In
ogni esistenza fa breccia, di tanto in tanto, una percezione di
impotenza di fronte a se stessi, agli altri e alla realtà, che si
traduce nel sentirsi estraniati e soli. Ma vi è anche una solitudine necessaria per ritrovare se
stessi e chi ci sta intorno. La solitudine allora cessa di essere un
disagio per diventare feconda. Quindi, non ogni solitudine è dannosa, né
ogni rapporto è benefico.
La
riflessione sulla solitudine umana si presenta fin dall’inizio in
questa oscillazione fra il
bisogno di relazione nella socialità e la necessità del distacco dagli
altri e dalle cose.Vi è un equilibrio tra solitudine e comunione che
deve diventare conquista di ogni percorso personale di maturità.
Questo
equilibrio è compromesso nel nostro tempo. Nella vita associata rumore
e attivismo sono diventati prevalenti. Pare che tutto sia costruito per
eliminare ogni forma di silenzio. E quando cala la necessaria inattività
o l’impossibilità a partecipare al carosello delle comparse sul
palcoscenico della vita sociale, la sensazione di solitudine affiora
nell’animo, portando con sé una forma più o meno grande di ansietà,
che spinge a reimmergersi in qualcosa da fare per sfuggirla.
Il
baricentro dell’esistenza da tempo è stato spostato verso l’esterno, come distrazione dallo sguardo su di sé.
Si direbbe che per molti contemporanei, soprattutto giovani, sia
diventato quasi impossibile fermarsi a riflettere mettendo se stessi al
centro del proprio sguardo interiore.
Anche nella
vita consacrata il silenzio della solitudine
si è sempre più assottigliato,
quasi sequestrato dal ritmo incessante di incontri, relazioni e lavoro.
La solitudine è diventata un bene raro. Il raccoglimento che una volta
caratterizzava l’atteggiamento interiore della persona consacrata e
della casa religiosa si è dissolto nel lieve rumore del chiacchiericcio
o nell’assillo dell’impegno. Le attività assorbono gran parte del
tempo. E il prendersi degli spazi per rientrare nella propria cella
interiore pare talvolta tempo sottratto al lavoro e, per taluno,
persino tempo perduto.
A
partire da queste osservazioni generali, tentiamo di tracciare un
percorso riflessivo che ci metta a contatto con l’interiorità della
nostra condizione umana. Ascolteremo dapprima l’insegnamento
della Rivelazione che ci svela la tensione comunionale della
solitudine umana. Poi ci interrogheremo sulla possibile
utilità di quel tipo particolare di solitudine che è la sensazione
di inutilità nella vita e di incomprensione nel rapporto con l’altro.
E infine tenteremo un approccio
formativo circa il modo di vivere la solitudine nella vita di
consacrazione.1
Il
progetto di Dio sull’uomo: una solitudine comunionale
Dio
creando il mondo, riversa in esso la sua bontà: e
vide che era cosa buona (Gn
1,4ss.). Il mondo è completo in se stesso. E’ buono per sé. Ma ecco
che la Scrittura racconta il dramma della solitudine umana.
Non
è bene che l’uomo sia solo
Confrontandosi
con il mondo animale e vegetale, l’uomo prova una sensazione
di estraneità rispetto a ogni essere fin’allora creato. Su tutte
le creature che gli vengono messe davanti può esercitare il dominio, è
vero, ma la soddisfazione che nasce dal poterne disporre, stranamente
non gli corrisponde. Lo deve
ammettere il Creatore stesso: non
è bene che l’uomo sia solo (Gn 2,18a). L’essere
solo dell’uomo è dunque male.
All’uomo non basta il possesso della realtà, l’uomo ha bisogno di
uno spazio di comunione e di relazione.
L’osservazione
è in netto contrasto con il resto del racconto in cui tutto appariva buono.
L’uomo è unico, dunque solo. Ma non è bene che stia rinchiuso in
questa unicità. Ecco allora la genialità di Dio: dargli
un aiuto che gli corrisponda (Gn 2,18 b), che gli possa stare
“davanti” nell’amore, un essere con cui possa stare a faccia
a faccia: non sopra,2
ma di fronte, cioè nella gratuità di un rapporto e nella gioia di una
libertà condivisa. La figura umana si esplicita così come individuo aperto a un’alterità
che gli corrisponde nella libertà di un rapporto.
Tale
apertura però porta con sé il rischio di ricadere in quel possesso che
l’uomo ha esperimentato non corrispondergli quando si era confrontato
con il mondo. La relazione verso l’alterità deve restare aperta; e
perciò porta con sé un distacco e una dolorosa separazione: «L’uomo
abbandonerà suo padre e sua madre» (Gn 2,24). La maturazione della
propria identità passa sempre attraverso il distacco da una illusoria relazione
fusionale e deve stabilizzarsi
in una relazione che accetti la differenziazione.
La
coscienza di sé si costruisce accettando di non ritornare indietro in
quel seno materno, che resta nell’immaginario personale come un
pericolo di regressione per la propria persona. Essere se stesso vuol
dire essere separato. Assumere questa separazione e tradurla nel
concreto dell’esperienza del silenzio, del vuoto e dell’assenza
senza smarrirsi è condizione per entrare in una relazione gratificante
con l’altro.
La
verità dell’uomo è nell’alleanza con Dio
Se
la donna è la prima corrispondenza che sottrae l’uomo alla tristezza
dell’isolamento, costituendo il primo abbozzo comunionale della figura
umana, tuttavia questa condizione non esprime ancor compiutamente
l’essere umano. Questi porta l’attesa di un infinito, che nessun
essere a lui identico può esaurire.
Il
racconto biblico lo spiega affermando che l’uomo realizza la propria
figura scoprendosi in relazione
creaturale con Dio, essendo fatto a
sua immagine e somiglianza (Gn
1,26). L’immagine piena dell’uomo deve integrare nella propria
identificazione la relazione con il terzo, in una polarità multipla e
non semplicemente duale:3
l’uomo porta inciso nella sua natura il rapporto con la paternità di
Dio e la maturazione della sua personalità è legata allo sviluppo
sereno di questo rapporto.
Creato
“a sua immagine”, non ne è però ripetizione speculare: è solo somiglianza,
dice con finezza linguistica il testo. Riproduce il suo volto, ma non
esaurisce quello che Lui è. L’uomo è come
Dio senza essere Dio: e questo fatto segnala una differenza ontologica che non può essere mai dissolta. Tale
differenza però genera nel sentimento dell’uomo una certa instabilità, sulla quale trova facile appiglio il suggerimento
demoniaco di costituirsi in autonomia e di esistere come solo.
Essendo
un essere libero, realmente può farlo. Purtroppo, però, a suo danno.
Il peccato è entrato nel cuore umano così, come tentativo di
assolutizzare la propria autonomia, e quindi di
sancire presuntuosamente la
sufficienza della propria solitudine “facendo a meno” del rapporto
con Dio o, in altre parole, tentando lui stesso di farsi “dio”.
E quindi di rifiutare il vincolo creaturale, presumendo di poter essere
“padre di se stesso”.
L’uomo inizia
la sua vita nel mondo isolandosi da Dio e, in tal modo, dà origine a un
insieme di rotture a catena, che ne dissolvono l’identità comunionale.
Incomincia a deteriorarsi il rapporto uomo-donna (Gn 3,16), la relazione
fraterna (Gn 4) e il rapporto all’interno della convivenza sociale (Gn
6, 11).
La
condizione umana vissuta come “autonomia” introduce il principio di
corruzione della sua immagine, poiché il voler essere soli ed autonomi
non corrisponde alla struttura creaturale dell’uomo.
La
necessaria solitudine dell’essere, dovuta al principio di
identificazione per cui ogni essere è chiamato a essere autenticamente
se stesso, si deforma e diventa decadimento. Da questo momento, l’uomo
deve sperimentare l’amarezza della separazione come
emarginazione («Il Signore lo scacciò»: Gn 3,23). Nello stesso
tempo, Dio «prese delle pelli e cucì loro dei vestiti» (Gn 3,21),
mostrando nonostante tutto la permanenza della sua paternità, che dovrà
essere recuperata dall’uomo in un faticoso cammino di rieducazione.
La pedagogia divina del
deserto e dell’esilio
La
storia della salvezza raccontata nella Sacra Scrittura non è altro che
la pedagogia con cui Dio rieduca l’uomo a ritrovare la verità del sua
identità di figlio, proprio attraverso l’esperienza della solitudine.
«Ricordati
del cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere per
quarant’anni nel deserto, al fine di
renderti povero e di provarti perché tu conosca il fondo del tuo cuore …
Ti ha reso povero, ti ha fatto sentire la fame e ti ha dato la manna da mangiare, che
né tu né i tuoi padri conoscevate, per mostrarti che l’uomo non vive
solo di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Dt
8,2-3).
Vivere della Parola che esce dalla bocca di Dio, viverla nel deserto:
significa che la vita autentica dell’uomo sgorga dal rapporto con Dio
che parla e chiede di essere accolto dalla sua libertà; e che la
solitudine è lo spazio adatto per liberarsi dall’idea ossessiva di
voler fare da solo.
Dio
allora permette che il suo popolo divenga schiavo in Egitto, passi
attraverso la purificazione del deserto, e più tardi dell’esilio,
perché impari a sentire la propria indigenza.
E’
proprio l’esperienza di questa povertà, guidata dalla Parola dei
profeti, che favorisce il distacco da sé e predispone alla comunione
con Dio. Questa dialettica accompagna il popolo di Israele che deve
separarsi dalla calda sicurezza che gli dèi dell’Egitto gli
assicuravano (Es 20,2-3) e deve assimilare la coscienza di essere un
“popolo separato” (Lev 19,2), per poter realizzare l’esperienza di
alleanza con Dio e i fratelli.
La pedagogia di Dio
riassunta in Maria di Nazareth
Il
tornante decisivo di questa storia pedagogica, giunta ormai al culmine,
è rappresentato da Maria, che genera Gesù, il “figlio”. Quel
figlio non nasce in lei da un progetto umano, ma dall’accoglienza del
disegno di Dio. E, man mano che quel figlio cresce, le ricorda di dover
dipendere dal Padre prima che da lei (Lc 2,48-50) e, in alcune
occasioni, mostrarle persino una certa distanza per non occultare quella
preminenza (Mt 12,48 = Mc 3,33; Gv 2,4).
Maria
esperimenta così la solitudine
del distacco come via all’incontro. Viene educata non solo da
tutta la storia di Israele, ma dalla sua stessa storia di rapporto con
Gesù, a capire che il suo “volto interiore” deve prendere la
forma di un “Altro” che la conduce.
Maria
è la prima donna della nuova alleanza, in cui la sua solitudine è
colmata dalla vicinanza con il Mistero. Dal momento della chiamata, non
esiste più in forza di una presunta autosufficienza, ma vive aderendo
al figlio che le cresce in seno e che lei deve seguire negli imprevisti
percorsi della sua vita. La sua santità consiste nell’agire con la
caratteristica movenza di chi è generato dal Mistero di una Paternità
che la forma, figlia del suo
stesso Figlio.4
Ossia generata dalla
logica di figliolanza che caratterizza il Figlio in lei generato per il
mondo.
Essa
anticipa così la verità totale dell’essere umano, che Gesù porta a
massima evidenza, mostrando cioè che l’io umano non può esistere
senza la relazione al Tu di Dio e, nel Tu di Dio, in rapporto con ogni
uomo. Per questo, il compimento del disegno divino si ha con la consegna
reciproca del “discepolo” alla “madre” nella nuova relazione di
figliolanza nata dalla fede, nel momento supremo della redenzione (Gv
19,25-27).
“Vivere da figli”:
la solitudine umana aperta alla comunione
Nell’Incarnazione
Gesù non si sottrae a questa dialettica, anzi la porta a pienezza.
Anch’egli entra nella contingenza
umana, attraverso un autentico descensus,
poiché “accetta in sé il vuoto dell’uomo”, ponendosi in un
volontario isolamento dal Padre (Fil 2,6-8). Si inabissa realmente in quella
condizione umana perduta di voler esistere da
soli. Gesù prova umanamente l’esilio dal Padre. Lo porta in sé,
perché solo in tale condivisione può redimere ogni tentativo di
esistere senza il Padre.
Appare
perciò pienamente coerente il fatto che Gesù da uomo, all’inizio e
alla fine della sua attività pubblica, abbia dovuto subire la
tentazione circa la sua figliolanza:5
«Se sei Figlio di Dio…» (Mt 4,3.6; Lc 4,3.9), così inizia la
tentazione. “Tu pensi di essere il
Figlio di Dio? - gli dice in altre parole il tentatore -, ma
potresti non esserlo! Verifica allora se lo sei veramente! Se lo sei,
esprimi la tua onnipotenza divina, vivi il potere divino da
solo, dissociati dal Padre: così si vedrà se la tua sicurezza di
essere figlio di Dio è reale o solo immaginaria”. Gesù rifiuta,
poiché non vuole abusare del suo potere divino e decide di vivere anche
umanamente da figlio. E tutta
la sua vita pubblica è intessuta di questa relazione, ben testimoniata
dai testi evangelici, particolarmente da Giovanni.
E
in ultimo la sua natura di essere il
figlio si manifesta nel momento più delicato dell’esistenza, là
sulla croce: «Se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!» (Mt
27,40-43), gli viene sarcasticamente detto. Ma Gesù non scende, e vive
la sua dipendenza amorosa dal Padre, realizzando la pienezza
dell’umano in questo voler esistere come abbandono
filiale.
Per questa via,
Gesù rivela definitivamente quale sia il modo umano di vivere dentro a
questo mondo. Mostra che la possibilità di autorealizzarsi come persona
non si attua nell’esaltazione dell’autonomia, ma nel mettere la
propria libertà a servizio del disegno di Dio.
I
testi evangelici ci raccontano che Gesù ha compiuto il suo esodo
immerso nella compagnia del Padre. «Colui che mi ha mandato è con me e
non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono
gradite» (Gv 8,16.29). Gesù,
il Figlio incarnato, afferma di non potere nulla
da se stesso: «In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può
fare nulla se non ciò che
vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa» (Gv 5,19.30;8,28). Non c’è dunque solitudine in Gesù, poiché
egli vive nell’unità con il Padre.
I
discepoli hanno scrutato questa profondità misteriosa che vedevano in
Gesù senza capirla. Finché un giorno Gesù rivelerà che anch’essi
hanno bisogno di restare affettivamente legati a Lui, come Lui lo è al
Padre, perché - dice loro - «senza di me non potete far nulla»
(Gv 15,5). Un identico “nulla” caratterizza l’umanità di Gesù e
l’umanità dei discepoli. L’uomo da sé è nulla:
solo nella relazione con Gesù e, attraverso di lui, con il Padre, può
saldare l’inconsistenza della sua solitudine.
Se
l’uomo, seguendo Gesù, sfata l’illusione di poter esistere come
autonomia e percorre la strada di un’esistenza vissuta come obbedienza
filiale, realizza se stesso, sentendosi nella storia non come
granello abbandonato al vento degli eventi e, quindi, in preda alla
paura della solitudine, ma come
figlio accompagnato alla
realizzazione della sua natura.
La
coscienza di “essere fratelli”
La
coscienza di essere figli trascina con sé consequenzialmente anche la
consapevolezza di essere
fratelli. La dimenticanza di avere un padre è la causa del non
riconoscersi fratelli, spiega Gesù nella parabola dei due figli (Lc
15, 11-32). E inversamente la scoperta di un padre comune genera una
familiarità persino tra persone ritenutesi estranee: una vera
figliolanza genera un’autentica fraternità (Mt
5,43-45). La radice della comunione sta in questa profondità, non
semplicemente nello sforzo della reciproca accettazione.
La
Rivelazione, dal punto di vista antropologico, raggiunge qui il suo
vertice. Mostra che l’immagine di “figlio” è il vero volto
dell’uomo e, pertanto, vivendo da figli del Padre, è possibile vivere
fecondamente l’ineludibile
condizione di essere soli nel mondo.
La
relazione di figliolanza con l’Eterno è garanzia del poter assumere
la propria individualità, che necessariamente è sempre solitudine,
vincendo ogni forma di paura e di possibile estraneazione, perché
accompagnata dalla presenza di una paternità che non abbandona (Mt
6,25-34).
E, nello stesso
tempo, immette nella storia una energia di unità con la semplice
formula di una fraternità che abbatte tutte quelle barriere, che la
dimenticanza della propria natura di figli
ha innalzato e continua a innalzare fra uomo e uomo. L’isolamento dal
mondo o dagli altri, che produce il caratteristico senso di smarrimento
della solitudine umana, trova sorprendentemente un punto certo di tenuta
e una guida sicura per attraversare la fatica della costruzione della
propria persona e l’amarezza dell’essere soli quando ci si sente
abbandonati dagli uomini e dalla storia.
Continua
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