n. 5
maggio 2003

 

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Il riposo: via per trovare se stessi e Dio
di Mario Bizzotto

 

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E' vero quanto afferma il proverbio popolare: l’uomo è nato per lavorare, ma è altrettanto vero che egli è più grande del suo lavoro e lo è in forza della sua capacità di riposare. Sa infatti sospendere la sua attività produttiva per goderne il frutto. Rivendica come un diritto la sua libertà, vuole disporre di se stesso secondo quel corredo di inclinazioni che gli sono più congeniali. Sull’ingresso dei campi di concentramento i nazisti avevano coniato il detto: il lavoro ci fa liberi. L’affermazione non è sbagliata, interpreta una verità incontestabile. Chi infatti non gode del diritto del lavoro è costretto a vivere di stenti, a mendicare, essere esposto a rifiuti e umiliazioni.  Eppure non è nel lavoro che si gode il grado più alto di libertà ma nel riposo, quando l’uomo esprime il meglio di se stesso: la sua creatività, il suo spirito chiamato alla contemplazione, al gioco, alla festa, alla pace, al raccoglimento e al silenzio. Già con questa riflessione ci si accorge come il riposo sia una parola chiave, attorno alla quale gravita una costellazione di altri sinonimi. E’ un’esperienza esistenziale che non è mai isolabile da un complesso di componenti che la costituiscono.

  

Riposo e contemplazione

 Il mondo dell’uomo, contrariamente a quanto insinua la cultura borghese, non si esaurisce in un esercizio professionale. Se il lavoratore fosse ridotto all’attività produttiva, finirebbe alienato, diventerebbe uno schiavo, simile alla macchina, sempre in moto senza arrivare a una meta. Se poi è prevista una sosta, questa viene accordata per rintemprare le forze e metterle in grado di produrre di più. Nasce l’uomo dissipato, depauperato della sua dignità.

Per riportarlo a se stesso c’è una sola via sicura: il riposo. Questo non è soltanto una sospensione della fatica, un essere sfaccendati o non saper cosa fare, un lasciar passare il tempo come quel borghese, che - a dire di Weber – alla domenica guarda ogni cinque minuti l’orologio per vedere quando il giorno finirà1. Per costui il tempo, non occupato nel lavoro, è un’esperienza di vuoto e noia. Non vive più in sé, avendo spostato il suo centro di gravitazione al di fuori, nel cantiere dove trascorre gran parte della sua giornata. Il suo è un male molto grave, che non gli consente d’essere se stesso. Al suo io si è sovrapposto un altro io, estraneo e dispotico. Ha imparato a lavorare, non ha imparato a riposare. A uomini del genere si rivolgono le parole di Péguy: «Essi hanno il coraggio di lavorare. Non hanno il coraggio di non far niente[…]. Di distendersi. Di riposarsi. Di dormire. Disgraziati non sanno cos’è buono»2.

L’uomo è dotato di pensiero, è chiamato a dare un senso a quanto fa e a chiarire il fine delle sue azioni. Aristotele ha visto bene quando ha intuito che la massima promozione dell’uomo si compie nella contemplazione. Le opere manuali lo estrovertono, il riposo contemplativo lo riconsegna a se stesso. La sosta che egli compie tutt’altro che condannarlo alla passività, lo eleva alla più intensa esperienza di vita, segna il passaggio da un mondo a un altro, dalla dipendenza alla fatica alla libertà.

Mai il riposo riesce tanto bene come nell’attività contemplativa. Qui infatti l’uomo, dopo essersi impegnato a trasformare e a costruire il mondo, finalmente si rivolge a se stesso, prende coscienza del suo essere e presta ascolto alla voce della sua coscienza. L’anima si ferma, non ha obiettivi che la sollecitano o desideri che la lacerano, trascinandola al di fuori di sé. E’ arrivato il momento del riposo, che coincide con quello della festa e della contemplazione. Questa ha un suo luogo privilegiato: il tempio. Il vero contemplare si compie in luogo sacro, dove lo stacco dal profano è netto, lascia cadere lontana la realtà mediocre, grigia e banale del quotidiano. La presenza del sacro estromette ogni intento che punta al possesso e all’utile, apre alla trascendenza e all’autentico significato della festa3.

Il riposo getta un ponte su un altro mondo rispetto a quello segnato dalla ripetitività monotona del lavoro. Se poi ci si chiede da che cosa sia sostenuto questo tempo, si scopre che alla sua radice  è alimentato dalla gioia. Riposo, contemplazione, esultanza, festa sono in stretto rapporto tra loro. Dante stesso facendo parlare nella cantica del Paradiso (XXI, 39) S. Pier Damiani, «contento ne’ pensier contemplativi», coniuga tra loro i due caratteri: contentezza e contemplazione. Non ci può essere l’una senza l’altra, a legarle assieme è la loro intrinseca natura, più che un meccanismo associativo.

La festa assumendo carattere sacro interrompe lo scorrere fugace del tempo ordinario e fa breccia nell’eterno. La possibilità di prendervi parte non è decisa dalla volontà del singolo, quasi fosse lui stesso a inventare le festa4. Questa è anzitutto dono, che include un complesso di componenti: il silenzio, il raccoglimento, la capacità di stupirsi, il gioco libero di tutte le facoltà umane, quali sentimento, fantasia, pensiero, creatività. Accanto alla festa che inaugura il tempo della libertà si trova, come componente costitutiva, il raccoglimento5.

 

Riposo e raccoglimento

 Mai si riposa così bene come là quando si contempla, ma per contemplare è richiesto il silenzio e il raccoglimento. Finché si è in balia di mille stimoli e distratti da altrettante voci, si vive nella dissipazione, si è come «la canna sbattuta dal vento», di cui parla Pascal, qua e là, mai in se stessi. Lo spirito si logora e disperde in molte occupazioni e affanni, passa da un desiderio all’altro, è in continua ricerca di sensazioni e brividi, lacerato da forze contrastanti. Si trova in continuo stato di stanchezza, cui intende reagire aumentando la propria attività. Il bisogno di rientrare in se stessi e scendere nel profondo del proprio essere diventa urgente, è una necessità per sopravvivere.

E’ noto l’invito di Agostino: rientra in te stesso, è dentro di te che ha sede la verità. E’ necessario cambiare rotta. Non si può vivere sempre di interessi frivoli che forse non sono falsi ma non sono neppure veri, non sono nocivi ma non sono neppure edificanti. L’uomo d’altra parte per venire in chiaro con se stesso non può rinunciare all’alimento della verità.

 

Cosa intende Agostino quando parla della verità interiore? La risposta è piuttosto impegnativa, esige più d’una riflessione. Una cosa però può essere detta. La verità per Agostino non è certo la scoperta d’un meccanismo della psiche, né una conoscenza scientifica, né una nozione logica. E’ un’esperienza esistenziale, che gravita intorno alla sfera del cuore. Instaura un contatto con se stessi e ci fa sentire esseri liberi, dotati di dignità e soprattutto ci mette in rapporto con la radice ultima del proprio essere: Dio. «Grande meraviglia mi sorge a questo punto; lo stupore mi invade. E gli uomini vanno ad ammirare le altezze dei monti e gli immensi flutti del mare e i lunghissimi percorsi dei fiumi e la vastità dell’oceano e i giri degli astri e dimenticano se stessi»6.

Nel raccoglimento si apre il panorama più vasto che esista: l’abisso del cuore umano e quello ancora più insondabile di Dio. La scoperta del mondo interiore mette la vertigine, che Agostino rende bene ricorrendo all’uso degli esclamativi e, ancora di più, a una serie incalzante di interrogativi. Non sono però gli interrogativi del dubbio scettico o della diffidenza. Sospendono l’animo nell’incanto, trasmettono sentimenti sani: gioia, riconoscenza, lode, amore. Sono i sentimenti della vita beata.

In questo clima l’anima si distende, si riposa e ricrea. Tra i tanti esseri che incontra, i tanti eventi che fanno centro in lei e gli innumerevoli affanni che la comprimono, arriva il riposo che la concentra sull’essenziale e sulle domande vere. Ora finalmente il suo divagare, dopo aver portato distruzione e squallore, si arresta. Dalla superficie, dove scivolava indisturbata, passa alla vita intesa in senso verticale.

 C’è un’altra domanda che stuzzica la curiosità. Cosa si intende quando si afferma che il raccoglimento è un’arte di riposare che ricrea? Non è uno dei tanti luoghi comuni, poveri di senso? A diradare il sospetto basta sostare brevemente e riflettere sulla piega che prendono le azioni, i pensieri e i sentimenti alla cui origine ci sta il riposo. Non è difficile capire come da questo parte un nuovo modo di vedere, valutare, sentire e comunicare. Tutto acquista un nuovo volto, tutto diventa più autentico.

Si pensi all’individuo che rincasa dopo una giornata di fatiche sotto la volta d’un cielo stellato. Egli va e porta con sé le delusioni patite, dalle quali non riesce a staccarsi. L’amarezza che gli invade il cuore non gli consentirà di vedere né la volta del cielo né le stelle. Nonostante sia finita per lui la giornata della fatica, non è ancora nella disposizione di riposare e se non è capace di  riposo non è neppure capace di aprire gli occhi all’incanto della natura. In lui ci sarà l’anima del commerciante che continua a parlare e gli offusca lo sguardo. Si supponga però che per un momento lasci cadere tutte le apprensioni che l’hanno afflitto nella sua attività professionale e si senta libero con il cuore aperto. Si avrà che le cose gli si fanno incontro e gli parlano.

 Ma per sentire la voce degli esseri che ci circondano sono necessari alcuni requisiti. Se alla parola non si fa precedere il silenzio degenera in chiacchiera, in un estenuante vaniloquio. E’ ancora un parlare quello dell’individuo che ininterrottamente racconta, rievoca, riferisce episodi con tutti i minimi particolari, dando segno d’una scarsa capacità astrattiva. Riporta le cose in maniera meccanica, senza leggervi un significato. Così farebbe anche un papagallo se potesse raccontare. Si ha l’impressione di trovarsi davanti ad un robot, una specie di macchina dal moto uniforme. Nel suo dire non ci sono punti salienti, fornisce una congerie di notizie, gettate assieme in modo caotico, senza un centro e una periferia.

Penso a quanto osservano molti critici. Essi lamentano come anche la parola può ammalare. Ha colto nel segno Heidegger quando ha affermato che l’uomo è linguaggio. Se questo si dilegua, divenendo insignificante per il suo abuso inflazionistico, è segno che lo spirito stesso è malato e se malato va guarito. Il rimedio è il silenzio o in altri termini il riposo.

 La parola ha una struttura dialogica. Comporta per lo meno due persone: chi la proferisce e chi l’ascolta. Se chi parla non dà ad essa alcun senso, è verosimile pensare che anche chi dovrebbe ascoltare non ne faccia gran caso. Se ora viene meno sia la funzione di chi parla sia quella di chi ascolta, la parola nasce morta ed è urgente ricrearla. Essa chiede un seno materno che la concepisca e, prima di partorirla, la tenga in un lungo stato di incubazione. Solo dopo il riposo, dopo essere stata custodita nel silenzio può riprendere la sua capacità di comunicare. Se è nel riposo che è riposta la sorte del linguaggio, è giusto riconoscergli un’importanza decisiva per la convivenza.

 Dalla parola parlata il passo a quella scritta è breve. Entra in campo un’altra attività dello spirito: la lettura7. Anche questa ha a che fare con il riposo. Va detto anzitutto che è un’arte che si apprende creandovi la dovuta disposizione. C’è un leggere frettoloso e distratto, che è tale perché ad esso è negato il tempo e la calma. E’ la disposizione concentrata e distesa che rende recettivo il lettore. La sua non è una funzione passiva. Deve infatti passare sotto settaccio quanto gli è proposto. E’ provocato a prendere posizione, dissentendo o approvando. Si dirà che tutto questo capita anche nei tempi che non rientrano nella sfera del riposo. E’ vero, non occorre aspettare il momento della distensione per valutare un testo. Eppure l’atto della lettura è qualcosa di a sé stante, include sempre più d’ogni altra operazione, in qualche modo il carattere del riposo. L’esigenza che esso avanza è un’adeguata disposizione d’animo: serenità ed equilibrio. Quando si legge, in fondo si riposa, si nutre lo spirito, si intraprende un’azione che è l’opposto di quella che consuma e distrae.

Accanto al parlare e leggere si era accennato alla capacità di vedere. E’ venuto il momento di ritornavi sopra.

  

Riposare e vedere

 E’ risaputo che il riposare mette a tacere desideri, preoccupazioni e assilli, in compenso fa scoprire cose che abitualmente sfuggono all’attenzione. Non si notano perché lo sguardo è prigioniero di intenti egoistici.

Si provi a uscire per le vie d’una città senza lasciarsi prendere dalla fretta, liberi di disporre a piacere del proprio tempo. Gli edifici, i monumenti, le piazze, il fiume, i ponti, le chiese ci vengono incontro come amici. La loro presenza è un richiamo al passato, rimanda a tempi remoti, rievoca una storia, ricca di insegnamenti. Parla di uomini geniali che si sono distinti nell’arte, nella letteratura, nella scienza. Altri hanno legato il loro nome a gesti di eroismo e coraggio o ad opere di beneficenza. Sarebbe un’ingratitudine godere dell’eredità da loro tramandata ad alto prezzo e lasciarli cadere nella dimenticanza, ma sarebbe anche un impoverimento della propria cultura.

Il tempo del riposo diventa allora un tempo di memorie, aiuta a pensare e a risalire alle radici. E’ giusto far sosta di tanto in tanto e non preoccuparsi solo del presente e del futuro. Noi siamo come piante – ha detto Heidegger -, la loro chioma è proporzionata alla profondità delle radici. Non basta soffermarsi ai rami che si vedono, è ancora più importante scendere nella profondità e scoprire la vita nascosta, quella originaria.

 Non occorre andare a scuola per imparare. Ci sono insegnamenti impartiti in modo spontaneo senza forzature, camminando per una via, soffermandosi davanti a una lapide o entrando in una basilica. Essi entrano nell’animo quasi di soppiatto, appunto come solo il tempo del riposo li sa trasmettere.

Dalla città il riposo ci può trasferire all’aperto, nella natura, in montagna, dove s’incontrano piante, fiori, animali che solitamente non si vedono. Suscitano stupore ed infondono serenità. Dicono la loro bellezza e a volte anche la loro sofferenza. Non è vero che passando davanti ad un ciuffo di anemoni o ad un pendio di narcisi si è sorpresi da una gioia incontenibile? Se però ci si accorge che appassiscono per mancanza di acqua si prova tristezza. Si pensa: soffrono la sete. Non so se si può dire che le piante soffrono, so però quello che sento quando le vedo prorompere di vitalità e quando le vedo inaridire. So anche che nel contatto con gli esseri viventi più umili si allacciano delle alleanze. Si dirà: tutto questo è poi riposo? Se non si può chiamare riposo, è però l’atmosfera che solo il riposo fa respirare, il mondo nel quale esso ci introduce.

 E’ detto: la natura è il miglior psichiatra. Un’affermazione esagerata? Mettiamola allora alla prova. Abbandoniamo gli affari che ci preoccupano e andiamo in montagna. C’è un sentiero che porta in valle, poi risale su un pendio entro un folto bosco di pini e ad un certo punto sbocca su una distesa di prati. Gli occhi si riempiono di stupore e un po’ alla volta i pensieri cupi e i sentimenti acidi se ne vanno. Come è bello trovarsi in questi luoghi di silenzio e di pace. Come si è contenti di ammirare la cornice di monti che si para davanti. Si capisce allora che il contatto con la natura è salutare, purifica l’anima, ha una funzione catartica. Si rientra in casa forse fisicamente stanchi eppure riposati.

 A pensarci non è la natura che sblocca gli intasamenti psicologici e seppellisce le amarezze e smorza le ansie. La natura di per sé è indifferente, da essa non parte alcuna iniziativa. E’ piuttosto il modo di accostarla che la fa parlare. E’ merito del riposo se ci si sente ricaricati di energie, più sereni e gioiosi, meno diffidenti e pessimisti. Si potrebbe anche dire: è la natura che offre la possibilità di godere il riposo. Per curare le ferite sono certo necessari i farmaci, ma ancora più di questi vale il riposo, soprattutto contro lo stress, l’irritabilità e il malumore.

 

«Il luogo del riposo»

 L’esperienza del riposo ha un suo tempo preferito. In genere si riferisce alla fruizione d’uno stato d’animo gradevole del presente, eppure essa si rivolge anche al futuro.

Sulla scorta della Bibbia la liturgia parla d’un riposo che anticipa il futuro, è preludio d’una requies aeterna. Abitualmente lo si sperimenta seguendo una curva che tocca punti di grande intensità, per poi defluire consegnandoci alla fatica quotidiana, sia pure con i suoi effetti benefici. La Bibbia prospetta un riposo che inizia e non finisce. Ad esso si associa la speranza e soprattutto l’idea del dono. In ogni riposo c’è qualcosa di gratuito. Non ne siamo noi gli esclusivi autori. Ci si può disporre, non è detto per questo che riesca. La buona volontà è necessaria, ma non sufficiente. C’è anche una mano provvidente, che deve farsi avanti e creare il presupposto della distensione.

 Quanto è promesso dalla Bibbia è frutto di grazia. Non è più la visione d’un panorama, è un essere ammessi alla visione di Dio. Diventa sinonimo di festa, beatitudine ed esuberanza vitale. La Genesi (1-2,1-3) presenta Dio come creatore dell’universo. Sei giorni di attività per trarre gli esseri dal nulla e ordinarli. Ognuno di questi giorni è segnato dal limite dell’inizio e della fine. Non così il settimo giorno. Esso non conosce tramonto, annuncia un riposo perenne, che fa posto al sentimento dell’ammirazione e dell’autocompiacenza per le meraviglie del creato. Qui la creazione, che al momento geme in attesa della salvezza, si realizza in pienezza. Da essa è bandita ogni traccia di lutto e di pianto, peccato e morte.

 Dio è l’essere del settimo giorno (Es 20, 8-11): signore assoluto libero e sovrano. Il credente è chiamato a parteciparvi. Ad esso è data la domenica, che sospende dal lavoro e invita alla sosta e alla festa. Si anticipa così il settimo giorno, promessa e speranza che include presente e futuro. Nel riposo annunciato dalla rivelazione si ha il dono della salvezza che onora l’uomo quale signore, elevato al di sopra del tempo e della morte8.

 Nel riposo si compie qualcosa di fondamentale dell’essere umano, rinasce la vita con le sue facoltà più elevate. I momenti ad esso concessi nell’arco della giornata, dal sonno al tempo libero, sono molti, importante è saperli utilizzare adeguatamente. Sarebbe sbagliato pensarli come un tempo perso, là dove al contrario costituiscono il tempo più autentico della vita.

La rivelazione biblica non si limita a ribadire quanto la riflessione rileva: la fugace esperienza capace di emancipare dalla fatica e sofferenza. Essa parla d’un “luogo del riposo eterno” che riscatta quello temporale ed effimero; entrare in esso equivale a entrare in patria dall’esilio, dalla terra della morte a quella della vita.

   

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