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Il
problema
Il rapporto tra
fede e scienze umane, tra spiritualità e psicologia è sempre stato
complesso e soggetto a una duplice tentazione: da una parte, soprattutto
in una società malata di psicologismo come quella attuale, si è
tentati di enfatizzare quest’ultima, illudendosi di trovare in essa
tutti i mezzi e gli strumenti necessari per favorire la crescita
spirituale. Il discernimento, l’accompagnamento sono così delegati
allo psicologo, all’esperto, che rischia di diventare la figura più
importante all’interno del cammino formativo, iniziale o permanente.
Ci
troviamo di fronte a ciò che è stato definito come riduzionismo
dal basso1,
in quanto la complessità che caratterizza la persona umana, il suo
essere mistero, realtà che
non si può comprendere e costringere all’interno di un’unica chiave
di lettura, viene interpretata in base a poche categorie riduttive, che
sottolineano unicamente o prevalentemente la dimensione psicologica,
biologica, sociale.
Il
fine ultimo dell’esistenza non viene preso in considerazione, mentre
l’attenzione è focalizzata sulle dinamiche intrapsichiche del
soggetto e sulla realizzazione di valori prevalentemente umani. Ai
suggerimenti di cui è ricchissima la tradizione per favorire il cammino
spirituale si sostituisce l’utilizzo di tecniche, orientate al
raggiungimento della pacificazione interiore, la realizzazione di se
stessi, l’acquisizione di una forma di benessere, da molti considerati
come premesse essenziali per un successivo cammino di crescita
vocazionale.
Tale
lettura univoca e riduttiva delle problematiche vocazionali, tende in
genere a offrire soluzioni altrettanto riduttive ai problemi che si
presentano all’interno del cammino formativo, sia all’inizio della
vita religiosa sia negli anni successivi all’impegno definitivo.
Due
esempi ci aiuteranno a illustrare e meglio comprendere come
un’interpretazione prevalentemente o unicamente psicologica di una
problematica vocazionale, non potrà che sfociare in proposte di
soluzioni incomplete, parziali, che accantonano e non prendono in
considerazioni vaste aree della persona e sottovalutano soprattutto la
sua possibilità di aprirsi all’azione dello Spirito, trasformando il
momento di smarrimento e disagio in un’occasione di crescita.
Il
primo esempio riguarda la crisi che si verifica di frequente quando
una religiosa si sente privata di un ruolo in quanto scade il mandato
che le è stato affidato o perché, in base a motivi diversi, i
superiori non ritengono opportuno conferirle tale compito. Ella però lo
considera importante per sé, come mezzo di autorealizzazione, segno di
stima da parte dei superiori, occasione per mettersi alla prova e
dimostrare, a se stessa e agli altri, le proprie capacità. La mancata
soddisfazione di un’aspirazione, legittima dal punto di vista umano,
ma segno di una non completa interiorizzazione dei valori della vita
religiosa, provoca una crisi, che dovrà essere affrontata per evitare
frustrazioni paralizzanti, reazioni vittimistiche che possono protrarsi
nel tempo e lasciare strascichi indelebili.
Pensare
di risolvere il problema limitandosi a inviare la religiosa dallo
psicologo non costituisce necessariamente un errore, ma comporta un
grave rischio. Il pericolo sarà infatti quello di mettere in moto
dinamismi unicamente o prevalentemente psicologici, quali, per esempio,
la ricerca della stima personale, l’aggressività, motivata o
eccessiva, nei confronti di coloro da cui la persona non si sente
capita.
In
questo tipo di lettura della crisi, non ci sarà spazio per la
preghiera, per l’ascesi, per tutti quei mezzi che la vita spirituale
propone al fine di rivitalizzare l’azione dello Spirito in noi. La
persona inoltre sarà orientata verso una finalità puramente umana,
quale quella della ricerca del proprio benessere, piuttosto che aiutata
ad assimilare in modo più profondo i valori che contraddistinguono la
sua scelta vocazionale. Ella forse uscirà da questo momento di
malessere sentendo che alcune difficoltà si sono allentate, che
interiormente si è pacificata. Avrà probabilmente appreso modi più
appropriati per gestire i suoi conflitti: saprà controllare
l’aggressività, riconoscere il proprio valore anche quando questo non
trova riscontri nell’ambiente circostante; ma, se l’intervento si è
limitato all’ambito psicologico, non solo la sua fede non avrà potuto
usufruire di quest’occasione per crescere e approfondirsi, ma di
fronte a un altro possibile momento di smarrimento interiore, la
religiosa in questione si troverà ad affrontare gli stessi problemi,
fornita solo di strumenti umani che rafforzeranno in lei non il
desiderio di orientare la propria vita a Dio, ma quello di cercare per sé
il benessere e la pacificazione che, nel passato, l’avevano spinta a
chiedere l’aiuto dello psicologo.
Il
secondo esempio riguarda un fenomeno altrettanto frequente,
soprattutto negli ultimi anni del periodo formativo iniziale, il
cosiddetto juniorato o studentato: mi riferisco alla scoperta di ciò
che potremmo definire come precarietà, ambivalenza, delle proprie
motivazioni vocazionali. Si pensava di essere entrati nella vita
religiosa per servire il Signore mentre, a poco a poco, si scoprono i
numerosi motivi difensivi che hanno portato a tale scelta. C’è chi si
accorge di aver avuto paura dell’altro sesso, chi si rende conto dei
propri timori nell’affrontare i rischi del mondo o chi prende
coscienza delle forti influenze esercitate dall’ambiente familiare.
Pensare
di risolvere la crisi limitandosi a una lettura puramente psicologica,
che porta a concentrarsi sulle dinamiche difensive e sul loro rapporto
con la scelta iniziale, rischia però di prendere in considerazione un
unico elemento, assolutizzandolo, e di accantonarne un altro, ben più
importante: il germe della vocazione, ancora vitale, benché soffocato
da altri fattori che ne impediscono la crescita. Si finisce così per
estirpare il grano buono insieme alla zizzania che, come sempre,
crescono l’uno accanto all’altra nel campo della nostra interiorità.
Il
rischio di utilizzare la psicologia in modo distorto, eccessivo,
riduttivo si accompagna attualmente al pericolo opposto, quello di
rifiutare l’utilità del contributo psicologico, assolutizzando invece
la dimensione spirituale. Ci troviamo di fronte a quello che viene
definito come riduzionismo
dall’alto: esso induce a ignorare la complessità delle
motivazioni e a privilegiare un’unica dimensione dell’essere umano,
quella spirituale-razionale. In base a questo unico dato si attua il
discernimento, rischiando così di fermarsi alle apparenze, di
perpetuare difficoltà che, se la persona fosse aiutata ad approfondire
e ampliare la conoscenza di se stessa, potrebbero essere risolte,
lasciando così maggior spazio allo Spirito per agire e trasformare la
sua interiorità.
Un
metodo formativo che tende a prendere in considerazione unicamente la
dimensione spirituale-razionale, affronterebbe le crisi descritte in
precedenza in modo radicalmente diverso rispetto a un orientamento
prevalentemente psicologico. Di fronte alla scoperta delle motivazioni
difensive che hanno portato alla scelta vocazionale, l’atteggiamento
del formatore tenderebbe infatti a sostenere e incoraggiare il cammino
spirituale, l’ascesi, la perseveranza, senza sollecitare un lavoro di
introspezione, che permetta di fare chiarezza nelle zone buie del
proprio mondo interiore. La preoccupazione principale sarebbe
giustamente quella di salvaguardare la vocazione, senza però favorire
un cammino di crescita interiore, col rischio di mantenere in sospeso un
problema, che prima o poi la persona vorrà e dovrà risolvere, magari
ricorrendo a decisioni drastiche di abbandono della scelta fatta, perché
ritenuta non libera.
Un
cammino formativo che renda assoluto ora l’uno ora l’altro aspetto
si rivela così dannoso per la persona e la sua crescita vocazionale.
Come possiamo intuire da quanto affermato fino a questo punto, si
tratterà allora di trovare un giusto equilibrio, una sintesi matura,
capace di usufruire degli apporti delle scienze umane, nel rispetto
della complessità della persona e soprattutto della sua apertura al
trascendente come Divino. A chi obietterà che per secoli si è fatto a
meno dell’apporto della psicologia si potrà di conseguenza ricordare
che tutti i maestri di vita spirituale sottolineano l’importanza della
conoscenza di se stessi per un solido cammino di crescita vocazionale.
Alcune
chiarificazioni
Si
tratta di cercare delle piste di riflessione, per individuare come sia
possibile raggiungere la sintesi su cui stiamo riflettendo. Il primo
passo essenziale per individuare in che modo raggiungere tale
integrazione, è quello di definire con maggiore chiarezza che cosa
intendiamo per psicologia e per spiritualità.
Esse infatti sono innanzi tutto associate da un fattore comune: la poca
chiarezza, se non addirittura la confusione, riguardo a ciò che si
intende quando si utilizzano tali termini. Cercheremo quindi di
pervenire a una chiarificazione a livello terminologico, per poi
individuare, in un momento successivo, come sia possibile una
collaborazione, finalizzata a una vera crescita, a una trasformazione
globale dell’individuo chiamato dal Signore alla sua sequela.
La
prima grande confusione, per
quanto riguarda la psicologia, si è andata sempre più chiarendo negli
ultimi decenni. Nel passato, essa era spesso confusa con la psichiatria
e, di conseguenza, il suo uso era limitato ai casi in cui si sospettava
la possibile presenza di una forma di patologia. Inviare una novizia,
una religiosa, dallo psicologo significava da una parte nutrire dei
sospetti a proposito della sua salute mentale e dall’altra costituiva
anche una sorta di marchio, di etichetta, corrispondeva a un’indiretta
dichiarazione della presenza di problematiche di ordine insolito, su cui
non si poteva intervenire con i normali mezzi cui una religiosa deve far
ricorso in caso di difficoltà.
Questa
prima, grande confusione, consiste dunque nella tendenza a equiparare la
psicologia con la psichiatria oppure a ridurre l’utilizzo della
psicologia all’ambito clinico, settore in cui essa opera, ma il cui
contributo non appare significativo in campo formativo, dove si rileva
la sua utilità solo per quei casi particolari, a proposito dei quali è
necessario un discernimento capace di individuare qual è l’ambito
specifico cui appartengono alcuni problemi e se sia possibile
risolverli.
Possiamo
citare come esempio quello del seminarista che, giunto al quinto anno di
teologia, si rende conto di non essere ancora riuscito a risolvere un
problema che lo tormenta ormai da molti anni, costituito da una fobia
che gli fa vivere in modo drammatico la possibilità di dover leggere in
pubblico. In questo caso, l’intervento dello psicologo si rivelerà
utile per tentare di risolvere un problema non particolarmente grave dal
punto di vista diagnostico, ma che risulterebbe senz’altro molto
controproducente all’interno di una scelta di vita che, nella sua
dimensione liturgica, comporta costantemente la lettura e la presa di
parola in pubblico.
Riscontriamo
però un altro tipo di confusione
per quanto riguarda il contributo della psicologia nel processo
formativo, che potremmo definire di carattere antropologico.
In questo caso ci si dimentica che, dietro a ogni metodo psicologico
esiste una teoria, spesso non esplicitata, ma alla cui base è sempre
presente una particolare concezione della persona umana. Essa
costituisce sempre un quadro di riferimento, che orienta il modo di
pensare e di intervenire da parte di chi propone il cammino formativo.
Si parla allora di psicologia in senso generale, ma, di fatto, nella propria mente si
fa riferimento alle teorie di un determinato pensatore, le quali possono
essere in contraddizione con il modello antropologico cristiano e
riflettere invece quello della cultura contemporanea.
Anche
qui alcuni esempi concreti potranno essere utili.
Prendiamo
allora in considerazione il problema dell’aggressività che, prima o
poi, una persona in formazione dovrà saper affrontare, a causa delle
prove che incontrerà sul suo cammino, nella vita comunitaria e in
quella apostolica. I suggerimenti, le indicazioni presentati attraverso
un intervento a carattere psicologico varieranno secondo la visione
antropologica di riferimento. C’è chi, per esempio, tenderà a
sottolineare in modo particolare la presa di coscienza delle motivazioni
profonde di tale sentimento, cercando di individuare, all’interno
dell’esperienza passata della persona, in particolar modo quella
iniziale, quali possono essere state le cause che attualmente portano a
vivere situazioni diverse nello stesso modo. L’elemento interpretativo
sarà allora molto presente, fatto soprattutto di domande che tendono a
collegare il passato con il momento attuale e a spiegare quest’ultimo
attraverso la storia dell’individuo. La novizia potrà così scoprire
che il suo rapporto conflittuale con la maestra di formazione trova le
proprie origini nell’infanzia, in particolare nel rapporto
problematico con la madre, che tendeva a dominarla.
Un’impostazione
di tipo diverso invece, più che sottolineare il momento interpretativo,
cercherà di favorire il sentimento, la sua accoglienza, ma anche la sua
espressione; se l’emozione viene considerata come qualcosa di cui ci
si deve appropriare, l’attenzione sarà soprattutto finalizzata al
sentire, alla scoperta dei propri stati d’animo, delle sensazioni che
provocano piacere e a quelle che invece sono sgradevoli.
Il
primo intervento sarà orientato soprattutto a individuare i perché,
mentre il secondo sarà specialmente portato a chiedersi che cosa mi fa star bene? Queste domande, tuttavia, non orienteranno
unicamente l’introspezione; da esse, infatti, dipenderà anche il tipo
di risposta, il modo in cui la novizia deciderà di gestire il suo
conflitto con la superiora.
Nel
primo caso, per esempio, la comprensione del problema potrà portare a
un tentativo di soluzione dove la presa di coscienza della propria
tendenza a leggere nel comportamento di una persona atteggiamenti e modi
di fare di un’altra, aiuterà a essere più obiettivi, maggiormente
realisti, a contenere il proprio sentimento aggressivo, a gestire il
problema in modo più razionale.
Nel
secondo caso, invece, l’emozione, considerata come un proprio diritto,
sarà manifestata, anche in modo esplicito se non incontrollato, poiché,
anche se non necessariamente la persona ne è cosciente, il presupposto
antropologico di fondo la indurrà a considerare l’essere umano come
una persona che ha il dovere e il diritto di esprimere se stessa, mentre
coloro che non le permettono di sfogare i propri sentimenti
costituiranno una sorta di inciampo sul suo cammino, un ostacolo al
benessere personale.
Il
contributo psicologico, in entrambe le situazioni, rappresenta di fatto,
uno stimolo a valorizzare quella componente parziale della persona, la
sua capacità introspettiva e razionale nel primo caso, quella emotiva
nel secondo, che le permettono di raggiungere un fine che, benché
diverso, è sempre collegato con il suo benessere personale.
La
confusione si ingenera poiché il termine psicologico viene utilizzato
in senso generale, dimenticando che, dietro a ogni intervento
psicologico è presente una visione antropologica, che deve essere
esplicitata e confrontata con il concetto di persona umana che sta alla
base di un orientamento vocazionale. I due esempi citati ci aiutano a
comprendere come gli interventi possibili possono essere non solo
riduttivi, parziali, ma anche controproducenti. Benché le metodologie
utilizzate appaiano diametralmente diverse, esse sono di fatto
accomunate da due aspetti di fondamentale importanza, che non possono
sfuggire all’attenzione di un formatore, perché influiscono
sull’impostazione di tutto il cammino spirituale della persona che gli
è stata affidata.
Il
primo elemento è dato dal
fatto che entrambi i metodi tendono a prendere in considerazione una o
più componenti della struttura psicologica dell’individuo, senza
cercare un’integrazione di tutti gli aspetti della sua personalità.
Così, nel primo caso, l’elemento psicogenetico, inconscio, unito a
quello interpretativo, sembravano avere la meglio rispetto all’impegno
della volontà, che orienta le scelte, fa assumere decisioni, indirizza
i comportamenti nel presente, prescindendo dall’influsso che il
passato può esercitare sulla percezione e lettura della realtà. Nel
secondo caso invece sembra essere il sentimento a prevalere, con la sua
componente di istintualità, immediatezza, mancanza di sfumature, che
spesso impedisce di cogliere la realtà in modo obiettivo e di fare
spazio alla presenza dell’altro nella propria vita.
Il
secondo aspetto
che accomuna i due interventi psicologici apparentemente opposti è dato
dal fatto che entrambi tendono a ridurre l’essere umano a un’entità
puramente psicosomatica, ed eliminano così totalmente la componente
spirituale. Il primo metodo, infatti, potrebbe essere felicemente
adottato per risolvere un conflitto con il capufficio, il secondo lo si
potrebbe suggerire a una moglie frustrata, che ha sempre cercato, senza
successo, di ribellarsi a un marito schiavista e prepotente. Né l’uno
né l’altro però aiutano ad affrontare la difficoltà di relazione
collocandola nel suo vero contesto, quello di una persona che deve
interiorizzare il valore dell’obbedienza e a tale scopo deve anche
orientare i suoi dinamismi umani in modo adeguato, spiritualizzandoli.
Se
le difficoltà nei confronti della maestra vengono lette sempre e
unicamente come conflitti interpersonali e la novizia non è mai aiutata
a dilatare il proprio orizzonte, a cercare nell’evangelo, nella vita
dei santi, nella tradizione, le risposte a queste stesse difficoltà, il
suo cammino vivrà una sorta di incongruenza, di divisione interiore.
Chiamata a volare in alto, nello spazio di Dio, se nessuno le presenta
uno squarcio di cielo dove librarsi, nonostante la paura che può vivere
nel consegnarsi a Dio, nel fare propri i valori che Gesù ha vissuto e
per cui ha dato la vita, ella si ritroverà a razzolare sempre nel
cortile di casa, tra conflitti, limiti, debolezze, ambivalenze,
piccinerie della vita quotidiana.
Esiste
infine un terzo
tipo di confusione,
quello comunemente più ignorato, ma che, se preso in considerazione e
superato, potrebbe ulteriormente favorire quel cammino di unificazione
così importante per la crescita umana e spirituale.
Si
tratta della confusione che nasce dalla tendenza a far
coincidere psicologico e conflittuale.
In
questo caso l’antropologia sottostante mette in risalto la centralità
della dimensione spirituale all’interno del cammino formativo, ma
tende a ridurre la dimensione psicologica dell’individuo a un insieme
di tensioni, pulsioni, istinti, da eliminare perché rappresentano delle
spinte che creano tensione, contraddizione all’interno della persona.
Così, senza che nessuno se ne renda conto, l’inconscio viene
assimilato alla soffitta buia di casa, dove regnano ragni, topi e
pipistrelli, un luogo in cui è pericoloso entrare o dove bisogna
intervenire per fare un’operazione di ripulitura totale; nello stesso
modo i bisogni appaiono come delle realtà che fanno paura, che
potrebbero impadronirsi di noi, condizionarci profondamente, orientare
negativamente il nostro cammino.
Si
teme la dipendenza perché può costituire un ostacolo a una vita di
castità, ma si dimentica che, senza di essa, privo di un’interiorità
orientata alla relazione, nessuno potrebbe vivere una sana amicizia. Si
ha paura del mondo sconosciuto che abita ognuno di noi e se ne coglie
un’unica dimensione, finendo così per ignorare il fatto che esso
rappresenta un mezzo messo a nostra disposizione dall’infinita
sapienza di Dio, perché potessimo comprendere qualcosa di più di noi
stessi; si dimentica inoltre che nell’uomo spirituale anche il mondo
inconscio può essere orientato a Dio, come dimostrano, per esempio, le
descrizioni dei sogni che ci sono provenute dalla tradizione dei padri
del deserto.
Ritroviamo
così, alla base di quest’impostazione, una sorta di manicheismo che
riflette lo stesso dualismo presente tra anima e corpo, quando
quest’ultimo viene assimilato a carne, intesa come principio che
orienta tutto l’uomo in un senso contrario a quello dello Spirito.
Invece di distinguere i diversi livelli, operazione necessaria per
cercare di cogliere in modo più profondo qualcosa del mistero presente
nel cuore dell’uomo, si tende a separare e opporre e si diventa
incapaci di cogliere quella profonda armonia presente dentro di noi,
quell’essere fatti a immagine, inscritto nelle profondità di tutto il
nostro essere: spirito, corpo, psiche.
L’unità
dell’essere umano
La materia è generata dallo spirito, il mondo procede da un soffio:
tutto è pneumatico, afferma Bastaire2
e, parlando della natura profonda di figli dello Spirito che appartiene al sesso e alla
funzione genitale, afferma che essi
non
sono di una pasta diversa dal resto del mondo: sono fatti della stessa
stoffa di cui sono intessuti i figli di Dio. Come tutto ciò che esce
dalle mani del Padre, sono rivestiti di un'eminente dignità. Meritano
quindi di essere accostati con fede umile e rappacificata. La loro
cattiva reputazione non è solo un inganno: è un insulto che raggiunge
l’opera creatrice alla sua radice, là dove l’eterno partorisce il
tempo e l’ineffabile si rende visibile3.
Se
questo è vero della sessualità, perché non ritenerlo altrettanto vero
per tutte le altre dimensioni della psiche umana? Perché cogliere in
essa solo i segni del limite, della debolezza, del ripiegamento
narcisistico su se stessi e non la forza che può essere orientata al
bene, l’apertura o i segni dell’immagine, che già possiamo cogliere
e che attendono solo di essere indirizzati, trasfigurati? I padri del
deserto, che conoscevano le profondità dell’animo umano con una
competenza che può far invidia al più preparato fra gli psicologi
contemporanei, hanno sempre messo in risalto come la parte irrazionale
dell’anima non necessariamente agisce in modo disordinato, ma, al
contrario può operare secondo natura, seguendo così la volontà del
Creatore.
Nel
suo Discorso Ascetico4,
per esempio, Diadoco di Fotica afferma:
La
collera più delle altre passioni suole turbare e confondere l’anima,
ma talvolta le giova anche molto. Infatti, quando ne usiamo senza
turbamento, contro gli empi o i peccatori di ogni tipo, affinché siano
salvati o siano presi da vergogna, le procuriamo un’aggiunta di
mitezza; giacché concorriamo, del tutto, allo scopo della giustizia e
della bontà di Dio… Cosicché mi sembra che la collera saggia sia
stata offerta alla nostra natura piuttosto come arma di giustizia, da
parte di Dio nostro creatore. Se Eva se ne fosse servita contro il
serpente, non avrebbe subito l’operazione di quel piacere passionale 5.
Nello
stesso modo lo psicologo contemporaneo può sostenere, come già abbiamo
sottolineato, la positività del bisogno d’affetto: se è vero che può
rappresentare un ostacolo all’interno del cammino di una giovane che
si orienta verso la scelta della castità, è altrettanto vero che esso
costituisce la base per quell’apertura all’altro che non solo ci
permette di instaurare relazioni solide e appaganti, ma ci apre anche
all’amore di Dio. Come potremmo, infatti, accoglierlo, desiderarlo,
aspirare alla Sua Presenza, se dentro di noi non esistesse questa
necessità di rapporti, che dice anche di un’apertura e di un essere
fatti per l’incontro, la relazione, l’amore?
In
questo caso allora la psicologia non appare più come la scienza che si
interessa dei conflitti, ma come uno strumento atto non solo ad
analizzare, ma anche a contemplare il mistero dell’essere umano,
sapendo che in ogni frammento di interiorità e, quindi, perfino in ciò che potrebbe
indirizzare verso il male, l’egocentrismo, l’autoaffermazione
orgogliosa, è sempre presente una possibilità di apertura, di
crescita, un orientamento trascendente, che ci orienta verso l’altro e
verso Dio.
Solo
in questo modo, liberandoci da tutti i pregiudizi, diventa allora
possibile ipotizzare un cammino di collaborazione tra scienze umane e
spiritualità. Questo però comporta, come già abbiamo accennato, il
superamento di un’altra confusione, quella che riguarda il significato
da attribuire al termine spiritualità e l’individuazione di un giusto
rapporto tra due dimensioni dell’essere umano che, benché chiamate a
interagire, non possono mai essere poste sullo stesso livello ed
equiparate, quasi assumessero l’identica importanza all’interno del
cammino formativo della persona in vocazione.
Continua
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