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Gli
eventi che hanno marcato l’attualità storica degli ultimi mesi (e che
perdurano mentre scriviamo), hanno polarizzato intorno a quello che il
Santo Padre ha definito «un giorno buio nella storia dell’umanità»1
l’attenzione di tutti.
Gli
attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, gli atti di guerra che
ne sono seguiti, le prese di posizione, le reazioni ai differenti
livelli nonché le paure e i timori che ne sono scaturiti hanno invaso i
mezzi di comunicazione, monopolizzato il dibattito internazionale, sono
divenuti argomento di discussione pubblica.
Nelle
esperienze di forti emozioni comuni vengono in emergenza reazioni che
rivelano le convinzioni profonde, gli atteggiamenti latenti, le mentalità,
le paure, i giudizi che albergano nelle menti e nei cuori e che
costituiscono la coscienza morale collettiva che si esprime anche
nell’opinione pubblica.
Nei
momenti storici in cui lo smarrimento è grande, non sappiamo a volte
afferrare subito il problema, siamo incapaci di collocarci con lucidità
nei confronti di esso. A partire dall’11 settembre si è vissuto uno
di questi momenti. Al di là della condanna senza attenuanti degli
attacchi terroristici, si è discusso, non sempre con chiarezza, su
molte cose.
Si
è parlato di civiltà, della superiorità dell’una sull’altra,
delle religioni, della guerra e del pacifismo, del dialogo e dello
scontro, del pluralismo e della tolleranza. E ancora si è discusso
sulla legittima difesa, sugli obiettivi militari da colpire e su quelli
civili da risparmiare (collocando con difficoltà tra essi la categoria
dei terroristi). Si è dibattuto sulle strategie di morte, sul
terrorismo che esplode improvviso come nell’orrore e nel rumore del
crollo delle torri di Manhattan e che suscita reazioni di totale rifiuto
e di condanna; si è dibattuto anche sulle strategie che colpiscono
invece nel silenzio, mietendo le vittime nella miseria, nel
sottosviluppo, nell’esclusione strutturale della maggior parte
dell’umanità al banchetto della vita e che non suscitano condanne e
reazioni altrettanto decise.
E’
stato anche scritto che, dopo gli attentati dell’11 settembre, la
storia non potrà più essere la stessa. Un’affermazione che, se
assunta responsabilmente, potrebbe farci sperare in un futuro migliore.
Basta non dimenticare, tuttavia, che ciò era stato già detto davanti
ai forni crematori nazisti, davanti alla bomba di Hiroshima, davanti al
genocidio del Ruanda, davanti alla “pulizia etnica” nei Balcani…
Leggere
gli avvenimenti della storia
La Chiesa
di oggi, come la Chiesa di sempre, in virtù della sua missione di
evangelizzazione è chiamata a leggere gli avvenimenti della storia
umana. Essa, infatti, deve guidare gli uomini a realizzare, alla luce
del vangelo e della riflessione razionale, la loro vocazione di
costruttori responsabili della società terrena.
Se la
Chiesa rinunciasse ad affrontare i grandi problemi dell’umanità, a
interpretare gli eventi umani e a giudicarli sul fondamento del vangelo
e della fede in Cristo, ciò si risolverebbe in una riduttiva attuazione
della sua missione di evangelizzazione2.
Le
verità evangeliche, infatti, vanno annunciate sempre in riferimento
agli eventi concreti, individuando in essi i veri valori e denunciando
le strutture, le mentalità, gli atteggiamenti che ostacolano il
progetto di Dio e il suo disegno di salvezza per l’uomo.
La
vita consacrata è chiamata, per sua natura, a partecipare in maniera
speciale a questa stessa missione evangelizzatrice della Chiesa. Le
persone consacrate, la cui vocazione è di essere segno profetico delle
realtà escatologiche, sono le più qualificate a interpretare la storia
nella sua corrente invisibile e nascosta; esse che vivono in modo
eminente la “nostalgia” per la fine del tempo, sono chiamate a porsi
ancor più responsabilmente davanti al tempo e ai suoi eventi.
Nei
momenti di smarrimento, di angoscia e di confusione, la vita consacrata
non può rinunciare quindi a una lettura più profonda dei fatti
storici, non solo utilizzando gli strumenti dell’analisi razionale, ma
soprattutto servendosi della luce del vangelo, smascherando i luoghi
comuni, mettendo in guardia contro i falsi equilibri, rifiutando di
ratificare l’assoluto di ogni verità storica che pretenda di
rivendicare per sé la totalità che spetta solo a Dio e al suo regno.
Il
ricorso al nome di Dio
Non è
sfuggito a nessuno, nei fatti vissuti, riflettuti, commentati, che sono
scaturiti dall’11 settembre, l’abbondanza del ricorso al nome di
Dio. Questo ricorso, per motivi simili o contrapposti, per via di
affermazione o di negazione, ha caratterizzato in vario modo i
protagonisti degli eventi, nonché gli spettatori di essi.
Tale
constatazione, del resto, non è nuova per coloro che ricordano gli
avvenimenti della guerra nel Golfo. Anche allora, dall’una e
dall’altra parte in conflitto, fu abbondantemente fatto ricorso al
nome di Dio. Anche allora si parlò di guerra “santa”, di guerra
“giusta”, di guerra “umanitaria”, espressioni che, in maniere
diverse, intendevano legittimare, per gli uni e per gli altri, il
fondamento del conflitto.
E’
vero che, a differenza della guerra nel Golfo, nella guerra in
Afganistan si è rinunciato a parlare di “guerra intelligente”, cioè
capace di colpire in maniera scientificamente selettiva le sue vittime.
Nel più recente conflitto, infatti, sembra che le bombe americane
abbiano sbagliato spesso i loro bersagli, colpendo ora un ospedale, ora
un luogo di raccolta di alimentari, ora alcuni depositi della Croce
rossa, ora vari obiettivi civili.
La
legittimazione divina dell’azione di guerra è ben nota all’interno
della concezione della jihad
islamica, la guerra santa. Una realtà questa che è differentemente
interpretata dalle molteplici fazioni del mondo islamico tra cui alcune
la considerano come un combattimento “spirituale”, altre come una
strategia puramente difensiva, altre ancora come un’offensiva violenta
condotta in nome di Dio che implica violenza e intolleranza.
Non
è nostro scopo analizzare qui la complessità del movimento islamico,
delle sue spinte integraliste o fondamentaliste, cui certamente non è
estraneo uno spirito di rivalsa nei confronti dell’occidente.
Questo
mondo, negli ultimi decenni, si è posto all’attenzione planetaria con
i suoi conflitti e i suoi problemi, con la crisi del petrolio negli anni
‘70, con l’aggravarsi della situazione nel Libano e medio Oriente,
con l’affermazione dei vari fondamentalismi. La guerra nel Golfo fu un
esempio di guerra santa, interpretata e vissuta come un’offensiva
contro gli infedeli.
L’attacco
in Afganistan, tuttavia, com’è stato ripetutamente ribadito, non ha
avuto come obiettivo la civiltà islamica e le sue interpretazioni di
guerra santa, bensì un gruppo di terroristi, condannati per lo più
anche all’interno del loro universo culturale e religioso.
Quello
che a noi interessa soprattutto notare è il fatto che il ricorso
abusivo al nome di Dio non è esclusivo delle varie forme, legittime o
meno, della jihad islamica.
Tale
ricorso, abbigliato con vesti laiche, soggiace anche dietro a molte
espressioni o a parole d’ordine utilizzate dal ben più moderno fronte
occidentale. Qui il ricorso assume lo spirito biblico per la “lotta
del bene contro il male”, per la “giustizia infinita”, la
“libertà immutabile” (e chi non ricorda, ad esempio, l’azione Restore
hope, “Ridare la speranza”
in Somalia?) e la forma di una crociata in nome di una verità di cui ci
si attribuisce la missione di definire l’essenza.
Questa
inflazione del nome di Dio, nel cuore dei tragici eventi che hanno
marcato la storia recente, esige una riflessione.
La vita consacrata e la coscienza del proprio ruolo
La
missione di evangelizzazione nel mondo attuale che la vita consacrata è
chiamata a svolgere richiede un giudizio sulle culture, sulle mentalità;
richiede di smascherare le false speranze e le legittimazioni abusive
fatte ricorrendo al nome di Dio. La fede vissuta nella storia
approfondisce nelle persone consacrate la consapevolezza del proprio
ruolo che è quello di illuminare le coscienze, di veicolare il vero
volto di Dio, di dare voce alla sua Parola.
Questo
Dio che, anche sotto la forma di valori storici assolutizzati, appare
nei momenti difficili e di grande conflittualità dell’umanità (o
anche più semplicemente della vita personale di ognuno) è facilmente
un “sosia” di cui abbiamo bisogno per proteggere le nostre logiche,
legittimare i nostri criteri, o anche per nascondere le nostre angosce,
o ancora, per esorcizzare le nostre colpe, sfuggire alla coscienza della
nostra responsabilità davanti alle scelte fatte.
Il
ricorso a Dio, anche quando, laicizzando le sue manifestazioni, si
invoca l’assolutezza di alcuni valori che lo esprimono, serve molto
spesso a supplire a quel fondamento di cui si ha bisogno per rendere
intoccabili, indiscutibili gli interessi che sono in gioco e che
vogliamo difendere. Si recupera, come nel caso dei terroristi, il nome
di Dio per giustificare l’inaccettabile. Dio, infatti, ha la
prerogativa di rendere legittime le logiche perpetrate in suo nome, ha
il ruolo magico di sottrarre all’immanenza i nostri interessi, di
sottrarli cioè al giudizio della ragione, della critica, dell’analisi
storica.
Dio
diventa allora la comoda scorciatoia per affermare il nostro “io”,
personale o collettivo, per renderlo protagonista di convinzioni e
scelte che rispondono ai nostri criteri affermati come indiscutibili.
Curiosamente,
anche il discorso che è stato fatto a partire dal rovescio di questa
medaglia soggiace alla stessa logica. Se le nostre azioni, perpetrate in
nome di Dio, sono malvagie, occorre imputarle all’idea di Dio. E’
quest’idea che è malvagia e che bisogna demolire, come si è
adoperata a fare una certa stampa laica in occasione degli atti
terroristici dell’11 settembre.
Dio
è sempre, da qualsiasi punto lo si consideri (cristiano, ebraico o
mussulmano), un personaggio pericoloso di cui diffidare. Il “fattore
Dio”, è stato scritto, è il più corrosivo tra tutti i nemici
dell’uomo perché intossica il suo pensiero, imprigionandolo
nell’intolleranza e spingendo ai più grandi crimini. Dio è sempre
colpevole e se non lo è veramente, è solo perché … non esiste3.
Dio
rischia non solo di diventare, come accusava il filosofo Feuerbach, una
proiezione alienante in cui si riflettono i desideri non esauditi e da
cui si attende quello che l’impotenza umana non riesce a realizzare,
un comodo idolo che i potenti utilizzano per frenare l’ira dei poveri
e salvaguardare i privilegi della loro posizione. Dio diventa, ancor più,
la legittimazione dei nostri criteri, la mistificazione dei nostri
interessi, la copertura del nostro odio e dei nostri crimini.
Il
discorso, come si vede, non concerne solo la jihad islamica e i suoi
stravolgimenti. Esso ha riguardato e riguarda, alla stessa maniera,
islam e cristianesimo, oriente e occidente, passato e presente, in cui
il grido di “Allah è grande” o di “Dio lo vuole” o ancora
“Gott mit uns” ha inteso mistificare i crimini degli uomini,
commessi come pseudocelebrazione della gloria di Dio.
Quel
“sosia” che chiamiamo Dio è allora l’idolo creato dalle nostre
mani, ovviamente modellato a misura dei parametri della nostra cultura e
della nostra appartenenza. Per esso armiamo gli eserciti, siamo disposti
a ingenti sacrifici e perché no? a dare anche, come kamikaze suicidi,
la nostra vita.
Il
nome di Dio può essere un termine molto equivoco, come può essere
equivoco, in certi momenti, il nostro ricorso a lui nella preghiera. I
credenti di tutte le religioni hanno pregato dopo gli attentati
dell’11 settembre.
La
preghiera è certamente la più alta affermazione della fede in Dio. La
preghiera del cristiano è la proclamazione della trascendenza di Dio,
del rapporto personale che lo unisce a Lui. Essa è l’atto di chi
crede che non basta immergersi nella realtà visibile, tuffarsi in essa
con tutte le energie e le potenze possibili, studiarla, capirla,
trasformarla nei fenomeni e negli eventi umani, perché la presenza di
Dio non si esaurisce in tutto ciò.
La
natura, l’uomo, la storia, infatti, non assorbono il tutto di Dio e
non esprimono tutta la profondità della realtà che è sempre
trascendente. Da qui nasce il senso della preghiera cristiana quando,
esaurito lo sforzo e l’impegno umano, essa agisce più efficacemente
nel cuore di quella profondità, se arriva, umile e confidente, al cuore
di Dio.
Se
la preghiera è per eminenza l’atto dell’uomo che crede, può
tuttavia diventare facilmente il rifugio di persone che rifiutano di
fare la propria parte e che chiedono a Dio di farla a posto loro.
Etty
Hillesum, la giovane donna ebrea vittima della terribile avventura
nazista, nei momenti in cui l’orrore dello sterminio del suo popolo
era più grande, invitava i suoi contemporanei non a domandare aiuto a
Dio, ma ad offrire a Dio il loro aiuto, a manifestare il loro sostegno a
Dio lasciato solo, povero, impotente davanti alla libertà umana che
sceglieva contro di Lui.
La
preghiera ha un senso autenticamente cristiano quando non intende
piegare Dio all’uomo e ai suoi criteri, chiamandoLo a soccorso perché
non riesce più a difendere i propri interessi; bensì se eleva l’uomo
ai criteri di Dio, alla sua volontà, trasformandolo e facendolo
diventare collaboratore responsabile del suo disegno.
Oggi
più che mai siamo chiamati a pregare, a lasciarci cioè trasformare dai
criteri di Dio. Oggi più che mai siamo chiamati ad esercitare il
discernimento, per smascherare dietro le parole i contenuti che vi si
nascondono. La vita consacrata, se vuole essere la coscienza critica
delle realtà terrene, deve individuare ogni forma di idolatria, ogni
sostituzione dell’immagine alla realtà, dell’idolo al Dio vero.
Tale
ruolo fa parte dell’impegno di evangelizzazione del mondo
contemporaneo che tende a sottoporre la storia al giudizio di Dio,
relativizzando le culture, le ideologie, le istituzioni che non possono
mai rivendicare un valore di assoluto e mettersi al posto di Dio.
E’
un impegno a illuminare le coscienze, a chiamarle a conversione, a
mostrare chi è Dio e chi siamo noi che utilizziamo il suo nome; è un
impegno a innalzare la storia al disegno di Dio, affinché la
trascendenza penetri e si radichi in essa.
Seguire
Cristo per i consacrati non è mai fuggire la storia, le sue esigenze, i
suoi eventi dolorosi. Non è neanche facilitarsi il rapporto con essa,
evadendo in facili ottimismi. Chi segue Cristo più radicalmente non
vive né a fianco, né sopra la storia, egli la trascende per mettersi
più profondamente al suo ascolto e al suo servizio; non chiude i suoi
occhi su essa, ma la guida nella prospettiva della salvezza, in un
dialogo profondo, esigente, selettivo con i suoi avvenimenti.
Questo
compito di evangelizzare richiede l’impegno a conoscere i fenomeni
complessi che governano il mondo, la lucidità delle analisi, l’azione
coerente e intelligente che nasce dalla luce del vangelo e dalla fede in
Cristo, redentore dell’uomo.
Responsabili
davanti alle sfide della storia
Noi
non crediamo ai facili pacifismi, né a visioni idealistiche della
storia. Crediamo che la comunità internazionale debba difendersi dagli
attacchi terroristici. Crediamo al triplice appello alla giustizia, alla
responsabilità e alla conversione.
Tale
appello, secondo il forte richiamo della Commissione delle conferenze
episcopali della Comunità europea (COMECE), è ad individuare e punire
i responsabili degli atti criminali, anche se le categorie classiche del
diritto risultano inadeguate per la valutazione dei recenti attentati
terroristici.
L’appello
è a guardarsi da sospetti collettivi e ad escludere un massiccio uso
della violenza come risposta finalizzata al ristabilimento del diritto e
della giustizia.
L’appello
è a riflettere sul fatto che la potenza occidentale, la sua ricchezza e
i suoi simboli hanno suscitato ostilità e odio e che essi costituiscono
un contrasto troppo stridente con la miseria e l’impotenza di molti
abitanti del pianeta.
L’appello
è, infine, alla conversione solidale, come unica via alla pace perché
«non c’è alcuna giustificazione per la violenza e la distruzione,
non c’è alcuna teologia del terrore, né nella fede cristiana, né in
quella ebraica o mussulmana»4.
A
volte la storia, esattamente come avviene in alcuni momenti della nostra
vita personale, s’incarica di dirci che le soluzioni di certi problemi
non sono più rinviabili. Essa chiede delle scelte e di mettere fine a
equivoche connivenze, a compromessi e a falsi equilibri. Essa ci chiede
soprattutto di diventare responsabili non solo della nostra
“salute”, ma di quella del villaggio globale.
E’
questa forse una lettura possibile da fare a riguardo di ciò che il
mondo ha vissuto dall’11 settembre.
Questa
lettura ci riporta alla dottrina sociale della Chiesa che,
nell’analisi della complessa vicenda storica contemporanea, interpreta
i segni dei tempi alla luce dell’interdipendenza, della reciprocità,
facendo emergere la visione del mondo come unità globale.
L’interdipendenza ci mostra un villaggio planetario in cui tutti siamo
veramente responsabili di tutti (SrS 38). L’enciclica Sollicitudo
rei socialis invita fortemente a prendere coscienza di
quest’interdipendenza e dell’indispensabile dovere di solidarietà
che essa esige.
La
realtà sociologica dell’interdipendenza per il cristiano non si
riduce solo a una visione umanistica a favore di una socialità umana più
comprensiva, di un’equità necessaria, di un senso della propria
appartenenza aperto alla partecipazione del diverso e che, nel nostro
caso, deve rifiutare di far coincidere l’occidente con la totalità
umana. Non basta capire che nell’interdipendenza è insita la
possibilità di crescita umana nel confronto con la diversità.
L’interdipendenza
deve assurgere ad autentica categoria morale positiva nel dinamismo
della solidarietà. Quest’ultima, a sua volta, non è un vago
sentimento di compassione davanti ai mali dell’umanità, davanti alle
grandi tragedie dei 3.000 morti nelle Torri di Manhattan, dei 500.000 a
Hiroshima, del milione e mezzo di morti in Cambogia, dei sei milioni di
uomini sterminati nell’olocausto …
La
solidarietà è l’impegno per il bene comune che nasce
dall’interiorizzazione della convinzione che tutti siamo veramente
responsabili di tutti. Una convinzione le cui radici non sono
ideologiche, ma scaturiscono dalla vita di Cristo, dalla vita trinitaria.
La
vita consacrata non ha certo soluzioni a portata di mano. Essa è
consapevole che la violenza, i conflitti, le guerre sono parte della
storia umana perché sono sempre una possibilità davanti alla libera
volontà dell’uomo.
Essa
è chiamata a testimoniare la verità, cercando umilmente con tutti gli
uomini l’intelligenza delle scelte operative. Testimoniare la verità
significa che la coerenza della vita di uomini e donne dell’Assoluto
può aiutare a ridimensionare i particolarismi, a relativizzare i
nazionalismi, a far superare le visioni etniche, ad abbattere le
barriere che separano, ad illuminare le menti e formarle alla visione
della comune paternità di Dio.
E’
nei momenti di tenebre, di smarrimento, di paura, che va annunciata la
speranza che non è illusione. «Quella speranza che trova il suo
fondamento nella croce del Signore e che dalla forza del Signore
risuscitato trova forza per vincere con pazienza e amore le forze
dell’odio e della morte sempre in agguato fino alla fine dei tempi»5.
E’
la risposta più efficace che la vita consacrata dà alle sfide della
storia.
E
se, nonostante tutto, continuiamo a credere che Dio è colpevole, allora
bisogna avere il coraggio di accusarlo del suo vero crimine. Quello, cioè,
di aver creato l’uomo, ogni uomo, a sua immagine e somiglianza, libero
e responsabile della sua vita e di quella di suo fratello.
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