti, cioè desiderati e preferiti da questa Volontà buona alla non esistenza, resi degni d’esserci e ricchi d’una positività originale. Credere è riconoscere che se l’Altro è relazione è anche amore, e solo se l’Altro è relazione-amore c’è spazio perché io, come altro amato, esista nell’Altro amante3.

Credere in questa radicale accoglienza di sé vuol dire accogliere con la medesima libertà tale Dio amante, per esser a mia volta reso da lui e come lui capace di aprirmi all’accoglienza sempre incondizionata dell’altro, di ogni altro. Per questo l’atto di fede esprime assieme l’identità e l’alterità della persona, o si trova alla confluenza, come ne fosse sintesi, del senso d’identità e alterità.

In questa apertura o dinanzi al volto dell’altro, come direbbe Lévinas, c’è e nasce il senso di responsabilità e il farsi carico di lui e del suo peso, ma c’è anche la scoperta che il rapporto con il radicalmente Altro passa inevitabilmente attraverso l’alterità-diversità del proprio “simile”, sia quando sono io che voglio andare a Dio, sia quando è l’Eterno che viene a me: allora Dio «si cela nella sua traccia, lascia il tu e si fa terza persona perché appaia l’altro, gli altri: il Desiderabile sfugge al desiderio e rinvia agli altri, specie se indesiderabili»4.

 

 Voti e alterità

 I voti si pongono esattamente in questa linea. Anch’essi esprimono, proprio come l’atto di fede, il senso d’identità e alterità del soggetto, anzi, essi dicono più in concreto la libertà di aprirsi al tu per attuare il senso della propria identità in aree e dimensioni strategiche, quali sono quelle legate alla vita affettiva, al senso di autonomia e libertà, all’istinto del possesso. E ancora, l’impegno dei voti non è, come forse una certa spiritualità ha proposto un tempo, operazione soggettiva con finalità autoperfezionista, fatta di rinunce e mortificazioni molto private e magari culminanti con la rinuncia proprio al rapporto con l’altro (o con l’altra), ma volontà di costruire nuove relazioni, liberate dalla mania del possesso, della seduzione e della competizione, per una nuova umanità.

Consacrarsi a Dio, allora, nella povertà, castità e obbedienza significa non solo vivere una forte relazione con Dio, centro del proprio amore (castità), ricchezza unica della vita (povertà), criterio dell’azione (obbedienza), e col Cristo povero-casto-obbediente, ma proprio in forza di queste relazioni vuol dire vivere una più intensa relazione con ogni altro.

 Verginità, infatti, significa ricchezza relazionale, libertà di amare tutti col cuore di Dio e con lo stile di Dio, specie chi è meno attraente, a livello umano, e più tentato di sentirsi non amabile.

Povertà è libertà di apprezzare l’altro per quello che è e non per quello che ha, per la sua dignità intrinseca, impedendo che le cose o la mania del possesso condizionino o ostacolino il rapporto.

Obbedienza è considerare ogni persona, con la sua diversità irriducibile, mediazione preziosa, ancorché misteriosa, del proprio rapporto con l’Eterno, passaggio ineludibile del proprio andare a Dio e della manifestazione del suo volere. Insomma, l’autentica consacrazione chiede e promuove un alto senso dell’alterità, consente un rispetto e un apprezzamento radicale della diversità, è esperienza non solo d’accoglienza dell’altro ma pure dell’esser da lui accolti.

I voti creano relazione.

 

 Voti e fraternità

 Ma allora, se i voti hanno un’intrinseca dimensione relazionale, se aprono immediatamente all’altro, il contesto più naturale per una vita consacrata nei voti non può che esser relazionale, come è un contesto comunitario. Non potrebb’essere diversamente. C’è un legame naturale e reciproco tra voti e fraternità, i voti creano fraternità, mentre la fraternità diviene verifica e radicalizzazione d’una vita effettivamente votata a Dio. Più precisamente, i voti consentono il passaggio dalla comunità alla comunione, dal gruppo alla famiglia, dai confratelli ai fratelli. E qui probabilmente va riscoperta una certa funzione dei voti assieme a una corrispondente e inedita modalità pratica di viverli.

 

 Obbedienza fraterna

 Il voto d’obbedienza, ad es., ha un’enorme valenza in tal senso. Purché sia interpretato correttamente, e non continui a esser ridotto a qualcosa che si vive nei confronti solo d’una categoria di persone ed entro una rigida schematizzazione di ruoli (tra superiori che comandano e sudditi che obbediscono) e in determinate e ufficiali circostanze, ma come stile abituale di rapporti fraterni, come condivisione dello stesso cammino di ricerca della volontà del Padre, che ci supera tutti e che tutti siamo tenuti a scoprire ogni giorno, l’uno nell’altro e nella pluralità di segni che riempiono la vita, fino al punto di obbedirci l’un l’altro.

 È l’idea di obbedienza fraterna5, che non sostituisce assolutamente l’obbedienza istituzionale, canonicamente definita dalla Regola, ma ne amplia semmai l’àmbito e ne approfondisce il senso, ne estende addirittura l’osservanza (oltre le obbedienze “canoniche”) e la rende ancor più radicale ed evangelica, soprattutto quando riesce a sottrarla all’àmbito solo disciplinare-comportamentale. L’obbedienza fraterna restituisce al voto in quanto tale la sua funzione naturale (cercare e compiere la volontà divina), e fa scoprire ancor meglio il ruolo e la funzione preziosa dell’autorità (quale punto di riferimento finale e vincolante di questa ricerca).

L’obbedienza fraterna, infatti, è e significa un modo di essere e camminare insieme, di accogliersi nella fede, l’uno come mediazione preziosa della volontà di Dio per l’altro, ciascuno responsabile e bisognoso della presenza altrui, vera e propria obbedienza della e nella fede. Come già Benedetto aveva intuito e chiedeva ai suoi monaci6. A che serve, infatti, eseguire gli ordini ricevuti dai legittimi superiori se questo non mi abilita e dispone a riconoscere il volere di Dio disseminato nei frammenti della vita quotidiana e “nascosto” in tanti segni, circostanze, imprevisti, sfide, provocazioni, specie in chi mi vive accanto?

La dimensione fraterna dell’obbedienza sottolinea la disponibilità piena e senza infingimenti del vir ob-audiens, la garantisce e protegge da tutte quelle forme di servilismo e compiacenza che spesso hanno contaminato e falsato i rapporti con l’autorità, è una sorta di obbedienza universale, non nel senso generico e banale del termine, ma perché esprime l’atteggiamento credente di colui che cerca ovunque la volontà del Padre e l’accoglie con disponibilità obbedienziale, da qualsiasi parte venga, anche se secondo una precisa articolazione di compiti e ruoli e nel rispetto d’una altrettanto precisa gerarchia di responsabilità. Questa obbedienza costruisce davvero la fraternità ed è l’anima d’ogni relazione: se in un’amicizia non c’è questa disponibilità obbedienziale, quella non è vera amicizia evangelica.

 

 Povertà e condivisione

 Anche la povertà ha un versante “fraterno” che aiuta a comprenderne il vero senso. E a superare una concezione del voto riduttiva e negativa, che si limita a chiedere la rinuncia al possesso dei beni o la condivisione solo di quelli materiali. Si tratta di passare con decisione alla scelta d’esser poveri perché consapevoli di non esser padroni della vita, ma solo servi che han ricevuto (da Dio e dagli altri) quanto hanno e sono; servi sempre più coscienti - da un lato - di non poter provvedere da soli al proprio vivere e santificarsi, e consapevoli pure - dall’altro - di possedere ciascuno qualcosa che può arricchire la vita di tutti (ma che a nessuno servirebbe se ognuno se lo tenesse per sé).

Povertà oggi vuol dire condivisione, è più partecipazione che privazione, o è rinuncia motivata dal dono per l’altro; ha senso solo se innesca la circolazione di beni; è evangelica solo se provoca fraternità e scoperta delle comune radici e dello stesso destino; è ascesi santificante quand’è atto d’amore per l’altro e in funzione della sua crescita.

Ecco perché la povertà non può più esser intesa oggi solo come condivisione dei beni materiali, ma implica e tende verso la condivisione di quelli spirituali, dei doni di grazia e d’ispirazione, della propria esperienza spirituale con le sue fatiche e le sue gioie… A che serve condividere i beni materiali, se poi ognuno si tiene ben stretto per sé e solo per sé ciò che è più importante nella vita del credente, cioè i beni dello Spirito? Quale comunità costruiscono quei consacrati che sono degli splendidi individualisti dello spirito? Quale giovane può sentirsi attratto da una finta comunità, ove non si mette in comune quell’unica realtà che rende fratelli, Dio e la fede? E quale fraternità si testimonia quando la santità è intesa solo in senso individuale e la povertà professata nasconde una sottile ipocrisia e contraddizione? L’individualismo è sempre un peccato grave, anche e soprattutto quand’è spirituale.

Eppure questa è la situazione normale e frequente delle nostre comunità, ove si stenta a capire l’ideale della santità comunitaria, mentre la vita spirituale è ancora intesa come operazione d’accumulo di beni e meriti che servano per la propria scalata individuale, e il rapporto con l’altro serve - nel migliore dei casi - a far pratica virtuosa, ad allenarsi.

Una povertà più fraterna e radicale cambierebbe il volto delle nostre comunità e assicurerebbe il futuro alla VC.

  

Amore vergine

È stato spesso ribadito il rapporto tra voto di castità e vita comunitaria, ma di solito entro un’ottica e una preoccupazione “difensive”, nel senso che la vita comune e il calore dei rapporti fraterni sono stati sovente visti come protezione della castità del singolo, quasi medicina preventiva difensiva. Non è sbagliato, ma è visione miope e meschina.

La fraternità è espressione naturale della verginità, non il suo argine protettivo, e se esser vergini significa aver concentrato in Dio la propria affettività ed esser innamorati di lui, l’amore per il fratello in comunità diviene la prima manifestazione d’un modo d’amare che non è più solo umano, ma divino. Perché è amore non più elettivo-selettivo, dettato dalla carne e dal sangue, da simpatia o volontà umana, dal bisogno di ricevere amore in cambio o che va dove lo porta il cuore; né è affetto che, con la preoccupazione di non trasgredire il voto, si fa timoroso dell’altro, o di chi ritiene non così importante la relazione e si compiace addirittura d’una certa autosufficienza mentre teme, in realtà, di lasciarsi amare; o di chi ha spento le passioni invece di convertirle, ed è in realtà solo un eunuco se non un deviato; né questo è amore apparente di chi riesce forse a esprimere una certa solidarietà con chi soffre, ma poi non sa godere per il bene e la gioia dell’altro, o di chi s’illude d’esser casto perché non fa nulla contro la castità, ma è gretto e arido, invidioso e geloso, freddo e apatico, non sa farsi carico dell’altro e del suo peccato, né correggere e farsi correggere, incoraggiare e promuovere, perdonare e farsi perdonare…

«Una vita celibe che non sa commuoversi per le sofferenze umane, che rimane chiusa in se stessa ed è arcigna, è biblicamente maledetta»7. Un cuore vergine che s’apre all’altro, invece, è benedetto da Dio, «è l’uomo dall’amore plurale. Ama Dio, ama il prossimo e ama se stesso come frammento del sogno di Dio. È l’uomo che vive la polifonia del cuore, con le mani impigliate nel folto della vita, capace di amare con la stessa intensità cielo e terra», è il consacrato per il quale si realizza la promessa di Gesù: vi darò cento fratelli…, vi darò un supplemento di umanità e di cuore; vivrete di relazioni e non di cose, di persone e non di possessi; sarete costruttori d’una umanità nuova, non più lacerata…

Uomini e donne poveri-casti-obbedienti: hanno messo in comune il loro cuore. Avranno in ricompensa quello di Dio!

  

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