Una fitta tradizione di teologi e predicatori
e semplici devoti, soprattutto nell’età moderna e fino a pochi decenni
fa, ha plasmato la figura della madre di Gesù come modello di devozione
e l’ha associata a valori quali l’umiltà, la disponibilità, la
verecondia e l’interiorità in
ascolto.
Quest’ultimo requisito è fondamentale e ha
saldi fondamenti scritturistici; non però quando viene troppo
sbrigativamente ridotto al silenzio.
Si tratta, è chiaro, di uno sviluppo ascetico dell’affermazione che
ricorre due volte nel capitolo 2° del vangelo di Luca (vv.19 e 51):
«Maria conservava tutte queste cose meditandole nel suo cuore». Nel suo
cuore, e dunque, si presumeva, in silenzio. E questo silenzio, che nelle
sue valenze forti è un dato teologico-spirituale, veniva indebitamente
amplificato, fino a diventare un
modus vivendi, assolutizzato fino
a costituire la caratteristica di un’esistenza intera. Questa
applicazione non legittima e non disinteressata chiede un ripensamento
critico: ne dipendono sia l’immagine della madre di Gesù che accogliamo
in noi, sia la nostra idea stessa di interiorità, e quindi la vita
spirituale.
A parte il fatto che il cosiddetto silenzio
di Maria nei vangeli è piuttosto silenzio
suMaria
da parte degli evangelisti, quel «meditare nel cuore» su cui si fonda
per gran parte l’immagine della Donna del Silenzio è un’espressione
biblica spesso riferita ai giusti che sono soliti vivere alla presenza
di Dio. Non vuol dire che la persona a cui si riferisce sia taciturna di
temperamento, ma che è abituata a pregare e a riflettere.
E di solito chi è abituato a riflettere sa
tacere e sa parlare, secondo quello che le circostanze richiedono,
secondo quanto detta la coscienza illuminata dallo Spirito.
POLICROMO E MULTISONO SILENZIO
Quindi semmai è sul silenzio nostro che la
figura evangelica di Maria ci chiede di riflettere: sul silenzio che ha
un valore grande - non assoluto, però – nella vita di fede e nella
preghiera sia personale sia liturgica. Se viene inteso esclusivamente in
senso intimista o confuso con il rifiuto, il timore della parola,
diventa un silenzio povero, quantomeno a senso unico, e non esente da
rischi. I silenzi non sono tutti dello stesso genere, dello stesso
colore. Vi è il silenzio del raccoglimento e dell’attesa, quello di
accoglienza, di appropriazione, di pienezza; il silenzio che medita e
quello che contempla. Qualche volta anche un silenzio che stordisce e
disperde: infatti per fare silenzio non basta “non parlare”. Forse il
silenzio, quando ci si avvicina alla soglia dell’ineffabile, è davvero
superiore a ogni parola; ma per arrivare a quello, occorre che le parole
necessarie siano state dette.
Il silenzio vero è tutt’altra cosa dal
mutismo: dice apertura, aiuta la comunicazione, è animato dallo Spirito.
Tra silenzio e mutismo c’è più o meno la
stessa differenza che intercorre tra la parola e le chiacchiere. Il
silenzio prelude alla rivelazione, dice
apertura;
il mutismo chiude alla rivelazione e al rapporto. Il silenzio vero non
può fare a meno dell’ascolto - e quindi, da un certo punto di vista,
della parola: con e senza maiuscole. Ascolto e parola sono in funzione
reciproca.
ASCOLTO, ATTENZIONE, RELAZIONE
L’ascolto, segno e funzione della natura
‘aperta’ della persona, che permette di uscire dalla solitudine
autoreferenziale, è indispensabile in una persona –come in una
relazione, come in una collettività umana… – armonizzata sotto il segno
dell’integralità. Attraverso l’ascolto l’io dilata i propri confini e si
apre a un tu; l’ascolto cambia le cose, in chi ascolta e anche in chi
parla.
È quasi superfluo perciò dire che, come il
silenzio non è mutismo, così l’ascolto è ben altra cosa dallo stare
educatamente e apparentemente
zitti finché l’interlocutore non
ha finito di dire la sua (benché anche questo rudimentale segno di
civiltà sia opportuno e da raccomandare, in un mondo in cui tutti
parlano sopra gli altri e si tolgono la parola, come in certi dibattiti
televisivi):
anche lo “stare a sentire” può essere vissuto
con lo spirito chiuso o in atteggiamento di difesa, e allora non è
ascolto, ma solo la sua imitazione esteriore – se non la sua caricatura.
Ascolto vero dell’altro significa smettere di considerare se stessi e la
propria esperienza come norma fissa dell’umano. È un lavoro incessante
di apertura del cuore e di vittoria sulla paura, un lavoro che trascende
le semplici forze umane e mette in primo piano l’agire dello Spirito.
La stessa preghiera è in primo luogo ascolto
della parola di Dio che risuona nella Scrittura, nella storia umana,
nella coscienza individuale. Significa scoprire tutta la realtà come
parola di Dio, acquisire la capacità di leggere la propria piccola
storia personale come storia di salvezza, il proprio quotidiano come
spazio di salvezza.
OBBEDIENZA COME ASCOLTO
Nella tradizione biblica la fede - risposta
di secondo livello - nasce dall’ascolto; l’ascolto a sua volta nasce
dalla Parola. I grandi interlocutori di Dio nei due Testamenti sono in
primo luogo ascoltatori della Parola. Per gli Israeliti il comando
religioso fondamentale e insieme l’equivalente del nostro Simbolo di
fede e la preghiera del mattino e della sera, è lo
Shema’ Israel
(«Ascolta, Israele…», cf Dt 6,4-9; 11,13-21).
L’invito ad ascoltare ricorre spesso nell’esortazione profetica e nei
salmi. Anche il Servo del Signore è un fedele che ascolta “come gli
iniziati”, uno a cui Dio ha aperto l’orecchio (cf Is 50,4-5). Ascoltare
la parola di Dio e fare la sua volontà sono realtà comunicanti,
indistinguibili, e in molti luoghi della Scrittura si quivalgono anche
come espressione. Ascoltare sembra però più interiore e profondo, più
creativo e più globale.
Lo stesso Gesù è in primo luogo “uno che
ascolta”: vive la sua vita in costante ascolto e dialogo con il Padre, e
per questo è dinanzi agli altri trasparenza e irradiazione della logica
e dello stile del Padre.
Nel racconto della Trasfigurazione in Matteo,
la voce del Padre dal cielo proclama: «Questi è il mio figlio
prediletto… Ascoltatelo».
Così Gesù dirà «Mia madre e i miei fratelli sono coloro che
ascoltano
la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc
8,21). Ancora una volta ascoltare e obbedire sono indistinguibili.
Sembrano parole volte a relativizzare la
figura di sua madre; ma potrebbe essere anche un modo di sottolinearne
la dignità, illuminandola però di una diversa luce.
MARIA MODELLO DEL DISCEPOLO IN ASCOLTO
Per Luca anche la madre di Gesù è figura di
ascolto; è quasi il prototipo del discepolo. Come benissimo dice
l’esortazione apostolica Marialis
cultus del 1974, che ha sancito il
rinnovamento della mariologia ufficiale nella Chiesa cattolica: «Maria
è la Vergine in ascolto, che
accoglie la parola di Dio con fede;
e questa fu per lei premessa e via alla maternità divina, poiché, come
intuì sant'Agostino, la beata Maria colui (Gesù) che partorì credendo,
credendo concepì…» (MC 17, corsivi nostri).
È vero, l’attenzione tradizionale è stata
posta soprattutto sul suo fiat
– filtrato nei secoli attraverso
un modello di femminilità unicamente ricettiva -, ma è importante per
noi tutto l’insieme del dialogo di Maria con l’angelo, espressione
simbolico-narrativa dello “scontro con Dio” che si trova al fondo di
ogni autentica vicenda di vocazione. Maria ci viene presentata come
paradigma dell’ascolto, e l’ascolto è anche umanissima abitudine a
riflettere, necessaria (anche se non sufficiente da sola) a costituire
l’ascolto di fede. L’ascolto dice in primo luogo attenzione,
orientamento dello spirito umano verso il progetto di Dio, fino al punto
di confluenza dello spirito umano con lo Spirito di Dio.
La sostanza etica del racconto
dell’annunciazione è che Dio tratta Maria come una persona vera e
consapevole (cosa che si verifica in tutti i racconti scritturistici di
vocazione, ma in questo caso in modo speciale): ha bisogno del suo
assenso reale, non la costringe, non prescinde dalle sue disposizioni
interiori.
E Maria «assunta al dialogo con Dio, dà il
suo consenso attivo e responsabile » (MC 37), cioè non reticente né
precipitoso. È necessaria una fiducia senza riserve nel mistero di Dio
che chiama, per avere il coraggio di lasciare spazio al nuovo che
trasforma profondamente la situazione preesistente.
ASCOLTO, ATTENZIONE, REALIZZAZIONE DI SÉ
Attenzione è l’altro versante dell’ascolto.
Deriva dal latino ad-tendere,
cioè “essere rivolti verso” qualcosa, e per un credente significa
soprattutto guardare con occhi nuovi: agli antipodi della banale
curiosità, è attenzione al mistero. Ascolto, accoglienza, attenzione
sono le declinazioni prioritarie dell’amore.
Crescere nella capacità di attenzione
significa crescere nell’unificazione personale. L’ascolto di Dio e
dell’altro non può prescindere dall’ascolto
di sé, e questo non riguarda solo
la mente e non è individualistico.
Narrando nello stesso capitolo 1° una doppia
annunciazione, l’evangelista intende stabilire una corrispondenza tra
l’annuncio recato a Zaccaria e quello recato a Maria; ma dal confronto
tra i due episodi emerge con chiarezza la superiorità di quel che si
riferisce a Maria. Come luogo dell’ascolto di Dio, qui una semplice casa
di Nazaret supera il tempio di Gerusalemme. Nel suo dialogo con
l’angelo, Maria viene presentata come paradigma dell’ascolto, anche nel
suo bisogno di capire. Le parole conclusive di assenso «Eccomi, sono la
serva del Signore...», per lungo tempo recepite in un senso
spiccatamente servile,
accentuando a senso unico l’umiltà e la docilità, hanno un significato
più ricco.
A parte il fatto che la sottomissione a Dio è
ben diversa dalla sottomissione a qualsiasi altra autorità terrena anche
legittima (è infatti l’unica che, quanto più è profonda e totale, tanto
più è liberante e sprigiona autonomia), qui la parola
serva
richiama in primo luogo la figura del Servo del Signore. E
quell’«Eccomi» detto da Maria ci ricorda le grandi chiamate della storia
del popolo di Dio: la prova di Abramo, la vocazione di Samuele... Così
la risposta di Maria significa da parte sua porsi in continuità con la
storia intera del popolo d’Israele di cui è parte, accettando per sé con
spontanea consapevolezza un ruolo unico e fondamentale all’interno di
questa storia. È un atteggiamento umile, senza dubbio; ma ben diverso
rispetto all’umiltà quale viene tradizionalmente inculcata a uomini e
donne nella formazione ascetica tradizionale.
La risposta di Maria infatti denota
un’autocoscienza di livello elevato, un’eccezionale disponibilità al
cambiamento (e quindi senso di identità e autonomia) un profondo senso
di creaturalità, una fiducia senza riserve e una consapevole scelta di
affidarsi incondizionatamente a Dio; definirsi «serva del Signore»
anticipa profeticamente uno stile rinnovato di rapporti all’interno
dell’umanità nuova, uno stile fondato sul servizio vicendevole.
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