 |
 |
 |
 |
Viviamo
nel mondo delle cose, dei fatti, dei gesti, che è il mondo del tempo. Il
nostro sforzo, incessante e inconsapevole, è un tendere fuori del tempo,
all’attimo estatico che realizza la nostra libertà. Accade così che le
cose i fatti i gesti – il passare del tempo – ci promettono di questi
attimi, li rivestono, li incarnano. Essi divengono simboli della nostra
libertà. Ognuno di noi ha una ricchezza di cose fatti e gesti che sono i
simboli della sua felicità – essi non valgono per sé, per la loro
naturalità, ma c’invitano, ci chiamano: sono simboli. Il tempo
arricchisce meravigliosamente questo mondo di segni, in quanto crea un
gioco di prospettive che moltiplica il significato supertemporale di
questi simboli»7.
Queste
osservazioni di Cesare Pavese sono illuminanti per capire il processo
creativo di simboli che avviene nell’animo del singolo. Ma questo stesso
processo si produce anche a livello di un popolo, anzi di tutti i
popoli, e in maniera ancor più esuberante quando soggetto è il mistero
di Dio e l’eterno. Nelle cose finite l’uomo si tuffa per cercarvi
l’infinito. I simboli sono le parole con cui la religiosità naturale
tenta di raccontare qualcosa del mistero fascinoso di Dio e del
desiderio di entrare in rapporto con lui.
Il
vento immagine della potenza di Dio
Un
evento assai quotidiano come il vento, proprio per l’inconoscibilità
della sua causa, è stato dagli antichi popoli arricchito di una
simbolica sacra. Il suo sussurrare tra gli alberi o il suo mugghiare nel
turbine della tempesta ha acceso la fantasia primitiva vedendo in tali
fenomeni il respiro della terra, la Grande Madre Terra. Un segno ancora
una volta, come la sabbia del deserto e l’acqua, ambivalente: nelle
fresche brezze primaverili vi è tutta la calma e la signorìa del
Dio-natura; così come nel vortice dei venti forti vi è la sua oscura
rabbia e potenza devastatrice.
Nella
Sacra Scrittura il termine generico di pneuma, corrispondente al rûah
ebraico (vento impetuoso, respiro), pur conservando l’idea di forza
elementare della natura e della vita, perde il significato di sostanza
vitale cosmica e divina. E passa a designare in prevalenza l’energia che
il vento sprigiona, sicché lo spirito/vento è la potenza con la quale
Dio agisce. Egli opera nella creazione (Gn 1,2) e nella conservazione
della vita umana: «Lo spirito di Dio mi ha creato e il soffio
dell’Onnipotente mi dà vita» (Gb 33,4); «Così dice il Signore Dio
che crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi
nasce, dà il respiro alla gente che la abita e l’alito a quanti
camminano su di essa» (Is 42,5). Si manifesta nell’intelligenza e
sapienza dei profeti e degli uomini di Dio, distinguendoli per la
prudenza dagli uomini del loro tempo (Mic 3,8; Is 61,1). E quando Dio
manda il suo spirito è creata e rinnovata la faccia della terra (Sal
104,30).
L’impeto del vento è normalmente legato all’apparizione di Dio. Dio si
manifesta al profeta sotto forma di un uragano, al cui centro c’è un
vortice di fuoco e di luce: «Io guardavo ed ecco un uragano avanzare
dal settentrione, una grande nube e un turbinio di fuoco, che splendeva
tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro
incandescente. Al centro apparve la figura di quattro esseri animati,
dei quali questo era l’aspetto: avevano sembianza umana ...» (Ez 1,
4-5). E’ nella tempesta che Dio manifesta la sua ira contro il malvagio:
«Come nuvole cariche di grandine, come turbine rovinoso, come nembo
di acque torrenziali e impetuose, getta tutto a terra con violenza»
(Is 28, 2).
Ancora
sul monte Horeb il Signore passa accanto a Elia sottoforma di vento, ma
in questo racconto avviene un cambiamento nel modo di interpretarne la
forza. Non l’irruenza è la dimora propria di Dio, ma la sua calma: Dio
penetra nell’uomo senza farvi violenza, quasi trascinando delicatamente
la sua libertà al vero e al bene. Al punto che può diventare difficile
distinguerlo, poiché è immediato, naturalistico, vedere Dio nei grandi
fenomeni. Ma Dio non è nel «vento impetuoso e gagliardo da
spaccare i monti e spezzare le rocce», né «nel terremoto», né
«nel fuoco», ma «nel mormorio di un vento leggero»
(1Re 19,11ss).
Dio penetra leggero
nell’animo umano: in punta di piedi, poiché la sua potenza è quella
della persuasione della libertà con la sua grazia, che sa piegare anche
«le dure cervici».
Di
questa potenza di Dio che dà vita, facendosi dolcemente strada
nell’animo umano per restituirgli la vita, l’immagine più affascinante e
nota si trova nel libro di Ezechiele.
Da una pianura di ossa
inaridite il nascere della vita
Il
profeta narra di cumuli di ossa inaridite dalla morte, distese in una
vallata, che sotto lo spirare della vitalità dell’alito di Dio
riprendono vita. La visione non è da limitarsi alla prefigurazione della
risurrezione dei morti alla fine del mondo: le ossa che Ezechiele vede
non sono quelle che riposano nei cimiteri: «Queste ossa sono tutta la
gente di Israele. Essi vanno dicendo: la nostra speranza è
svanita, e noi siamo perduti!» (Ez 37,11).
Lo
spirito umano, quando si degrada, provoca una desolazione dolorosa e
lancinante che, al paragone, la morte corporale può assumere persino i
contorni di una liberazione. La disperazione, l’assoluta assenza di una
qualche speranza, è la decomposizione dell’essere: in tale stato, la
possibile attesa umana si colora più di illusione che di reale
possibilità di uscita dal male. Da questo male dell’anima, le cui prime
avvisaglie sono la non voglia, l’indifferenza, il disimpegno, la
mancanza di fervore, la pigrizia e l’ozio, in ultima analisi la
tiepidezza (cf Ap 3,15-20); da questo male solo la grazia di Dio con la
sua potenza può liberare: «... mentre io profetizzavo, sentii un
rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno
all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai ed ecco sopra di esse
i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito
in loro. Profetizza, figlio dell’uomo e annunzia. Dice il Signore Dio:
Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché
rivivano. Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in
essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito
grande, sterminato» (Ez 37,7-10).
Il
vento penetra nelle ossa. Quando soffia la tramontana, il vento freddo
del nord, taglia la faccia; quando s’alza lo scirocco, il vento del sud,
l’atmosfera si surriscalda e tutto si scioglie. Dal vento non ci si può
riparare, invade, pervade, trova anche i più piccoli varchi per
infiltrarsi ovunque. Così è la potenza di Dio. Quando essa spira, l’uomo
è messo in movimento. Il desiderio di vivere, la speranza di futuro,
hanno la loro sorgente in Dio, non nell’uomo.
La vita
spirituale è tale proprio perché è vita nello Spirito e dallo Spirito.
Non dalla buona volontà, né dall’impegno, ma dalla grazia fiorisce il
cambiamento del cuore: di cui semmai buona volontà e impegno sono
l’effetto. «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai
di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito»
(Gv 3,8), diceva Gesù a Nicodemo, alludendo all’impossibilità di poter
determinare lo Spirito di Dio. C’è una libertà dello Spirito,
accondiscendendo alla quale si nasce spiritualmente liberi. E’ la
mobilità propria dello Spirito che non può essere rinchiuso in schemi e
formule: a questa mobilità vitale, ogni discepolo del Regno è chiamato a
partecipare.
E’ la vita nuova, nella
quale si entra come si entra nella vita biologica: ricevendola
semplicemente, non producendola. Solo nel prosieguo dell’esistenza si
impara a trasformare in gratitudine questo dato; e senza lo Spirito
quello stesso dato rischia di degradarsi fino ad essere percepito
persino come maledizione: «Perché mi hai dato la vita? Non fossi mai
nato!» (cf Ger 20,14; Gb 3,11).
Il vento metafora dell’esiguità
e provvisorietà dell’esistenza umana
All’ambivalenza dei simboli non sfugge neanche la metafora del vento.
Giobbe si lamenta della sua vita supplicando Dio: «Ricordati che un
soffio è la mia vita!» (Gb 7,7). Se il vento è così potente nella
sua furia, in sé è anche senza corposità: dopo una grande sfuriata,
subito s’affloscia. Proprio per questa sua inconsistenza, il vento
esprime anche il vuoto e la nullità dell’uomo quando pretenda di
sussistere senza l’alito di Dio. Che cos’è una vela senza vento che la
rigonfi? Così è l’uomo. La sua fragilità è assai simile al passare del
vento: dopo aver sconquassato con furore, si placa come nulla fosse
stato si è dileguata: «Come vento la mia grandezza e come nube è
passata la mia felicità» (Gb 30,15). Anche l’uomo s’agita e
freme, conquista cose preziose, ma tutto si degrada. «Se ne vanno in
fumo le ricchezze per un cattivo affare e il figlio che gli è nato non
ha nulla nelle mani. Come è uscito nudo dal grembo di sua madre, così se
ne andrà di nuovo come era venuto, e dalle sue fatiche non ricaverà
nulla da portar con sé. Anche questo è un brutto malanno: che se ne vada
proprio come è venuto. Qual vantaggio ricava dall’aver gettato le sue
fatiche al vento?» (Qo 5,13-15).
La
precarietà della vita è un sentimento prezioso per l’uomo: lo istruisce
sul significato del suo vivere in questo mondo. Con troppa leggerezza si
passa dalla presunzione del possesso della vita al suo disprezzo: il
motivo è che l’uomo sta di fronte alla sua vita nella verità soltanto
quando la accoglie vivendola come viandante. Da tempo l’uomo moderno ha
abbandonato la bisaccia e il bastone del pellegrino, assumendo la figura
del “padrone del mondo”. E così soffre la maledizione legata ad ogni
menzogna. L’uomo infatti non può vivere la vita come autopossesso,
poiché la vita la riceve continuamente dalla gratuità di Dio. E pertanto
se vuole permanere nella verità deve accogliere la sua radicale
contingenza, non come condanna cui sfuggire, ma come la condizione da
cui imparare a riconoscere il bisogno di quel rapporto che gli dà
consistenza. Purtroppo invece «l’uomo è rimasto solo nel gioco della
vita – diceva K. Barth – in quanto egli si è fatto soggetto
autonomo, riducendo Gesù Cristo a predicato»8.
Gesù non
è un “attributo”, qualcosa che si aggiunga, a quello che l’uomo già è.
La consistenza dell’uomo è precisamente data dall’essere relazione a
Cristo. Da solo l’uomo «si riempie il ventre di vento» (Gb
15,2) e l’empio è disperso «come polvere al vento» (Sal 18,43).
Il rapporto con Cristo è originario e originante; e nella
relazione con Lui avviene la nascita della “nuova creatura”, una nascita
nello Spirito/pneuma, ove l’uomo ritrova finalmente se stesso.
Il vento e lo Spirito del
Risorto
La sera
del primo giorno di Pasqua Gesù, apparendo ai discepoli, «alitò in
loro e disse: ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20, 22). Questo
soffio dello Spirito immesso nei discepoli rimanda all’alito divino
della Genesi: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del
suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un
essere vivente» (Gn 2,7). E’ «la nascita dall’alto» (Gv 3,7
ss), di cui parlava Gesù con Nicodemo, senza della quale l’uomo resta
ancorato a se stesso e alla sua impossibilità a entrare nel Regno.
Il rapporto con Cristo che
è la vita nuova dell’uomo non avviene dal basso, ovvero dalla propria
ricerca di Cristo. Questa ricerca è introduttoria e predisponente, ma
non decisiva. La vitalità di Cristo nel discepolo comincia a formarsi
solo nell’azione dello Spirito Santo. E’ lo Spirito di Cristo risorto,
lo spirito dell’amore dato nel sacrificio della Croce (Gv 19,39), il
tenace vincolo che lega la fragilità dell’uomo al divino, e quindi
produce nella sua creaturalità la nuova forma della vita soprannaturale.
Senza lo Spirito dell’amore di Dio «riversato nei nostri cuori»
(Rm 5,5; At 1,8) la vita eterna non fluirebbe nell’esistenza umana.
Senza di Lui, l’uomo resterebbe al di qua di quella barriera che
inesorabilmente lo separa da Dio: e la sua vita sarebbe toccata soltanto
esternamente, come per la tangente, da Dio, mantenendo quel distacco che
segna la malinconica e assoluta separazione di ogni forma di religiosità
umana.
Ma nello
Spirito l’inaudito accade. Dio, Dio stesso, poiché lo Spirito è Dio, si
concede all’uomo in una familiarità inattesa, sciogliendo ogni barriera
e divisione (At 2,4). Il battezzato, pur nell’insuperabile differenza di
essere, entra nella famiglia di Dio. Vi entra regalmente, da figlio, non
come servo, poiché in lui è effuso la spirito di figliolanza, propria
del Figlio (Gal 4, 6-7).
Siamo arrivati al cuore del mistero umano quale ci è stato rivelato.
Esso ci giunge attraverso i fragili segni del simbolo. Il vento-Spirito
Santo insuffla in noi quel divino di cui il nostro arido cuore ha
bisogno per realizzare l’intima dinamica del suo desiderio di vedere Dio
e stare con Lui o, in altri termini, di «essere figli suoi». In fondo la
vita spirituale, a cui la nostra consacrazione ci rende particolarmente
sensibili, si realizza nell’assimilazione di questa coscienza di «essere
figli nel Figlio» e di vivere di questa consapevolezza sotto la vivace
energia della grazia.
7. Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Torino-Einaudi,
1996, p. 244 (torna al testo).
8. Karl Barth, La teologia protestante del XIX secolo,
Jaca Book, Milano 1972, II, p. 51 (torna al testo).
 |