Il
documento Ripartire da Cristo. Un rinnovato impegno della vita
consacrata nel terzo millennio richiama i consacrati a una
«testimonianza profetica e silenziosa» che sia allo stesso tempo una
«eloquente protesta contro un mondo disumano. Essa impegna alla
promozione della persona e risveglia una nuova fantasia della carità»1.
Riconoscendo nella persona dei poveri una presenza speciale di Cristo
che impone alla Chiesa un’opzione preferenziale per loro
(cf RdC 34), il documento ricorda che «la povertà dei popoli è
causata dall’ambizione e dall’indifferenza di molti e da strutture di
peccato che devono essere eliminate» (RdC 36).
L’invito
è a un cambio di modelli di servizio, poiché non è più ritenuta
sufficiente l’assistenza e vanno sradicate le cause da cui trae origine
il bisogno (cf RdC 36).
Al fine
d’una comprensione dei termini della questione, in relazione a scelte
operative che si è chiamati a fare, ci sembra opportuno indicare alcune
linee di riflessione che permettano di orientare la fantasia della
carità, la testimonianza profetica ed il servizio creativo tendente
a sradicare le cause da cui trae origine il bisogno.
Nell’agosto 1980, la Congregazione per i religiosi e gli istituti
secolari emanò il documento Religiosi e promozione umana.
In esso
si operava una distinzione tra politica, intesa in senso ampio e
generico, e cioè come organizzazione dinamica di tutta la vita sociale2,
e prassi politica, come partecipazione diretta a scelte di parte3.
Se la politica apparteneva a tutta la comunità cristiana, e quindi anche
ai religiosi, questi ultimi, però, erano messi in guardia dal lasciarsi
coinvolgere nella prassi politica4.
Al fine
di contribuire a una migliore chiarificazione terminologica, considerato
anche un coinvolgimento sempre maggiore dei religiosi nei grandi
problemi del mondo e, soprattutto, in forza dell’opzione preferenziale
per i poveri, ci sembra opportuno ritornare sul problema.
Il
dogma di Calcedonia
Il
dogma del Concilio di Calcedonia (451) ha definito che nel Cristo
coesistono la natura umana e quella divina, integre e complete, senza
confusione, trasformazione, separazione, divisione.
Nel
Tomus ad Flavianum, recepito dal Concilio di Calcedonia, viene
chiaramente affermata la comunicazione delle proprietà (communicatio
idiomatum) per cui si può dire che «il Figlio d’uomo è disceso
dal cielo e il Figlio di Dio è stato crocifisso»5.
Da
questa verità dogmatica consegue che le piaghe del popolo oppresso e
crocifisso sono piaghe dello stesso Figlio di Dio, anche in forza di
quanto chiaramente affermato nella Gaudium et spes e ripreso
dalla prima enciclica di Giovanni Paolo II e cioè che «con
l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo»
(cf GS 22; Rh 13).
Applicando questo principio all’Esortazione apostolica Ecclesia in
Africa, Giovanni Paolo II, riprendendo il profeta Isaia, afferma che
il nome d’ogni Africano è inciso sulle palme delle mani del Cristo,
trafitte dai chiodi della crocifissione6.
La
verità dogmatica affermata a Calcedonia comporta come conseguenza che il
problema degli oppressi e crocifissi nel mondo è problema di Cristo,
quindi la Chiesa non può non proclamare ad alta voce, senza arrossire o
stancarsi, che l’emarginazione dell’uomo le appartiene perché appartiene
al suo Dio.
Questione cristologica e questione politica
Porre da
parte della Chiesa il problema dell’emarginazione dei poveri è una
questione cristologica. Alla questione va data una risposta
che dipende dalla conoscenza scientifica delle situazioni; essa richiede
allo stesso tempo un abbordo multidisciplinare che tende verso la
ricerca del punto di convergenza tra varie e differenti soluzioni e il
libero consenso che si forma di volta in volta attorno a esse.
Se la
questione concerne il corpo del Signore e come tale è normativa, la
risposta riguarda la politica e come tale è soggetta a un
pluralismo di possibilità.
In una
famosa lettera pastorale della Quaresima 1947 il Cardinale di Parigi,
Emmanuel Suhard, scriveva: «Non si può essere santi e vivere il Vangelo
che tutti invocano, senza sforzarsi d’assicurare a tutti gli uomini
delle condizioni – d’alloggio, di lavoro, di nutrimento, di riposo, di
cultura, ecc... – senza le quali non v’è più vita umana»7.
Ne
consegue che l’impegno politico è di capitale importanza. Trattasi, come
affermava Giorgio La Pira, un politico italiano di cui è in corso il
processo di beatificazione, dell’impegno a costruire «una città nella
quale ci sia un posto per tutti: un posto per pregare (la chiesa), un
posto per amare (la casa), un posto per lavorare (l’officina), un posto
per pensare (la scuola), un posto per guarire (l’ospedale)»8.
Non è,
perciò, possibile sottrarsi a determinate forme di impegno politico. Ma
in questo impegno, ognuno deve compromettere solo se stesso e non la
Chiesa. La Chiesa è testimone dell’assoluto, è comunità profetica che
guida la storia, è annuncio di un Regno che già è in mezzo a noi eppure
ancora deve venire, è giudizio continuo su d’un mondo che non è il
Regno.
Riprendendo l’insegnamento del Concilio, Paolo VI nell’Octogesima
adveniens afferma con chiarezza: «Prendere sul serio la politica
nei suoi diversi livelli significa affermare il dovere dell’uomo, di
ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà
di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene
della città, della nazione, dell’umanità (OA 46). Nelle situazioni
concrete, e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna
riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima
fede cristiana può condurre a impegni diversi (OA 50; cf GS 43). Pur
riconoscendo l’autonomia della realtà politica, i cristiani, sollecitati
ad entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere una
coerenza tra le loro opzioni e il Vangelo e di dare, pur in mezzo a un
legittimo pluralismo, una testimonianza personale e collettiva della
serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato
agli uomini» (OA 46).
Ne
consegue che la determinazione dei regimi politici, come quella dei loro
dirigenti, deve essere lasciata alla libera volontà dei cittadini (cf GS
74).
La
pluralità di partiti all’interno dei quali i cattolici possono scegliere
di militare per esercitare il loro diritto-dovere nella costruzione
della vita civile del loro Paese, non può essere, però, confusa con un
indistinto pluralismo nella scelta dei principi morali e dei valori
sostanziali a cui si fa riferimento9.
Analogicamente a quanto detto della costituzione ontologica del Cristo,
tra questione cristologica e questione politica non v’è né confusione né
trasformazione, ma neanche divisione o separazione.
La
missione della Chiesa non agisce direttamente sul piano economico,
tecnico, politico; non contribuisce direttamente allo sviluppo, ma
consiste essenzialmente nell’offrire ai popoli una evangelizzazione
sempre più profonda, risvegliando le coscienze per mezzo del Vangelo.
Essa apporta il suo contributo proclamando la verità su Cristo, su se
stessa, sull’uomo, applicandola a una situazione concreta (cf RM 58).
«La
Chiesa – scrive Giovanni Paolo II nella Centesimus annus – «non
ha modelli da proporre. I modelli reali e veramente efficaci possono
solo nascere nel quadro delle diverse situazioni storiche, grazie allo
sforzo di tutti i responsabili che affrontino i problemi concreti in
tutti i loro aspetti sociali, economici, politici e culturali che si
intrecciano tra loro. A tale impegno la Chiesa offre, come
indispensabile orientamento ideale, la propria dottrina sociale, che –
come si è detto – riconosce la positività del mercato e dell’impresa, ma
indica, nello stesso tempo, la necessità che questi siano orientati
verso il bene comune. Essa riconosce anche la legittimità degli sforzi
dei lavoratori per conseguire il pieno rispetto della loro dignità e
spazi maggiori di partecipazione nella vita dell’azienda» (CA 43).
La
Chiesa ricorda che lo sviluppo d’un popolo dipende innanzi tutto dalla
formazione delle coscienze, dal maturare delle mentalità e dei
comportamenti. Essa s’impegna per lo sviluppo d’ogni uomo, rivelando che
è creato a immagine di Dio ed è da Lui amato, rivelando l’uguaglianza di
tutti gli uomini come figli di Dio e il loro dominio sulla creazione che
è posta al loro servizio. La ricchezza, gli aiuti materiali e le
strutture tecniche non si pongono come ricerca principale (cf RM 58).
Povertà
di soluzioni e totalità d’amore
In un processo di nuova
evangelizzazione va evidenziato che il Vangelo non è la soluzione
ai nostri problemi. L’annunzio si colloca su di un’altra linea
d’orizzonte. Dio, è questa la lezione del teologo russo Solov’ëv, salva
amando, mentre l’Anticristo salva cercando di fare del bene, cercando di
dare la soluzione ai problemi. Il peccato della falsificazione della
salvezza consiste nel sostituire la persona che salva nell’amore con le
cose che appagano dalla paura della morte. Far sparire la difficoltà è
spesso l’illusione di chi crede che la difficoltà, e non la mancanza di
amore, sia causa della propria infelicità10.
Nel
discorso pronunciato alla IV Giornata Mondiale della Gioventù, Giovanni
Paolo II ricordava che il servizio non è un semplice sentimento
umanitario e che la comunità dei discepoli di Cristo non è un’agenzia di
volontariato e di aiuto sociale. Un servizio di questo tipo si
ridurrebbe all’orizzonte dello “spirito di questo mondo”. Si tratta, al
contrario, di molto di più. La radicalità, la qualità e il fine di
questo servizio s’inquadrano nel mistero della redenzione dell’uomo che
non si attua con il criterio del potere, della forza, del denaro, ma
chiede ad ogni uomo la totale disponibilità a seguire Cristo11.
Bisogna
operare un ritorno al primato delle scelte dell’uomo, al primato della
sua libertà sul fatalismo di meccanismi e strutture che determinano la
vita. Questa riaffermazione del primato del “regno dello spirito di
libertà” sul “regno della necessità e del destino (fatum – anánké)”
interessa per differenti motivi tutti i popoli.
Si
tratta, infatti, di affermare o riaffermare il primato della persona
sulle strutture, sulle leggi, sulla natura, sulla società, sulle
tradizioni, sui costumi.
Il
concetto di persona – va ricordato – è un contributo al pensiero umano
che la fede ha reso possibile ed effettuato12.
Al di
fuori della fede in un Dio personale anche l’uomo muore. Su questo
terreno il dialogo con le religioni e le culture ha i suoi limiti.
L’inculturazione del Vangelo ha bisogno anche di operare provocando
rotture e mediante processi creativi culturali.
V’è una
incompatibilità della fede con le differenti logiche intramondane che
non è facilmente eludibile.
Di
fronte alle conseguenze tragiche di emarginazione dei deboli, la Chiesa
confessa la sua povertà nell’indicare soluzioni politiche, ma non
rinunzia a proclamare la Verità della scelta degli ultimi come lo
scandalo su cui ognuno, nella sua libertà e responsabilità, è chiamato a
confrontarsi.
Il fatto
che la Chiesa si professi povera di soluzioni non vuol dire che rinunzi
a indicare l’orizzonte escatologico verso cui è in marcia.
Questo
orizzonte è Cristo, éschaton già nel tempo eppur non ancora
realizzato. Alla pienezza del suo Atto manca il compimento del
nostro.
Tensione
tra fede e impegno sociale
Qualsiasi soluzione sarà sempre
parziale e provvisoria. Essa va sottoposta alla critica del Vangelo che
chiama tutti ad andare sempre oltre.
Nessuna
risposta riuscirà mai a rispondere esaustivamente alla questione
cristologica. Va liberato sin dall’inizio il campo dall’illusione che la
politica generi salvezza.
Proprio
perché essa si fonda sulla ricerca d’un punto di consenso tra le varie
libertà in gioco e perché la nostra libertà è storicamente una libertà
ferita dal peccato, dobbiamo costruire le risposte senza pericolose
fughe in avanti ove, non essendo acquisito il consenso sul problema e
sulla risposta, si producono nuove e più tragiche forme di oppressione.
La
politica è impegno d’incarnazione nel tempo di valori che per sé
trascendono sempre ogni possibile realizzazione. È costruzione della
città degli uomini, città sempre precaria, sempre caduca, sempre
suscettibile di perfezionamento e quindi di critica e di giudizio. È
campo nel quale le strade non sempre sono uniche, non sempre chiare, non
sempre asfaltate, non sempre sicure. È arte di mediazione e anche di
compromessi.
In una
lettera alla figlia, Giovanni Giolitti, uno dei maggiori politici
italiani dell’inizio del secolo passato, così si esprimeva: «Mettiti in
capo questo: che gli uomini sono quello che sono, in tutti i tempi e in
tutti i luoghi, con i loro vizi, i loro difetti, le loro passioni, le
loro debolezze; e il governo deve essere adatto agli uomini come sono;
certo il governo deve mirare a correggere, a migliorare, ma anch’esso è
composto di uomini, e l’uomo perfetto non esiste. Un governo è il
portatore di secoli di storia e la peggiore di tutte le costituzioni
sarebbe quella che venisse studiata in base a principi astratti e non
fosse adatta in tutto e per tutto alle condizioni attuali del paese. Il
sarto che ha da vestire un gobbo se non tiene conto della gobba non
riesce»13.
Dobbiamo
porre sempre in evidenza che la dialettica tra giustizia e libertà può
trovare di volta in volta accentuazioni o compressioni d’uno degli
elementi in gioco. L’equilibrio va sempre ricercato con nuovi tentativi
storici e ponderati correttivi. La soppressione d’un elemento riduce la
politica a “fede religiosa” che uccide la vita dei “non credenti”.
La
politica, infatti, è casa comune di tutti e non può trasformarsi in
guerra di religione tra appartenenti a diverse fedi.
Essa si
nutre del dubbio e dell’ascolto dell’altro. Essa non demonizza nessuno.
Usare categorie religiose nel parlare di fenomeni economici e politici è
fuorviante e indica che si vuole evitare lo sforzo e la fatica della
ricerca, dello studio, del rischio di scendere tra gli uomini per
conquistare il consenso.
In
politica non si può intervenire senza preparazione specifica. Senza la
conoscenza della storia, dell’economia, della sociologia, di tutto ciò
che ci aiuta a comprendere l’uomo e a servirlo nel tempo.
Una
certa azione politica va fatta. Non come Chiesa, ma come uomini che
hanno ricevuto il messaggio d’amore e che sanno che debbono servire i
fratelli anche nel costruire strutture più umane. Ma, e questa sarà la
nostra contraddizione, il nostro drammatico vivere, pur sapendo che
dobbiamo farla, sappiamo anche che non sarà la politica a salvarci e a
salvare.
Chi ci
salva è Cristo e non le nostre opere. Guai se non agiamo e pur guai se
crediamo che queste opere ci salvano. E soprattutto guai se ci
sottraiamo a questa tensione tra fede e opere, tra preghiera e azione,
tra eterno e tempo, tra Chiesa e mondo, tra Regno e Chiesa. Dobbiamo non
sottrarci, ma assumere in noi stessi questa tensione e continuamente
depositarla là dove tutto è ricapitolato, tutto è sanato, tutto
compreso, tutto ricomposto, tutto unito, tutto salvato: nel calice del
sangue di Cristo, calice di nuova e definitiva alleanza, sangue che ci
purifica, ci rinnova, ci redime, ci affratella, ci riunisce, ci
riconcilia, c’immette nella vita stessa di Dio, ci divinizza.
E qui
interviene un’altra distinzione fondamentale, non separazione, sulla
quale siamo chiamati a riflettere: «Non spetta ai pastori della Chiesa
intervenire direttamente nell’azione politica e nell’organizzazione
della vita sociale. Questo compito fa parte della vocazione dei
fedeli laici, i quali operano di propria iniziativa insieme con i
loro concittadini. L’azione sociale può implicare una pluralità di vie
concrete; comunque avrà sempre come fine il bene comune e sarà conforme
al messaggio evangelico e all’insegnamento della Chiesa. Compete ai
fedeli laici “animare, con impegno cristiano, le realtà temporali, e, in
esse, mostrare di essere testimoni e operatori di pace e di giustizia”»14.
Un
intervento continuo del clero e dei religiosi, in un campo proprio dei
laici, denota una situazione di supplenza che può assumere forme di
patologia cronica, autentiche invadenze di sfere di competenze non
proprie che, a lungo andare, lasciano il laicato in una situazione di
irresponsabilità e d’infantilismo, bisognoso di paternalismi protettivi.
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