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E' vero quanto afferma il proverbio
popolare: l’uomo è nato per lavorare, ma è altrettanto vero che egli è
più grande del suo lavoro e lo è in forza della sua capacità di
riposare. Sa infatti sospendere la sua attività produttiva per goderne
il frutto. Rivendica come un diritto la sua libertà, vuole disporre di
se stesso secondo quel corredo di inclinazioni che gli sono più
congeniali. Sull’ingresso dei campi di concentramento i nazisti avevano
coniato il detto: il lavoro ci fa liberi. L’affermazione non è
sbagliata, interpreta una verità incontestabile. Chi infatti non gode
del diritto del lavoro è costretto a vivere di stenti, a mendicare,
essere esposto a rifiuti e umiliazioni. Eppure non è nel lavoro che si
gode il grado più alto di libertà ma nel riposo, quando l’uomo esprime
il meglio di se stesso: la sua creatività, il suo spirito chiamato alla
contemplazione, al gioco, alla festa, alla pace, al raccoglimento e al
silenzio. Già con questa riflessione ci si accorge come il riposo sia
una parola chiave, attorno alla quale gravita una costellazione di altri
sinonimi. E’ un’esperienza esistenziale che non è mai isolabile da un
complesso di componenti che la costituiscono.
Riposo e contemplazione
Il mondo
dell’uomo, contrariamente a quanto insinua la cultura borghese, non si
esaurisce in un esercizio professionale. Se il lavoratore fosse ridotto
all’attività produttiva, finirebbe alienato, diventerebbe uno schiavo,
simile alla macchina, sempre in moto senza arrivare a una meta. Se poi è
prevista una sosta, questa viene accordata per rintemprare le forze e
metterle in grado di produrre di più. Nasce l’uomo dissipato,
depauperato della sua dignità.
Per
riportarlo a se stesso c’è una sola via sicura: il riposo. Questo non è
soltanto una sospensione della fatica, un essere sfaccendati o non saper
cosa fare, un lasciar passare il tempo come quel borghese, che - a dire
di Weber – alla domenica guarda ogni cinque minuti l’orologio per vedere
quando il giorno finirà1.
Per costui il tempo, non occupato nel lavoro, è un’esperienza di vuoto e
noia. Non vive più in sé, avendo spostato il suo centro di gravitazione
al di fuori, nel cantiere dove trascorre gran parte della sua giornata.
Il suo è un male molto grave, che non gli consente d’essere se stesso.
Al suo io si è sovrapposto un altro io, estraneo e dispotico. Ha
imparato a lavorare, non ha imparato a riposare. A uomini del genere si
rivolgono le parole di Péguy: «Essi hanno il coraggio di lavorare. Non
hanno il coraggio di non far niente[…]. Di distendersi. Di riposarsi. Di
dormire. Disgraziati non sanno cos’è buono»2.
L’uomo è
dotato di pensiero, è chiamato a dare un senso a quanto fa e a chiarire
il fine delle sue azioni. Aristotele ha visto bene quando ha intuito che
la massima promozione dell’uomo si compie nella contemplazione. Le opere
manuali lo estrovertono, il riposo contemplativo lo riconsegna a se
stesso. La sosta che egli compie tutt’altro che condannarlo alla
passività, lo eleva alla più intensa esperienza di vita, segna il
passaggio da un mondo a un altro, dalla dipendenza alla fatica alla
libertà.
Mai il
riposo riesce tanto bene come nell’attività contemplativa. Qui infatti
l’uomo, dopo essersi impegnato a trasformare e a costruire il mondo,
finalmente si rivolge a se stesso, prende coscienza del suo essere e
presta ascolto alla voce della sua coscienza. L’anima si ferma, non ha
obiettivi che la sollecitano o desideri che la lacerano, trascinandola
al di fuori di sé. E’ arrivato il momento del riposo, che coincide con
quello della festa e della contemplazione. Questa ha un suo luogo
privilegiato: il tempio. Il vero contemplare si compie in luogo sacro,
dove lo stacco dal profano è netto, lascia cadere lontana la realtà
mediocre, grigia e banale del quotidiano. La presenza del sacro
estromette ogni intento che punta al possesso e all’utile, apre alla
trascendenza e all’autentico significato della festa3.
Il
riposo getta un ponte su un altro mondo rispetto a quello segnato dalla
ripetitività monotona del lavoro. Se poi ci si chiede da che cosa sia
sostenuto questo tempo, si scopre che alla sua radice è alimentato
dalla gioia. Riposo, contemplazione, esultanza, festa sono in stretto
rapporto tra loro. Dante stesso facendo parlare nella cantica del
Paradiso (XXI, 39) S. Pier Damiani, «contento ne’ pensier
contemplativi», coniuga tra loro i due caratteri: contentezza e
contemplazione. Non ci può essere l’una senza l’altra, a legarle assieme
è la loro intrinseca natura, più che un meccanismo associativo.
La festa
assumendo carattere sacro interrompe lo scorrere fugace del tempo
ordinario e fa breccia nell’eterno. La possibilità di prendervi parte
non è decisa dalla volontà del singolo, quasi fosse lui stesso a
inventare le festa4.
Questa è anzitutto dono, che include un complesso di componenti: il
silenzio, il raccoglimento, la capacità di stupirsi, il gioco libero di
tutte le facoltà umane, quali sentimento, fantasia, pensiero,
creatività. Accanto alla festa che inaugura il tempo della libertà si
trova, come componente costitutiva, il raccoglimento5.
Riposo e raccoglimento
Mai si
riposa così bene come là quando si contempla, ma per contemplare è
richiesto il silenzio e il raccoglimento. Finché si è in balia di mille
stimoli e distratti da altrettante voci, si vive nella dissipazione, si
è come «la canna sbattuta dal vento», di cui parla Pascal, qua e là, mai
in se stessi. Lo spirito si logora e disperde in molte occupazioni e
affanni, passa da un desiderio all’altro, è in continua ricerca di
sensazioni e brividi, lacerato da forze contrastanti. Si trova in
continuo stato di stanchezza, cui intende reagire aumentando la propria
attività. Il bisogno di rientrare in se stessi e scendere nel profondo
del proprio essere diventa urgente, è una necessità per sopravvivere.
E’ noto
l’invito di Agostino: rientra in te stesso, è dentro di te che ha
sede la verità. E’ necessario cambiare rotta. Non si può
vivere sempre di interessi frivoli che forse non sono falsi ma non sono
neppure veri, non sono nocivi ma non sono neppure edificanti. L’uomo
d’altra parte per venire in chiaro con se stesso non può rinunciare
all’alimento della verità.
Cosa
intende Agostino quando parla della verità interiore? La risposta è
piuttosto impegnativa, esige più d’una riflessione. Una cosa però può
essere detta. La verità per Agostino non è certo la scoperta d’un
meccanismo della psiche, né una conoscenza scientifica, né una nozione
logica. E’ un’esperienza esistenziale, che gravita intorno alla sfera
del cuore. Instaura un contatto con se stessi e ci fa sentire esseri
liberi, dotati di dignità e soprattutto ci mette in rapporto con la
radice ultima del proprio essere: Dio. «Grande meraviglia mi sorge a
questo punto; lo stupore mi invade. E gli uomini vanno ad ammirare le
altezze dei monti e gli immensi flutti del mare e i lunghissimi percorsi
dei fiumi e la vastità dell’oceano e i giri degli astri e dimenticano se
stessi»6.
Nel
raccoglimento si apre il panorama più vasto che esista: l’abisso del
cuore umano e quello ancora più insondabile di Dio. La scoperta del
mondo interiore mette la vertigine, che Agostino rende bene ricorrendo
all’uso degli esclamativi e, ancora di più, a una serie incalzante di
interrogativi. Non sono però gli interrogativi del dubbio scettico o
della diffidenza. Sospendono l’animo nell’incanto, trasmettono
sentimenti sani: gioia, riconoscenza, lode, amore. Sono i sentimenti
della vita beata.
In
questo clima l’anima si distende, si riposa e ricrea. Tra i tanti esseri
che incontra, i tanti eventi che fanno centro in lei e gli innumerevoli
affanni che la comprimono, arriva il riposo che la concentra
sull’essenziale e sulle domande vere. Ora finalmente il suo divagare,
dopo aver portato distruzione e squallore, si arresta. Dalla superficie,
dove scivolava indisturbata, passa alla vita intesa in senso verticale.
C’è
un’altra domanda che stuzzica la curiosità. Cosa si intende quando si
afferma che il raccoglimento è un’arte di riposare che ricrea? Non è uno
dei tanti luoghi comuni, poveri di senso? A diradare il sospetto basta
sostare brevemente e riflettere sulla piega che prendono le azioni, i
pensieri e i sentimenti alla cui origine ci sta il riposo. Non è
difficile capire come da questo parte un nuovo modo di vedere, valutare,
sentire e comunicare. Tutto acquista un nuovo volto, tutto diventa più
autentico.
Si pensi
all’individuo che rincasa dopo una giornata di fatiche sotto la volta
d’un cielo stellato. Egli va e porta con sé le delusioni patite, dalle
quali non riesce a staccarsi. L’amarezza che gli invade il cuore non gli
consentirà di vedere né la volta del cielo né le stelle. Nonostante sia
finita per lui la giornata della fatica, non è ancora nella disposizione
di riposare e se non è capace di riposo non è neppure capace di aprire
gli occhi all’incanto della natura. In lui ci sarà l’anima del
commerciante che continua a parlare e gli offusca lo sguardo. Si
supponga però che per un momento lasci cadere tutte le apprensioni che
l’hanno afflitto nella sua attività professionale e si senta libero con
il cuore aperto. Si avrà che le cose gli si fanno incontro e gli
parlano.
Ma per
sentire la voce degli esseri che ci circondano sono necessari alcuni
requisiti. Se alla parola non si fa precedere il silenzio degenera in
chiacchiera, in un estenuante vaniloquio. E’ ancora un parlare quello
dell’individuo che ininterrottamente racconta, rievoca, riferisce
episodi con tutti i minimi particolari, dando segno d’una scarsa
capacità astrattiva. Riporta le cose in maniera meccanica, senza
leggervi un significato. Così farebbe anche un papagallo se potesse
raccontare. Si ha l’impressione di trovarsi davanti ad un robot, una
specie di macchina dal moto uniforme. Nel suo dire non ci sono punti
salienti, fornisce una congerie di notizie, gettate assieme in modo
caotico, senza un centro e una periferia.
Penso a
quanto osservano molti critici. Essi lamentano come anche la parola può
ammalare. Ha colto nel segno Heidegger quando ha affermato che l’uomo è
linguaggio. Se questo si dilegua, divenendo insignificante per il suo
abuso inflazionistico, è segno che lo spirito stesso è malato e se
malato va guarito. Il rimedio è il silenzio o in altri termini il
riposo.
La parola ha una
struttura dialogica. Comporta per lo meno due persone: chi la proferisce
e chi l’ascolta. Se chi parla non dà ad essa alcun senso, è verosimile
pensare che anche chi dovrebbe ascoltare non ne faccia gran caso. Se ora
viene meno sia la funzione di chi parla sia quella di chi ascolta, la
parola nasce morta ed è urgente ricrearla. Essa chiede un seno materno
che la concepisca e, prima di partorirla, la tenga in un lungo stato di
incubazione. Solo dopo il riposo, dopo essere stata custodita nel
silenzio può riprendere la sua capacità di comunicare. Se è nel riposo
che è riposta la sorte del linguaggio, è giusto riconoscergli
un’importanza decisiva per la convivenza.
Dalla
parola parlata il passo a quella scritta è breve. Entra in campo
un’altra attività dello spirito: la lettura7.
Anche questa ha a che fare con il riposo. Va detto anzitutto che è
un’arte che si apprende creandovi la dovuta disposizione. C’è un leggere
frettoloso e distratto, che è tale perché ad esso è negato il tempo e la
calma. E’ la disposizione concentrata e distesa che rende recettivo il
lettore. La sua non è una funzione passiva. Deve infatti passare sotto
settaccio quanto gli è proposto. E’ provocato a prendere posizione,
dissentendo o approvando. Si dirà che tutto questo capita anche nei
tempi che non rientrano nella sfera del riposo. E’ vero, non occorre
aspettare il momento della distensione per valutare un testo. Eppure
l’atto della lettura è qualcosa di a sé stante, include sempre più
d’ogni altra operazione, in qualche modo il carattere del riposo.
L’esigenza che esso avanza è un’adeguata disposizione d’animo: serenità
ed equilibrio. Quando si legge, in fondo si riposa, si nutre lo spirito,
si intraprende un’azione che è l’opposto di quella che consuma e
distrae.
Accanto
al parlare e leggere si era accennato alla capacità di vedere. E’ venuto
il momento di ritornavi sopra.
Riposare e vedere
E’
risaputo che il riposare mette a tacere desideri, preoccupazioni e
assilli, in compenso fa scoprire cose che abitualmente sfuggono
all’attenzione. Non si notano perché lo sguardo è prigioniero di intenti
egoistici.
Si provi
a uscire per le vie d’una città senza lasciarsi prendere dalla fretta,
liberi di disporre a piacere del proprio tempo. Gli edifici, i
monumenti, le piazze, il fiume, i ponti, le chiese ci vengono incontro
come amici. La loro presenza è un richiamo al passato, rimanda a tempi
remoti, rievoca una storia, ricca di insegnamenti. Parla di uomini
geniali che si sono distinti nell’arte, nella letteratura, nella
scienza. Altri hanno legato il loro nome a gesti di eroismo e coraggio o
ad opere di beneficenza. Sarebbe un’ingratitudine godere dell’eredità da
loro tramandata ad alto prezzo e lasciarli cadere nella dimenticanza, ma
sarebbe anche un impoverimento della propria cultura.
Il tempo
del riposo diventa allora un tempo di memorie, aiuta a pensare e a
risalire alle radici. E’ giusto far sosta di tanto in tanto e non
preoccuparsi solo del presente e del futuro. Noi siamo come piante – ha
detto Heidegger -, la loro chioma è proporzionata alla profondità delle
radici. Non basta soffermarsi ai rami che si vedono, è ancora più
importante scendere nella profondità e scoprire la vita nascosta, quella
originaria.
Non
occorre andare a scuola per imparare. Ci sono insegnamenti impartiti in
modo spontaneo senza forzature, camminando per una via, soffermandosi
davanti a una lapide o entrando in una basilica. Essi entrano nell’animo
quasi di soppiatto, appunto come solo il tempo del riposo li sa
trasmettere.
Dalla
città il riposo ci può trasferire all’aperto, nella natura, in montagna,
dove s’incontrano piante, fiori, animali che solitamente non si vedono.
Suscitano stupore ed infondono serenità. Dicono la loro bellezza e a
volte anche la loro sofferenza. Non è vero che passando davanti ad un
ciuffo di anemoni o ad un pendio di narcisi si è sorpresi da una gioia
incontenibile? Se però ci si accorge che appassiscono per mancanza di
acqua si prova tristezza. Si pensa: soffrono la sete. Non so se si può
dire che le piante soffrono, so però quello che sento quando le vedo
prorompere di vitalità e quando le vedo inaridire. So anche che nel
contatto con gli esseri viventi più umili si allacciano delle alleanze.
Si dirà: tutto questo è poi riposo? Se non si può chiamare riposo, è
però l’atmosfera che solo il riposo fa respirare, il mondo nel quale
esso ci introduce.
E’
detto: la natura è il miglior psichiatra. Un’affermazione esagerata?
Mettiamola allora alla prova. Abbandoniamo gli affari che ci preoccupano
e andiamo in montagna. C’è un sentiero che porta in valle, poi risale su
un pendio entro un folto bosco di pini e ad un certo punto sbocca su una
distesa di prati. Gli occhi si riempiono di stupore e un po’ alla volta
i pensieri cupi e i sentimenti acidi se ne vanno. Come è bello trovarsi
in questi luoghi di silenzio e di pace. Come si è contenti di ammirare
la cornice di monti che si para davanti. Si capisce allora che il
contatto con la natura è salutare, purifica l’anima, ha una funzione
catartica. Si rientra in casa forse fisicamente stanchi eppure riposati.
A
pensarci non è la natura che sblocca gli intasamenti psicologici e
seppellisce le amarezze e smorza le ansie. La natura di per sé è
indifferente, da essa non parte alcuna iniziativa. E’ piuttosto il modo
di accostarla che la fa parlare. E’ merito del riposo se ci si sente
ricaricati di energie, più sereni e gioiosi, meno diffidenti e
pessimisti. Si potrebbe anche dire: è la natura che offre la possibilità
di godere il riposo. Per curare le ferite sono certo necessari i
farmaci, ma ancora più di questi vale il riposo, soprattutto contro lo
stress, l’irritabilità e il malumore.
«Il luogo del
riposo»
L’esperienza del riposo ha un suo tempo preferito. In genere si
riferisce alla fruizione d’uno stato d’animo gradevole del presente,
eppure essa si rivolge anche al futuro.
Sulla
scorta della Bibbia la liturgia parla d’un riposo che anticipa il
futuro, è preludio d’una requies aeterna. Abitualmente lo si
sperimenta seguendo una curva che tocca punti di grande intensità, per
poi defluire consegnandoci alla fatica quotidiana, sia pure con i suoi
effetti benefici. La Bibbia prospetta un riposo che inizia e non
finisce. Ad esso si associa la speranza e soprattutto l’idea del dono.
In ogni riposo c’è qualcosa di gratuito. Non ne siamo noi gli esclusivi
autori. Ci si può disporre, non è detto per questo che riesca. La buona
volontà è necessaria, ma non sufficiente. C’è anche una mano
provvidente, che deve farsi avanti e creare il presupposto della
distensione.
Quanto
è promesso dalla Bibbia è frutto di grazia. Non è più la visione d’un
panorama, è un essere ammessi alla visione di Dio. Diventa sinonimo di
festa, beatitudine ed esuberanza vitale. La Genesi (1-2,1-3) presenta
Dio come creatore dell’universo. Sei giorni di attività per trarre gli
esseri dal nulla e ordinarli. Ognuno di questi giorni è segnato dal
limite dell’inizio e della fine. Non così il settimo giorno. Esso non
conosce tramonto, annuncia un riposo perenne, che fa posto al sentimento
dell’ammirazione e dell’autocompiacenza per le meraviglie del creato.
Qui la creazione, che al momento geme in attesa della salvezza, si
realizza in pienezza. Da essa è bandita ogni traccia di lutto e di
pianto, peccato e morte.
Dio è
l’essere del settimo giorno (Es 20, 8-11): signore assoluto libero e
sovrano. Il credente è chiamato a parteciparvi. Ad esso è data la
domenica, che sospende dal lavoro e invita alla sosta e alla festa. Si
anticipa così il settimo giorno, promessa e speranza che include
presente e futuro. Nel riposo annunciato dalla rivelazione si ha il dono
della salvezza che onora l’uomo quale signore, elevato al di sopra del
tempo e della morte8.
Nel
riposo si compie qualcosa di fondamentale dell’essere umano, rinasce la
vita con le sue facoltà più elevate. I momenti ad esso concessi
nell’arco della giornata, dal sonno al tempo libero, sono molti,
importante è saperli utilizzare adeguatamente. Sarebbe sbagliato
pensarli come un tempo perso, là dove al contrario costituiscono il
tempo più autentico della vita.
La
rivelazione biblica non si limita a ribadire quanto la riflessione
rileva: la fugace esperienza capace di emancipare dalla fatica e
sofferenza. Essa parla d’un “luogo del riposo eterno” che riscatta
quello temporale ed effimero; entrare in esso equivale a entrare in
patria dall’esilio, dalla terra della morte a quella della vita.
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