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Nel cammino postconciliare di
rinnovamento della vita consacrata (VC), cammino tutt’altro che
concluso, uno degli argomenti maggiormente discussi sono stati i voti,
ovvero quella componente considerata fin dagli inizi persino
qualificante questa opzione di vita, in qualche modo il suo contenuto:
ci si consacra a Dio, infatti, nella povertà, castità e
obbedienza.
La
discussione, evidentemente, non verte sulla consacrazione in se stessa,
quanto sui tre classici voti, circa i quali ci si chiede (da parte di
alcuni) se davvero siano in grado di rappresentare la totalità della
vita, o ciò che è più peculiare dell’essere umano, al punto da saper
esprimere anche la singolarità essenziale d’un’esistenza tutta orientata
su Dio e sbilanciata sulle sue promesse. Oppure, ci s’interroga - sul
piano della cultura odierna - su quale senso possa avere esser poveri,
casti e obbedienti per il regno dei cieli in una società per la quale la
povertà è una maledizione, la castità cosa insensata e incomprensibile,
l’obbedienza abnorme incrocio tra autoritarismo e infantilismo. E si è
finito per fare proposte alternative, di sostituire i vecchi classici
voti con altre opzioni di vita, con spostamenti di significato non del
tutto irrilevanti; o, in altri casi, s’è rischiato di ridurre il
problema a una questione solo nominalistica, che non dà alcun contributo
di autentico rinnovamento alla VC.
Il tema
di questo articolo ci da la possibilità di portare un piccolo
chiarimento nell’intera vicenda.
Tempo lacerato
Anzitutto diamo un po’ le coordinate del discorso, a livello di
cultura in cui viviamo, di clima che si respira, a partire dagli
avvenimenti di questi ultimi tempi, e pure a livello di VC, del suo
stato di salute o del suo umore generale. In estrema sintesi
potremmo fotografare l’ethos culturale-esistenziale odierno così: il
mondo d’oggi vive in una situazione di profonda divisione e lacerazione,
«non si sono globalizzate solo tecnologia ed economia, ma anche
insicurezza e paura, criminalità e violenza, ingiustizie e guerre»1.
Viviamo tempi di relazioni lacerate.
La
Chiesa, chiamata a vivere in questo tempo, è pure chiamata a dar
risposta a esso e alla sua lacerazione. La VC è una di queste risposte,
quale immagine d’una fraternità che non viene dalla carne e dal sangue e
che pure è più forte di carne e sangue e di quanto potrebbe dividere
l’uomo dal suo simile; o forse, potremmo dire, senza alcun’enfasi, che
la VC, col suo impulso missionario, la sua diffusione universale e la
sua composizione interna multietnica, è uno dei primi esempi di
globalizzazione del messaggio cristiano.
Tutto
questo diviene particolarmente vero e urgente da dire e testimoniare
oggi, in questo tempo lacerato, e proprio in tal senso vanno alcuni dei
più recenti documenti magisteriali2,
in cui la Chiesa “chiede” alla VC d’esser esattamente testimone di
fraternità: d’una fraternità intracomunitaria, anzitutto,
visibile e vivibile anche da altri e in altri contesti, entro una
relazione in cui non solo l’altro è accettato in quanto tale, ma in cui
ci si fa carico di lui con tutta la sua diversità e a lui ci si affida
come a mediazione normale del proprio rapporto con Dio; e d’una
fraternità che a questo punto s’estende inevitabilmente al di fuori
del gruppo religioso, non fine a se stessa, dunque, ma capace di
creare fraternità, e non solo offrendo col proprio esempio un
modello di relazione, ma pure operando concretamente per bonificare
l’ambiente umano, entrando di fatto in quelle lacerazioni per sanarle,
proponendo un modo diverso di considerare l’uomo e ciò che è importante
per la dignità umana, a livello dell’amare, dell’avere, del gestire la
vita.
È qui
che s’inserisce il discorso dei voti, all’interno del più ampio e
radicale orientamento della VC verso la fraternità, dentro e
fuori della comunità religiosa, come valore culturale e spirituale da
annunciare, quale dono e sfida per tutti indistintamente e che la VC
testimonia come concretamente possibile. Non avrebbe senso un discorso
sui voti sganciato da questa prospettiva.
Fede e relazione
In
realtà la testimonianza della fraternità e l’urgenza di tale
testimonianza non può esser legata unicamente a un’emergenza storica
contingente e passeggera. Poiché questa testimonianza, e l’idea
dell’altro, stanno alla base della stessa idea di VC e ancor prima della
fede. Credere vuol dire accogliere incondizionatamente l’Altro nella
propria vita e ancor prima sentirsi da lui accolti, cioè desiderati e
preferiti da questa Volontà buona alla non esistenza, resi degni
d’esserci e ricchi d’una positività originale. Credere è riconoscere che
se l’Altro è relazione è anche amore, e solo se l’Altro è
relazione-amore c’è spazio perché io, come altro amato, esista
nell’Altro amante3.
Credere
in questa radicale accoglienza di sé vuol dire accogliere con la
medesima libertà tale Dio amante, per esser a mia volta reso da lui e
come lui capace di aprirmi all’accoglienza sempre incondizionata
dell’altro, di ogni altro. Per questo l’atto di fede esprime assieme
l’identità e l’alterità della persona, o si trova alla confluenza, come
ne fosse sintesi, del senso d’identità e alterità.
In
questa apertura o dinanzi al volto dell’altro, come direbbe Lévinas, c’è
e nasce il senso di responsabilità e il farsi carico di lui e del suo
peso, ma c’è anche la scoperta che il rapporto con il radicalmente Altro
passa inevitabilmente attraverso l’alterità-diversità del proprio
“simile”, sia quando sono io che voglio andare a Dio, sia quando è
l’Eterno che viene a me: allora Dio «si cela nella sua traccia, lascia
il tu e si fa terza persona perché appaia l’altro, gli altri: il
Desiderabile sfugge al desiderio e rinvia agli altri, specie se
indesiderabili»4.
Voti
e alterità
I voti
si pongono esattamente in questa linea. Anch’essi esprimono, proprio
come l’atto di fede, il senso d’identità e alterità del soggetto, anzi,
essi dicono più in concreto la libertà di aprirsi al tu per
attuare il senso della propria identità in aree e dimensioni
strategiche, quali sono quelle legate alla vita affettiva, al senso
di autonomia e libertà, all’istinto del possesso. E ancora, l’impegno
dei voti non è, come forse una certa spiritualità ha proposto un tempo,
operazione soggettiva con finalità autoperfezionista, fatta di rinunce e
mortificazioni molto private e magari culminanti con la rinuncia proprio
al rapporto con l’altro (o con l’altra), ma volontà di costruire
nuove relazioni, liberate dalla mania del possesso, della seduzione e
della competizione, per una nuova umanità.
Consacrarsi a Dio, allora, nella povertà, castità e obbedienza significa
non solo vivere una forte relazione con Dio, centro del proprio amore
(castità), ricchezza unica della vita (povertà), criterio dell’azione
(obbedienza), e col Cristo povero-casto-obbediente, ma proprio in forza
di queste relazioni vuol dire vivere una più intensa relazione con
ogni altro.
Verginità,
infatti, significa ricchezza relazionale, libertà di amare tutti col
cuore di Dio e con lo stile di Dio, specie chi è meno attraente, a
livello umano, e più tentato di sentirsi non amabile.
Povertà è libertà di apprezzare l’altro per quello che è e non per
quello che ha, per la sua dignità intrinseca, impedendo che le cose o la
mania del possesso condizionino o ostacolino il rapporto.
Obbedienza è considerare ogni persona, con la sua diversità
irriducibile, mediazione preziosa, ancorché misteriosa, del proprio
rapporto con l’Eterno, passaggio ineludibile del proprio andare a Dio e
della manifestazione del suo volere. Insomma, l’autentica consacrazione
chiede e promuove un alto senso dell’alterità, consente un rispetto e un
apprezzamento radicale della diversità, è esperienza non solo
d’accoglienza dell’altro ma pure dell’esser da lui accolti.
I
voti creano relazione.
Voti
e fraternità
Ma
allora, se i voti hanno un’intrinseca dimensione relazionale, se aprono
immediatamente all’altro, il contesto più naturale per una vita
consacrata nei voti non può che esser relazionale, come è un contesto
comunitario. Non potrebb’essere diversamente. C’è un legame naturale
e reciproco tra voti e fraternità, i voti creano fraternità, mentre la
fraternità diviene verifica e radicalizzazione d’una vita effettivamente
votata a Dio. Più precisamente, i voti consentono il passaggio dalla
comunità alla comunione, dal gruppo alla famiglia, dai confratelli ai
fratelli. E qui probabilmente va riscoperta una certa funzione dei voti
assieme a una corrispondente e inedita modalità pratica di viverli.
Obbedienza
fraterna
Il voto
d’obbedienza, ad es., ha un’enorme valenza in tal senso. Purché sia
interpretato correttamente, e non continui a esser ridotto a qualcosa
che si vive nei confronti solo d’una categoria di persone ed entro una
rigida schematizzazione di ruoli (tra superiori che comandano e sudditi
che obbediscono) e in determinate e ufficiali circostanze, ma come
stile abituale di rapporti fraterni, come condivisione dello
stesso cammino di ricerca della volontà del Padre, che ci supera tutti e
che tutti siamo tenuti a scoprire ogni giorno, l’uno nell’altro e nella
pluralità di segni che riempiono la vita, fino al punto di obbedirci
l’un l’altro.
È
l’idea di obbedienza fraterna5,
che non sostituisce assolutamente l’obbedienza istituzionale,
canonicamente definita dalla Regola, ma ne amplia semmai l’àmbito e ne
approfondisce il senso, ne estende addirittura l’osservanza (oltre le
obbedienze “canoniche”) e la rende ancor più radicale ed evangelica,
soprattutto quando riesce a sottrarla all’àmbito solo
disciplinare-comportamentale. L’obbedienza fraterna restituisce al voto
in quanto tale la sua funzione naturale (cercare e compiere la volontà
divina), e fa scoprire ancor meglio il ruolo e la funzione preziosa
dell’autorità (quale punto di riferimento finale e vincolante di questa
ricerca).
L’obbedienza fraterna, infatti, è e significa un modo di essere e
camminare insieme, di accogliersi nella fede, l’uno come
mediazione preziosa della volontà di Dio per l’altro, ciascuno
responsabile e bisognoso della presenza altrui, vera e propria
obbedienza della e nella fede. Come già Benedetto aveva intuito e
chiedeva ai suoi monaci6.
A che serve, infatti, eseguire gli ordini ricevuti dai legittimi
superiori se questo non mi abilita e dispone a riconoscere il volere di
Dio disseminato nei frammenti della vita quotidiana e “nascosto” in
tanti segni, circostanze, imprevisti, sfide, provocazioni, specie in
chi mi vive accanto?
La
dimensione fraterna dell’obbedienza sottolinea la disponibilità piena e
senza infingimenti del vir ob-audiens, la garantisce e
protegge da tutte quelle forme di servilismo e compiacenza che spesso
hanno contaminato e falsato i rapporti con l’autorità, è una sorta di
obbedienza universale, non nel senso generico e banale del termine, ma
perché esprime l’atteggiamento credente di colui che cerca ovunque
la volontà del Padre e l’accoglie con disponibilità obbedienziale, da
qualsiasi parte venga, anche se secondo una precisa articolazione di
compiti e ruoli e nel rispetto d’una altrettanto precisa gerarchia di
responsabilità. Questa obbedienza costruisce davvero la fraternità ed è
l’anima d’ogni relazione: se in un’amicizia non c’è questa disponibilità
obbedienziale, quella non è vera amicizia evangelica.
Povertà e condivisione
Anche
la povertà ha un versante “fraterno” che aiuta a comprenderne il vero
senso. E a superare una concezione del voto riduttiva e negativa, che si
limita a chiedere la rinuncia al possesso dei beni o la condivisione
solo di quelli materiali. Si tratta di passare con decisione alla scelta
d’esser poveri perché consapevoli di non esser padroni della vita, ma
solo servi che han ricevuto (da Dio e dagli altri) quanto hanno e sono;
servi sempre più coscienti - da un lato - di non poter provvedere da
soli al proprio vivere e santificarsi, e consapevoli pure - dall’altro -
di possedere ciascuno qualcosa che può arricchire la vita di tutti (ma
che a nessuno servirebbe se ognuno se lo tenesse per sé).
Povertà
oggi vuol dire condivisione, è più partecipazione che privazione, o è
rinuncia motivata dal dono per l’altro; ha senso solo se innesca la
circolazione di beni; è evangelica solo se provoca fraternità e scoperta
delle comune radici e dello stesso destino; è ascesi santificante
quand’è atto d’amore per l’altro e in funzione della sua crescita.
Ecco
perché la povertà non può più esser intesa oggi solo come condivisione
dei beni materiali, ma implica e tende verso la condivisione di quelli
spirituali, dei doni di grazia e d’ispirazione, della propria
esperienza spirituale con le sue fatiche e le sue gioie… A che serve
condividere i beni materiali, se poi ognuno si tiene ben stretto per sé
e solo per sé ciò che è più importante nella vita del credente, cioè i
beni dello Spirito? Quale comunità costruiscono quei consacrati che sono
degli splendidi individualisti dello spirito? Quale giovane può sentirsi
attratto da una finta comunità, ove non si mette in comune quell’unica
realtà che rende fratelli, Dio e la fede? E quale fraternità si
testimonia quando la santità è intesa solo in senso individuale e la
povertà professata nasconde una sottile ipocrisia e contraddizione?
L’individualismo è sempre un peccato grave, anche e soprattutto quand’è
spirituale.
Eppure
questa è la situazione normale e frequente delle nostre comunità, ove si
stenta a capire l’ideale della santità comunitaria, mentre la
vita spirituale è ancora intesa come operazione d’accumulo di beni e
meriti che servano per la propria scalata individuale, e il rapporto con
l’altro serve - nel migliore dei casi - a far pratica virtuosa, ad
allenarsi.
Una
povertà più fraterna e radicale cambierebbe il volto delle nostre
comunità e assicurerebbe il futuro alla VC.
Amore vergine
È stato
spesso ribadito il rapporto tra voto di castità e vita comunitaria, ma
di solito entro un’ottica e una preoccupazione “difensive”, nel senso
che la vita comune e il calore dei rapporti fraterni sono stati sovente
visti come protezione della castità del singolo, quasi medicina
preventiva difensiva. Non è sbagliato, ma è visione miope e meschina.
La
fraternità è espressione naturale della verginità, non il suo argine
protettivo, e se esser vergini significa aver concentrato in Dio la
propria affettività ed esser innamorati di lui, l’amore per il fratello
in comunità diviene la prima manifestazione d’un modo d’amare che non
è più solo umano, ma divino. Perché è amore non più
elettivo-selettivo, dettato dalla carne e dal sangue, da simpatia o
volontà umana, dal bisogno di ricevere amore in cambio o che va dove lo
porta il cuore; né è affetto che, con la preoccupazione di non
trasgredire il voto, si fa timoroso dell’altro, o di chi ritiene non
così importante la relazione e si compiace addirittura d’una certa
autosufficienza mentre teme, in realtà, di lasciarsi amare; o di chi ha
spento le passioni invece di convertirle, ed è in realtà solo un eunuco
se non un deviato; né questo è amore apparente di chi riesce forse a
esprimere una certa solidarietà con chi soffre, ma poi non sa godere per
il bene e la gioia dell’altro, o di chi s’illude d’esser casto perché
non fa nulla contro la castità, ma è gretto e arido, invidioso e geloso,
freddo e apatico, non sa farsi carico dell’altro e del suo peccato, né
correggere e farsi correggere, incoraggiare e promuovere, perdonare e
farsi perdonare…
«Una
vita celibe che non sa commuoversi per le sofferenze umane, che rimane
chiusa in se stessa ed è arcigna, è biblicamente maledetta»7.
Un cuore vergine che s’apre all’altro, invece, è benedetto da Dio, «è
l’uomo dall’amore plurale. Ama Dio, ama il prossimo e ama se stesso come
frammento del sogno di Dio. È l’uomo che vive la polifonia del cuore,
con le mani impigliate nel folto della vita, capace di amare con la
stessa intensità cielo e terra», è il consacrato per il quale si
realizza la promessa di Gesù: vi darò cento fratelli…, vi darò un
supplemento di umanità e di cuore; vivrete di relazioni e non di cose,
di persone e non di possessi; sarete costruttori d’una umanità nuova,
non più lacerata…
Uomini e donne
poveri-casti-obbedienti: hanno messo in comune il loro cuore. Avranno in
ricompensa quello di Dio!
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