|
|
|
|
Benedetto XVI ricorda spesso il metodo di
Maria nel meditare la Parola, con cuore attento e paziente: «Il
Magnificat
è interamente tessuto di fili della Sacra
Scrittura, di fili tratti dalla parola di Dio. Così si rivela che lei
[Maria di Nazaret] nella parola di Dio è veramente a casa sua, ne esce e
vi rientra con naturalezza. Ella parla e pensa con la parola di Dio; la
parola di Dio diventa parola sua, e la sua parola nasce dalla parola di
Dio».1
Un canto comunitario
Certo il Papa sa bene, come del resto
sappiamo tutti noi, che il
Magnificat è espressione orante e
dossologica non solo di ciò che Maria aveva provato in quel momento e in
tutta la sua vita, ma anche della simbiosi tra lei e la comunità dei
credenti. Cioè questo magnifico cantico è come un ricamo a molteplici
mani, come esultanza di una moltitudine di credenti, come eco di
molteplici suoni che si sono fusi: Maria nella sua vita e nella sua
avventura di grazia è la più degna a pronunciarlo e la più conformata
alla teologia esperienziale che vi si riflette, è la voce di tutta la
Chiesa che nel cantico vi si immedesima.
È una composizione raffinata, dai mille echi
biblici, dalle immagini così suggestive ed efficaci, dagli orizzonti
tanto ampi, eppure è così prossima al linguaggio, alla terminologia, al
ritmo della dossologia di tutte le Scritture. Possiamo dire che è frutto
personale e insieme collettivo, risuona nel cuore e nell’anima femminile
di Maria in maniera unica, e romba come un tuono nell’ethos
di tutto il popolo dei figli di
Abramo e dei redenti dal nuovo Adamo.
Luca ha certamente messo la sua abilità
letteraria in quelle parole, ma anche la distanza tra l’evento iniziale
e la composizione materiale del testo ha reso possibile fondere insieme
emozione iniziale e gli esiti di un vissuto personale e collettivo che
si è incanalato nel testo e negli echi. Diventa così davvero canto di
nostalgia e di speranza, ma anche risposta orante e dossologica per
tutto quanto ormai si era realizzato e aveva preso forma piena e
definitiva. Difatti sono evidenti sia le radici della prima alleanza,
sia la verità della nuova alleanza nei nuclei più salienti del testo.2
DA UNA ORIGINALITÀ DI LUCA
Tutti conosciamo la parabola del seminatore:
i tre sinottici la raccontano con sfumature proprie (cf Mt 13,1-9.18-23;
Mc 4,1-20; Lc 8,4-15), ma anche collocandola secondo esigenze di
struttura differente, proprie di ciascun vangelo. Vorrei soffermarmi
sulla redazione lucana e far notare un’operazione che solo Luca fa (Lc
8,4-15),3 e da cui prendo ispirazione per
alcune applicazioni.
Questa parabola viene collocata da Luca in un
contesto del tutto speciale, non a caso prima di narrarla, l’evangelista
ricorda che attorno a Gesù c’erano uomini e donne che lo seguivano,
condividendo con lui viaggi, predicazione e preoccupazioni (Lc 8,1-3).
Quindi la premessa alla parabola – a differenza degli altri due
sinottici, Marco e Matteo – è che vi è un discepolato misto, fatto di
donne e uomini, che sono i destinatari più immediati della parabola.
Diciamo di più: dovrebbero essere loro soprattutto la forma visibile
della fruttificazione del seme gettato dal seminatore. Certamente c’è
anche «molta folla che accorre» (Lc 8,4), ma questo è uno stereotipo.
Quelli che veramente sono i primi e diretti destinatari del senso della
parabola sono loro, discepole e discepoli.
E dopo aver proposto la parabola e averla
anche spiegata – e tutti sappiamo include senza la finale delle
percentuali, ma parlando di “frutto nella perseveranza” (karpoforoùsin
en hypomonè). È un’espressione
meno di efficienza e più di sensibilità e qualità, ma il fatto curioso è
che Luca conclude richiamando ancora delle persone particolari, nel caso
specifico alla presenza della madre e dei fratelli, che stanno cercando
di contattarlo, ma non riuscivano, «stavano fuori» (exo
stèkontes) dice Marco (Mc 3,31; cf
Mt 12,46). Situazione che sta a significare sia la ressa ella folla, sia
la difficoltà anche per i parenti di “capire” veramente la novità che
era proposta da Gesù. Anche Giovanni accenna che neppure i suoi lo
capivano e gli credevano (cf Gv 7,3-6). Ora la risposta di Gesù a chi lo
avverte che i parenti lo stanno cercando, forse anche per suggerirgli
una calmata, visto il tanto trambusto, Gesù risponde: «Mia madre e i
miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola (o
logos) di Dio e la mettono in
pratica» (Lc 8,21).
È drastica questa risposta su chi davvero
possa far parte della famiglia di Gesù: da ora, e come ho detto, fa da
cornice di chiusura della parabola del seminatore e della sua
spiegazione. possiamo però intravedere anche qualche altra cosa. La
madre e tutti i suoi fratelli, come del resto anche chiunque voglia
essere discepolo, uomo o donna che sia, deve accettare un cammino di
ascolto e di discepolato, di nuova prassi e di nuovi orizzonti. Anzi,
deve portare la propria vita verso altre relazioni che la rigenerino,
che consentano una nuova “appartenenza familiare”, davvero una nuova
identità. E questo avviene proprio attraverso un ascolto intenso,
obbediente, rigenerante della Parola del Maestro, seminata con
generosità, e accolta con cuore “bello e generoso” (en
cardia kalè kai agathè: Lc 8,15).
Quindi, si può affermare con decisione che
queste parole di Gesù, non sono una presa di distanza dalla sua
parentela, ma un invito – tenendo presente anche la cornice femminile
che apre e chiude il brano della parabola – a farsi
grembo fecondo
della Parola, proprio come sperimenta la
donna con la maternità, e a vigilare con
hypomonè,
cioè con costanza premurosa e affettuosa, sullo sviluppo di questo
misterioso seme, in una simbiosi che trasforma l’uno nell’altra e si fa
speranza e ritmo di vita.
Quindi, per parlare di accogliere la Parola
come Maria e incarnarla nel vissuto, bisogna collocare la stessa Maria
nell’orizzonte segnalato da Cristo: ella stessa, dopo averlo ricevuto
come Verbo eterno in una misteriosa gravidanza operata dallo Spirito
Santo, dopo averlo generato a vita umana, è chiamata a intraprendere un
itinerario di discepolato, per essere a sua volta discepola del Figlio
ormai diventato maturo, pubblico Maestro. Un discepolato che non è fatto
solo di presenza accanto,
ma anche di rigenerazione misteriosa del cuore, grazie al seme
incorruttibile della Parola nuova, viva ed eterna (cf 1Pt 1,23), a cui
ella stessa aveva dato carne e identità umana. Mi limiterò ad alcuni
momenti delle testimonianze evangeliche su Maria.
MARIA DI NAZARET, EBREA IN ASCOLTO
Non c’è dubbio che Maria aveva un’identità
ebraica in tutte le implicazioni che questa affermazione comporta: noi
la proclamiamo a volte “Figlia di Sion”, e questo si applica alla
stirpe, alle abitudini, agli obblighi e ai divieti, alla religiosità e
al senso di identità. E quindi anche all’assiduità dell’ascolto e
all’obbedienza alla Parola. È inconcepibile un ebreo e una ebrea senza
un “ascolto intenso” della Parola.
Luca non scende alla descrizione dei
particolari della vita ebraica di Maria, ma ci sono degli elementi che
possiamo, con un po’ d’intuizione e senza forzare, sottolineare, e dai
quali far emergere i caratteri tipici di una credente ebraica, la cui
fisionomia non sarebbe comprensibile se non nella struttura tipica del
vivere ebraico, con convinzione e non per casualità. Il fatto che Luca
parta già dalla situazione di Maria promessa sposa a Giuseppe, e non si
preoccupi di dire una parola in più sulla sua infanzia o su qualche
aspetto della sua esperienza religiosa in quel momento, non significa
che non avesse di queste qualità.
Per una persona ebrea che conosceva le
Scritture, la frase “non temere”, che accompagna lo smarrimento del
protagonista, è tipica delle teofanie e Maria se ne mostra cosciente. Il
turbamento è la reazione normale di un ebreo davanti ad un evento di
rivelazione divina. Non è quindi semplicemente una timidezza, una
sorpresa, un momento di disagio: in quel turbamento prolungato,
accompagnato dal domandarsi, con senso di timore e di stupore, il
significato e la finalità del saluto particolare, troviamo la classica
reazione dell’israelita. È il senso di una presenza che sovrasta e
chiama ad un compito che sempre sorpassa le proprie vedute e i progetti.
Tanto più in questo caso, in cui al “Signore è con te” – anche questo
classico modello di approccio – viene anteposta una specie di
definizione sorprendente:
kekaritomène, diremmo “impregnata
di grazia”. Il che appare davvero impropria affermazione per una
ragazzina quindicenne.
Potrebbe anche essere un’espressione cortese,
ad esempio: “quanto sei graziosa, bella, splendida”, come alcune
tradizioni orientali dicono. Ma nel contesto vuol dire – come tutti
sappiamo - molto di più, più in qualità e sostanza, come viene meglio
esplicitato poi dalla ripetizione: «hai trovato grazia presso Dio» (Lc
1,30: karin parà tò Theò),
che implica non solo compiacimento, ma anche: hai dato gioia, hai
rallegrato il cuore di Dio, ai suoi occhi e al suo cuore tu sei amata e
desiderata.
La risposta dell’angelo potrebbe
essere commentata in molti modi. Senza dubbio non poteva essere
comprensibile senza un’intensa familiarità con le Scritture, di cui
riporta moltissime allusioni, e che ad una ebrea che conosceva le
Scritture non potevano sfuggire. Non intendo entrare in questo aspetto
importante. Voglio piuttosto proporre un’interpretazione complementare
della risposta di Maria all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non
conosco uomo?» (Lc 1,34).
Sappiamo bene che, pur vincolati da una
promessa di matrimonio, Maria e Giuseppe non coabitavano ancora, appunto
secondo l’uso ebraico che prevedeva il vincolo del fidanzamento e poi in
tempo successivo il passaggio alla coabitazione, con corteo nuziale. È
noto che la lettura tradizionale vede in questa espressione di Maria (épei
andra ou ginòsko) - il proposito
della verginità, sostenuta anche dalle narrazioni degli apocrifi sulla
fanciulla Miriam e la sua dedicazione (sempre secondo gli apocrifi) al
servizio del Tempio. Una dilatazione molto bella e tradizionale del
significato, come tutti sappiamo, ma in misura forse un po’ esagerata,
perché se si era già nel processo del fidanzamento-matrimonio, è chiaro
che l’intento dei due era quello di una normale relazione matrimoniale,
figli inclusi. Non avrebbe senso pensare ad una “promessa sposa” che
escludesse il sogno di un’intimità sponsale autentica, e anche la
disponibilità personale a viverla con fecondità. Ma io vorrei tentare
un’altra interpretazione.
LA SPOSA-ISRAELE È STERILE
Quella frase dell’angelo, la prima e la
seconda - ripresa anche nell’annunciazione a Giuseppe (cf Mt 1,18-25) -
implicava tutta la storia di Israele, vi si accumulano infatti decine di
passi paralleli allusi. Era il linguaggio della speranza, ma anche della
sofferenza, per le infedeltà storiche e i fallimenti gravi. La sposa
Israele era come diventata isterilita, per i molti fallimenti, frutto
dei connubi politici e cultuali con i popoli vicini. Non aveva più la
fecondità del tempo della fedeltà, e Maria è come se si immedesimasse
nella Figlia di Sion sterile e senza compagno, senza la gioia di vedere
ancora un discendente di Davide, uno della casa di Giacobbe, guidare il
popolo verso la pace e la santità.
In questa prospettiva si può collegare il
turbamento grave di Maria, la sua riflessione intensa, ma anche la sua
risposta, con quello che Gesù dirà di sé – o almeno con quello a cui
alluderà con gesti e stili in molte occasioni – come
sposo
per Israele. Sono molte le occasioni in cui anche Gesù riprenderà la
simbologia sponsale già sviluppata dai profeti sulla relazione amorosa e
coniugale tra Dio e Israele, con i tradimenti e le riconciliazioni (cf
Osea, Deutero Isaia, Ezechiele; e soprattutto il Cantico dei Cantici).
Questa sterilità ormai secolare dell’intero
popolo, Maria la sente sua, vi si immerge, è accolta nel suo cuore con
la sofferenza comune a tutti, assieme alla speranza resistente dei pii:
come si vedrà poi in Zaccaria, Simeone, Anna e tanti altri. Anche la
risposta, o spiegazione dell’angelo, potrebbe essere letta proprio nella
stessa prospettiva: la simbologia dell’ombra dello Spirito, la santità
di Dio che prende forma e visibilità, la dignità eccelsa del nascituro,
umanamente impossibile, il richiamo ad una sterilità (quella di
Elisabetta) miracolosamente sciolta per intervento divino, sono tutti
schemi dell’Antico Testamento che risuonano, e si riallacciano alla
preoccupazione della “sposa Israele”- Maria per la infecondità e
mancanza di compagno di intimità vitale.
Nella risposta finale di Maria, troviamo
pertanto non solo una disponibilità personale a darsi interamente alle
esigenze della Parola dell’angelo, ma anche a farsi carico dell’intera
Parola dell’alleanza dei Padri, perché si compia in lei a beneficio di
tutti. Si dichiara disposta a vedere la sua esistenza intrecciata in
modo unico con quanto conosce e medita della memoria collettiva, delle
attese, della speranza e della fiducia. Nel suo accettare di essere al
servizio della Parola - «avvenga a me secondo la tua parola/génoitó
moi katà
tò remá sou
- c’è una disponibilità ad essere luogo del
compimento anche delle antiche speranze e promesse. Infatti
remà è parola-evento,
nel senso denso, e non solo come vocabolo, espressione, suono,
terminologia.
Vedo una conferma di questo nel saluto che la
cugina Elisabetta le grida esultante: «Beata colei che ha creduto
nell’adempimento delle parole del Signore » (Lc 1,45). La frase si pone
alla fine del cantico di Elisabetta, nel quale vengono egualmente
evocate varie simbologie della presenza del Signore nella storia del
popolo (primariamente il passaggio dell’arca del Signore, la gioia per
il grembo pregnante, l’esultanza incontenibile, l’impulso dello Spirito,
l’elogio fra le donne, ecc.). E quindi è in questo contesto che va
interpretata, e non come elogio personale rivolto alla sola Maria. In
questo caso Maria rappresenta l’Israele dei pii e dei giusti che hanno
creduto alla fedeltà di Dio, nonostante oscurità e attese struggenti; è
la sposa fecondata, amata di “amore eterno” (Is 54,8), non più
ripudiata. Elisabetta si fa interprete di questa certezza, che Dio
sarebbe stato fedele al suo popolo: e in Maria vede e riconosce che
questa fedeltà è diventata dono per tutti; e nella disponibilità di
Maria la risposta a vantaggio di tutti.
Solo due donne che avevano creduto, meditato
e vissuto il fil rouge
delle Scritture, cioè avevano ascoltato,
amato, si erano immedesimate nella promessa antica, di cui era
impregnata la Parola trasmessa di generazione in generazione, potevano
vedere questa unità, potevano andare al di là di una gioia personale,
seppur legittima e intima.
ESEGETA ASSIEME AL POPOLO
Vorrei commentare la partecipazione della
comunità allo stile silenzioso e riflessivo di Maria in tutte le vicende
dette dell’infanzia. Luca annota due volte che Maria rifletteva e
cercava di interpretare. Dopo la visita dei pastori è detto: «Maria, da
parte sua, serbava tutte queste cose (synetèrei
tà rèmata
symbàllousa en tè kardìa)
meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19); e dopo il ritrovamento nel tempio
del ragazzo Gesù è detto: «Sua madre conservava tutte queste cose (dietèrei
panta ta rèmata) nel suo cuore» (Lc
2,51). Ma attorno alla madre riflessiva e che vigila sui ricordi, con un
cuore che si stupisce ma cerca anche di trovare una spiegazione
unitaria, ci sono altri che fanno lo stesso.
Per esempio, quando Zaccaria riprende a
parlare per indicare il nome
Giovanni per il figlio, i vicini
hanno un senso di sorpresa e timore, e, di tutto quello che si
discorreva, «tutti quelli che udirono (ta
rèmata) le posero nel loro cuore»
(Lc 1,66). I pastori prima di andare a Betlemme discutono se vale la
pena muoversi «a vedere quella parola-evento (to
remá) che è accaduta» (Lc 2,15) e
poi parleranno a tutti di ciò (tou
rèmatos) che hanno «visto e udito
» (Lc 2,20). Abbiamo pertanto anche lo
stupore
collettivo: anzitutto quello di Elisabetta (Lc
1,41-45) nel trovarsi visitata dalla Madre del Signore, presentandosi
quasi novella arca santa che attraversa strade montuose per venire a
condividere con la cugina la gioia di una maternità straordinaria che le
ha beneficate.
Poi lo stupore dei parenti di Elisabetta e di
Zaccaria quando nasce il figlio: e gioivano con lei (synèkairon
autè: Lc 1,56). Meraviglia e
stupore provano anche tutti quelli che sentono i pastori raccontare la
loro vicenda così fuori della normalità: «si stupivano delle cose che i
pastori dicevano» (Lc 2,18). Ancor di più al tempio, di fronte
all’esultanza di Simeone, madre e
padre “si stupivano (thaumàzontes)
delle cose dette al suo riguardo” (Lc 2,33).
Questo per quanto riguarda la nascita e i
primi giorni successivi. Ma di Maria si dice che rifletteva con cuore
vigilante anche dopo l’episodio del ritrovamento al tempio. Anche qui
abbiamo lo stupore e la meraviglia (existanto:
si può tradurre con: sbalordimento)
dei maestri del tempio (cf. Lc 2,47). Si annota pure che i genitori «non
compresero la parola (to rèma)
che aveva detto loro» (Lc 2,50) e subito dopo che «sua madre conservava
tutte le parole-evento (panta ta
rèmata) nel suo cuore» (Lc 2,51).
Mi interessa commentare questo atteggiamento
collettivo di stupore e di riflessione, di incomprensione e di custodia
nel cuore. Non è solo di Maria come abbiamo sentito, ma di molti. E
questo già rivela un’importanza: era la santa abitudine ebraica di
mettere nel deposito del cuore e vigilare con cura e stupore quello che
avveniva. Perché tutti gli eventi, erano insieme parola e fatto,
oggettivo accadimento e misterioso segnale, su cui riflettere per
trovare la loro connessione in un orizzonte che ne spiegasse significato
e finalità. Maria non fa altro che vivere con tutti la fatica di
comprendere, ma accompagnata pure per lei dallo stupore, dalla sorpresa,
da un senso di timore e di meraviglia.
Questo è il vero modo biblico di accogliere
la Parola e di conservarla nel cuore: con lo stupore, generato dalla
sensazione della propria fragilità e ferialità che viene attraversata
dai segni di Dio che si fa vicino, visibile e udibile, eppure rimane ben
oltre; costringe a rimuginare nel cuore, a dialogare per capire, a
riflettere per non farsi sfuggire connessioni e riverberi inattesi. Un
popolo intero di umili che riflette e si interroga, che è travolto dallo
stupore e insieme deposita nel cuore
ta rèmata,
perché nulla svanisca, ma lasci una sensazione duratura, diventi una
scoperta aperta a nuovi orizzonti.
STABILITAS CORDIS
Io vedo Maria in questa sua attitudine
certamente come la vergine-madre che non passa superficialmente sopra le
cose, ma anche come la compagna ed erede della migliore tradizione
ebraica: quella di lasciarsi stupire e sorprendere, di ruminare e
ricordare, di vigilare e ruminare, per estrarne significati veri e
ispirazioni di vita. Questa è vita secondo la Parola e lo Spirito: una
stabilitas mentis
che si familiarizza con gli eventi e
memorizza bene i fatti e cerca i legami che ne fanno un progetto, un
tessuto, un evento completo e unitario. Una
stabilitas cordis
che si trasforma in unica preoccupazione,
unica linearità d’amore e di desiderio, di valori e di attese: questo è
il vero cuore dell’israelita, tutto impregnato del riverbero dei
remata.
Mi piacerebbe parlare anche di un’altra
stabilitas:
è la stabilitas corporis,
cioè gli anni nascosti di Nazaret. Essa completerebbe le altre dette
ora, dando particolare pregnanza ai tre decenni della presenza di Gesù a
Nazaret. Ma già aver segnalato questa ricchezza spesso non vista, degli
eventi dell’infanzia, può bastare.
Note
1
BENEDETTO XVI, Deus
caritas est 41.
2
Cf E. PERETTO, «Magnificat», in S. DE FIORES-S. MEO (edd.),
Nuovo Dizionario di Mariologia,
Paoline, Cinisello Balsamo 1985, 853-865.
3
Mi ha dato il suggerimento la lettura di un commento di I. GARGANO,
Maria e la Parola. Una esperienza
di lectio divina, Paoline, Milano
2003.
|