n. 5
maggio 2003

 

Altri articoli disponibili

Riciclando
di Maria Mori

 

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

Lo aveva già sottolineato un po’ di anni fa don Tonino Bello (di cui quest’anno ricordiamo i dieci anni dalla morte), in un suo dolcissimo saggio sulla figura di san Giuseppe1: oggi non si ripara più nulla! Grazie alla imperante filosofia dell’«usa e getta», tipica della società dei consumi, davvero buttiamo via di tutto: quaderni appena iniziati, vestiti che sono ormai demodé (ma fuori moda rispetto a che cosa, non lo sappiamo bene), contenitori di ogni tipo, piatti interi di cibo… e poi anche affetti, amicizie, ricordi, sentimenti.

Se dovessimo stilare, come fecero gli antichi greci e romani, una sorta di classifica di quelle che sono le «opere» distintive della nostra civiltà odierna, non potremmo certo tralasciare le discariche: infatti, se è vero che gli enormi immondezzai a cielo aperto non hanno proprio nulla di artistico, è però anche innegabile che essi parlano di noi, del nostro lavoro, della nostra cultura, del nostro modo di vivere.

In questo contesto, sobrietà significa non certo azzerare i consumi, bensì contenerli, attraverso un uso avveduto degli oggetti – di qualsiasi genere essi siano –, il che comporta anche un sapiente riutilizzo degli stessi. Ridurre, recuperare, riparare e rispettare sono i quattro imperativi, i quattro pilastri su cui si poggia la scelta di sobrietà coniugata alla nostra vita quotidiana2. L’ultimo di questi suggerimenti sta un po’ alla base degli altri tre: io sono chiamata a rispettare - pur dando ad esse il giusto valore - le cose che possiedo e che aiutano e molto spesso facilitano la mia vita. Dietro il rispetto per le cose c’è il rispetto per l’uomo, per gli uomini che le hanno prodotte, per il loro lavoro, per il loro impegno, per la loro fatica. Ancora, dietro il rispetto per le cose c’è il rispetto per il creato, per la natura che fornisce tutte le materie prime per produrre questi oggetti e che necessita il nostro aiuto per smaltirli in maniera più assennata.

Sulla base del rispetto, dunque, è possibile anche imparare a recuperare, riparare, riciclare. Ciò significa svincolarsi dalla logica dell’«usa e getta» e da quella, altrettanto perversa in quanto acceca la nostra capacità di scelta, delle mode, dell’ in and out.

Questa lezione di sobrietà ci è esemplarmente impartita dai poveri e io ringrazio il buon Dio per avere l’opportunità quotidiana di vedere e sperimentare un tale profetico magistero. I poveri non gettano nulla, i poveri sanno scorgere il possibile riutilizzo di qualsiasi oggetto, anche il più sporco, il più scolorito, il più crepato, sbeccato, sbrecciato… Se a un povero tu dai in mano una tanica vuota, subito la utilizzerà per conservarvi l’acqua; di una scatola vuota di gelato ne farà una fioriera per l’altare della Chiesa e di una di pomodori pelati un vaso per le piante di casa propria. In questo, i poveri sono come i bambini, che nei loro giochi sanno - con maestria e con fantasia - fare uso di qualsiasi oggetto, anche di quelli che, secondo l’ottica di noi adulti che abbiamo dimenticato di essere stati bambini, sono del tutto inutilizzabili.

Dai poveri ci viene dunque questo insegnamento così importante per il futuro di tutti noi e del nostro mondo ed è bello notare come, proprio dai cosiddetti «bassifondi della storia», dalle discariche delle grandi megalopoli del Sud del mondo, provengano alcuni dei più interessanti progetti di cooperazione, legati proprio a questa logica del riciclaggio.

E noi consacrati? Forse dovremmo assumerci più responsabilità e ricoprire un ruolo più di primo piano in questa ricerca di sobrietà riguardo ai nostri consumi: perlomeno dovremmo comprendere e convenire che, mettendoci acriticamente sulla scia della logica del consumismo, tradiamo le nostre stesse origini, il sogno dei nostri padri e delle nostre madri che, sulle rovine dell’Impero romano, seppero promuovere uno sviluppo, sostenibile e armonioso, del loro ambiente. I nostri padri e madri che, in quelli che altri poi denominarono «secoli bui», seppero portare la luce del Vangelo sposata con uno stile di vita semplice, austero e rispettoso del creato e dell’uomo. Uno stile sobrio, per l’appunto, come quello che tanti cittadini di questo nuovo impero ormai in declino attendono di vedere da tutti noi.

 

Torna indietro