"Fratelli
non abbiate paura del peccato, amate l’uomo anche nel suo peccato,
giacché proprio questa è l’immagine dell’amore divino ed è la
forma suprema dell’amore sulla terra… Amate tutta la creazione
divina, nel suo insieme e in ogni granello di sabbia”1.
A parlare così è il
monaco Zosima sul letto di morte, un personaggio dei Fratelli
Karamazov. Fermiamoci in silenzio davanti alla forza esplosiva di
parole tanto sobrie, dense, specchio
di passione profonda per l’umanità intera.
Poi... pare legittimo
pensare, che in realtà nel cammino faticoso della vita, il nemico della
santità, non sia solo questo o quell’errore, ma ancora di più la
superficialità. Quel mostro leggero e senza ali, che ci impedisce di
volare alto, ma guida spesso la mente e il cuore di ognuno di noi.
Siamo abituati a
condanne e assoluzioni veloci. Sotto la pioggia torrenziale delle
notizie tele-trasmesse, ci pare naturale dire la nostra e poi passare
oltre senza neppure ricordare quello che abbiamo sentenziato. Eppure,
aggiunge ancora il santo monaco russo: “Non c’è che un solo mezzo
per salvarsi: rendersi responsabili di tutti i peccati umani”2.
In questa stravolgente
ottica della comunione sembra non esserci posto per chi ritiene di non
aver bisogno dell’altro.
Invece ogni giorno
percepiamo con chiarezza che è l’homo oeconomicus a fare da
primo attore nella scena del mondo globale. Un uomo intossicato
soprattutto dal suo potere di acquisire e acquistare, spesso poco
attento ai dati che parlano di fame e di povertà, travolto da una
specie di delirio narcisistico senza freni.
Libido dominandi
la chiama Enzo Bianchi, quella sete di potere che per l’Apocalisse di
Giovanni sa travestirsi anche da dio (Ap 13) pur di avere
l’adesione e l’adorazione che vanno solo al vero Dio3.
Coscienti che nessun
uomo, nessuna comunità possano sottrarsi a tale tentazione siamo divisi
tra il desiderio di camminare con l’altro per la trasfigurazione del
mondo e quello di fuggire nell’isolamento o di accusarlo e condannarlo.
Come Pietro; anche lui
avrebbe voluto allontanarsi e costruirsi una tenda, non scendere più a
valle, estraniandosi dal dolore e dall’incredulità altrui.
L’evangelista Luca dice che l’apostolo “non sapeva quel che
diceva” (Lc 9,33).
Noi al contrario
comprendiamo benissimo cos’è la paura di Pietro, perché volentieri
ce ne andremmo lontano dal frastuono della città, dai dolori vicini e
lontani della vita quotidiana, dal dramma della strada.
Cristo
compagno nella strada
Si legge ancora nel
vangelo di Luca, subito dopo l’episodio della Trasfigurazione, che Gesù
disceso dal monte, si trova davanti una gran folla e che tra la folla
qualcuno lo supplica di liberare il figlio dal demonio. Egli si mette a
servizio di una così strana e improvvisa richiesta (Lc 9,37-42).
Non ci sono cenni in nessuno dei vangeli che ci mostrino un Cristo
indifferente all’angoscia della
gente comune. Egli si ferma, ascolta e azioni e parole in una direzione:
restituire la dignità, liberare dal male, reintegrare nella comunità.
Egli è presente e
accompagna l’uomo afflitto dalle tenebre fisiche e psichiche (es. il
cieco, il sordo, il muto), trasforma la casa di un uomo di potere in una
casa aperta al cambiamento e ai fratelli (es. Zaccheo, la casa di
Simone), così come cerca di dare senso all’inquietudine e alle
tenebre esistenziali (Nicodemo Gv 3).
Egli attende stanco,
vicino al pozzo, una donna, quella samaritana (cfr. Gv 4), che
collezionava mariti, emblema dell’infedeltà e delle contraddizioni e
s’intrattiene con lei chiedendole di dissetarlo!
È il Cristo della
strada, compagno degli ultimi e di ogni loro fragilità, senza barriere,
ma trasportato dalla passione di ridare senso alla vita dei suoi simili
offrendo la sua.
E’ ciò che Paolo
scrive nel famoso inno cristologico della lettera ai Filippesi: “Non
considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se
stesso” (Fil 2, 6-7).
Da secoli queste parole
ci ricordano che il dialogo e la comunicazione non sono degli slogan.
Stare con la folla, assumere i ritmi a volte banali della vita di
ognuno; in fondo, la scena della storia comune è l’oggetto della
passione di Dio incarnato, che si lascia svuotare dal bisogno di
salvezza. È l’uomo nuovo.
Un’indicazione forte
per tutti noi, così lacerati da modelli che spingono a imitare i gesti
e i sentimenti dell’antenato Adamo, tutto preso da una autogestione
idolatrica della sua vita e delle cose (cfr. Gn 3).
Uno stile, quello di
Gesù, che esula da risposte dogmatiche o soluzioni puramente
accademiche. Lo scorrere quotidiano, le vicende dell’uomo del suo
tempo, le ferite della gente, i loro volti incrociati per strada: ecco i
luoghi e le occasioni, in cui egli rende visibile il volto del Padre,
totalmente aperto alla condizione umana.
Pensiamo a che cosa ha
potuto significare l’incontro del Signore con la peccatrice che tutti
volevano punire esemplarmente con la lapidazione. Fino a che punto Gesù
ha saputo e voluto scendere nella fragilità così punita dalla Legge.
Il vangelo di Giovanni
al capitolo 8, ci fa cogliere benissimo il clima che si era creato
intorno a questa donna sorpresa in adulterio. Oltretutto ella non arriva
lì per mostrare segni di pentimento, ma solo perché qualcuno ce la
trascina in malo modo.
Il testo dice che Gesù
si piegò in giù (cfr. Gv 8,7), cioè si piegò a terra, verso
terra. Egli si ferma davanti a questa storia umana, a una donna
stravolta dal suo errore e dalle condanne altrui. Egli è lì e la sua
prima risposta non è un discorso, ma un gesto per niente logico, né
razionale.
Molti commentatori
hanno cercato di spiegare il significato di questo piegarsi a terra di
Gesù. Per es. S. Girolamo ha pensato che fosse sua intenzione scrivere
i peccati degli accusatori della donna. Altri pensano che Gesù cercasse
di prendere tempo, di far sbollire la ferocia.
Rimane più convincente
l’interpretazione che mette in risalto l’atteggiamento di
condiscendenza di Gesù. Egli si piega perché l’altro, in questo caso
la donna, venga sollevato. E’ come se il peso sulle spalle fosse
tanto, e quelle “tracce per terra”, sono come i “lunghi solchi”
sulla schiena, di cui parla il Salmo proprio a proposito
dell’israelita solidale (Sl 129, 3).
Cosa fa Gesù, lì
piegato come un agnellino? Cosa penseranno quelle persone che magari per
gelosia verso questa donna la volevano morta a tutti i costi? Quali
saranno i pensieri degli scribi, dei farisei, che in realtà hanno
condotto davanti a lui l’adultera per tendergli un tranello?
L’evangelista ce lo dice: gli onesti accusatori si dileguano, perché
nessuno di loro si ritiene senza colpa (Gv 8,9).
Ciò che appare così
sorprendente è che l’unica preoccupazione di Gesù sembra la
relazione con la donna, in funzione della quale deve essere amministrata
la giustizia. Egli utilizza la legge in funzione di lei, imponendole di
rivelare un aspetto inconcepibile, facendo scoprire che la legge è
sempre in funzione della persona, anche quella che si è macchiata di
una colpa tanto grave.
La legge viene spinta
fuori dai recinti sacri per intrecciare la strada dell’esistenza con
la sua forza di verità e di liberazione. Il testo evangelico ci
presenta alla fine Gesù e la donna da soli, ora non c’è posto per
l’umiliazione ma solo per una gratuità apparentemente paradossale.
Perché a una donna - che non chiede perdono - viene detto: “Va!
D’ora in poi non peccherai più” (Gv 8,11). C’è solo
l’invito a fare tesoro di una misericordia così dinamica che
sicuramente resisterà al peccato.
Così commenta F.
Mauriac: “Ella si allontanò. Ritornerebbe: o piuttosto non aveva
bisogno di ritornare: essi erano uniti d’ora innanzi per sempre. Così
il Cristo si formava, sotto l’apparenza del suo immenso smacco, una
clientela nei bassi fondi; egli accumulava un tesoro segreto con quei
cuori di scarto, coi rifiuti del mondo. Un ramo di nocciuolo non gli era
necessario per scoprire negli esseri a dispetto di tutte le miserie
visibile, quella sorgente di sofferenza e di tenerezza sulla quale egli
aveva potere”4.
I
volti: voci della strada
“Il mio sentimento
dominante, l’umiliazione per essere considerato un ospite
indesiderato; l’umiliazione di sentirsi disprezzati come gente che
vale meno di niente. Mi è capitato più volte di vedere l’immagine
dell’uomo inchiodato su una croce di legno, che i cristiani credono
sia il figlio di Dio.
Mi è venuta voglia di
domandargli se non pensano che tanti rifugiati e immigrati assomiglino
molto a quell’uomo e che sono proprio loro, i cristiani, a metterci in
una condizione di sofferenza e umiliazione come quella in cui fu messo
il figlio di Dio”5.
La strada parla con le
parole di Iassin rifugiato in Italia, perché nel suo paese non si
voleva adeguare al regime, e dunque è sfuggito alla morte per inseguire
un sogno, un sogno di libertà e di giustizia.
Ora la sua voce non è
spezzata dal dolore delle torture poliziesche della sua terra, ma dalla
terribile esperienza fatta nei ricchi paesi d’occidente. E’ qui che
i suoi capelli sono diventati bianchi velocemente, ed è costretto a
dormire su un marmo gelido di un sottopassaggio, e a fare una lunga fila
per un pezzo di pane.
La strada parla con la
voce di migliaia di ragazze portate qui con inganno e costrette a
mettersi nel peggiore dei mercati. Con le loro sagome che si muovono
sfuggenti nel buio, mostrando nel loro corpo denudato per la bramosia
dei viziosi, nuove umiliazioni e tanta solitudine.
La strada ha la voce
fioca di un anziano solo, che a fatica scende dall’autobus, angosciato
per la fretta del guidatore e con la paura di essere chiuso in mezzo
alle porte.
La strada piange con la
mamma e i bambini sfrattati dai loro quaranta metri quadri, per un
affitto che non potevano più pagare: e ora non hanno più un muro per
proteggersi e neppure un fornello per scaldarsi qualcosa.
La strada urla: è il
pianto dei minori costretti a vivere con la violenza, il grido insensato
di chi è stato scaricato da tutti e vive da barbone, lo smarrimento di
gente sradicata e sfruttata, senza documenti né amicizie.
Anni fa don Tonino
Bello scrisse una lettera significativa dedicandola ai drop out,
cioè “i caduti fuori”, tutti quelli che sono ruzzolati giù, per
colpa propria o per cattiveria altrui, e come un’arancia rotolata
fuori da un carretto, sono finiti ai bordi di una strada, senza che
nessuno li raccogliesse: un deposito di subumanità, respinto dal
banchetto della vita.
Ma alla fine della
lettera ricordava al popolo dei drop out che da quando il figlio
di Dio Gesù, è stato messo in croce, anche gli scarti dell’umanità
sono per lui diventati polvere di stelle6.
Facciamo tante cose per
“i caduti fuori”, ma spesso con paura di essere contaminati. Diamo
loro qualche soldo, ma senza guardarli in faccia. Prestiamo soccorsi ma
forse non li amiamo abbastanza: siamo poco capaci di tenerezza sulla
strada, e in nome della prudenza chiudiamo troppo in fretta, a sera,
l’uscio della nostra casa. Vogliamo liberarci in fretta del volto
dell’altro.
I
segni: volto della speranza
La speranza cristiana
non è soltanto attesa celeste, noi tutti sappiamo che “ogni piccolo
segno sociale di un certo tipo, ogni incontro di fratelli e sorelle che
si realizza nella vittoria del dono sul calcolo è una pregustazione del
Regno definitivo e può essere sperato come dono di Dio”7.
Si tratta di avere la certezza che il vangelo può essere inteso e
vissuto sempre in modo originale; di certo questo non risolverà le
tragedie della strada, ma porrà dei segni di speranza. In fondo è
quello che Gesù ha fatto durante la sua vita.
La sera in cui si alzò
da tavola e si mise a lavare i piedi agli apostoli (cfr. Gv 13),
non ha risolto i problemi della schiavitù, ma ha tracciato un sentiero
percorribile. Ha indicato che la vita di ognuno può essere trasformata
da questo modo di porsi accanto all’altro, ha tracciato il volto di
una Chiesa che si fa serva.
Un cammino di sicuro
non privo di fatiche ma percorribile, se si accetta di rivestirsi dei
sentimenti di Cristo Gesù (Fil 2,5).
La Chiesa dei primi
secoli si rendeva conto dell’urgenza di scendere sulla strada della
vita, tra i dolori dei poveri, per accedere alla gioia eterna. San
Basilio afferma: “Non trascuriamo di avere, ancora oggi, i Lazzari che
giacciono alle porte (cfr. Lc 16,19-31): non neghiamo loro, perché
possano saziarsi, le briciole delle nostre mense ; non imitiamo quel
ricco spietato, per non finire come lui tra le fiamme dell’inferno”8.
L’ascolto assiduo,
attento e accogliente della Parola non mancherà di suggerire ai
credenti le modalità e i linguaggi per vivere una prossimità vera, non
anacronistica. Ci toglierà di dosso le paure di essere contaminati come
il dottore della legge, al quale Gesù chiarisce con cura dei
particolari il senso dell’amore verso l’altro. Nella parabola del
buon Samaritano infatti (cfr. Lc 25-37), dove tutto si svolge
sulla strada, per giunta piena di pericoli, uno degli elementi
più sorprendenti è che, sia il sacerdote sia il levita, sono
unicamente preoccupati di mantenere il proprio candore. Entrambi non si
rendono conto che questo li mette in una posizione di estraneità a
quella vita eterna a cui sembrano tanto interessati (cfr. Lc 10,
25) e finiscono per ereditare solo la loro glacialità senza vita. A
differenza di loro il samaritano, trovandosi nella condizione di eretico
e perseguitato, è capace di aprire il suo cuore. E’ lui che con
tenerezza ineffabile e una carezza intimissima diventa una carne sola
con il derubato lasciato lì a morire. Egli è l’unico che ce la fa a
sintonizzarsi con lo sventurato, a sentirsi suo prossimo, suo
consanguineo (synghenes: generato insieme)9.
L’ascolto vero della
Parola ci invita non solo alla vigilanza, all’attesa, alla preghiera
ma anche alla perseveranza, aprendosi al futuro con progetti che ridanno
senso lì dove sembra esserci il vuoto.
Si tratta di cambiare
sguardo sul volto della strada, tentare di guardare con maggiore
profondità alle cose che ci passano davanti; e porre dei segni di
reciprocità. «Verrò a raccogliervi per fare di voi il lino della
Veronica – diceva Davide Turoldo alle prostitute – e del vostro
pianto il vino migliore per la mia consacrazione»”10.
Egli si rivolgeva loro
chiamandole “sorelle” e indirizzando loro una lettera d’amore. Un
andare oltre al fatto che quelle donne lì, disturbano la quiete
pubblica, danno cattivo esempio, degradano un quartiere, ecc.
Certo non sarà stato
facile per don Benzi lasciare la sua casa canonica dopo la mezzanotte,
come ai volontari di “Progetto notte”, per fare
il giro della città con il camper per ascoltare prostitute e
clienti, per dare una mano a tirarsi fuori da un giro non solo di
“piacere”, ma anche di sofferenze.
E’ la comunità
intera a doversi sentire interpellata, non solo il singolo individuo, ed
è nella sua rinnovata disponibilità che essa diventa soggetto efficace
di evangelizzazione, perché traduce il mistero celebrato, in una realtà vitale11.
Suggestive, a questo
proposito le parole del papa ai consacrati:
“La ricerca della
divina bellezza – dice Giovanni Paolo II – spinge le persone
consacrate a prendersi cura dell’immagine divina deformata nei volti
dei fratelli e sorelle, volti sfigurati dalla fame, volti delusi da
promesse politiche, volti umiliati di chi vede disprezzata la propria
cultura, volti spaventati dalla violenza quotidiana e indiscriminata,
volti angustiati di minorenni, volti di donne offese e umiliate, volti
stanchi di migranti senza degna accoglienza, volti di anziani senza le
minime condizioni per una vita degna”.
Questo o quel gesto non
sono risolutivi ma alimentano la semina della speranza,
che chiede un cuore aperto e generoso.
E’ quell’acino di
grano - dice Tagore nella sua leggenda del mendicante - messo nella mano
del Re dei re, che con nostra sorpresa si trasformerà in un granellino
d’oro.
Del mendicante che lo
incontrò, si dice, che pianse amaramente per non aver dato a quel re
che chiedeva l’elemosina tutto quello che possedeva.
Stelle
che brillano
Bisogna trovare delle
stelle la cui luce
illuminerà i volti.
I volti degli
impoveriti, dei piccoli, di tutti quelli che hanno bisogno di relazioni
liberanti: sì, perché oggi uno dei problemi urgenti è anche la
necessità di relazioni umanizzanti, vere, profonde, nutrite dal
desiderio del dono reciproco.
Nessun uomo può farne
a meno: deve andare verso l’altro e sentire che l’altro gli sta
venendo incontro. In primis il vangelo ci chiama a essere uomini
e donne fedeli e appassionati: come il Signore.
Molti si interrogano
sul senso e il futuro del cristianesimo nella nostra epoca. Il
giornalista Accattoli sostiene che siamo solo e ancora all’inizio, ma
i segni sono tanti e originali. Fa inoltre una sottolineatura
interessante, dicendo che saranno i francesi a guardare avanti perché
essi sono i meno spaventati dalla modernità: sotto la luce di Teresa di
Lisieux e Charles de Foucauld, mandati alla nostra epoca a indicare la
strada come piccola sorella e
piccolo fratello universale.
Questa modernità che
va vissuta, dai cristiani, senza la spada con cui un tempo obbligarono i
popoli a scendere nei fiumi per battezzarli12.
I francesi hanno avuto il dono di personalità assolutamente originali
nell’annuncio del vangelo. Uomini e donne particolari in un annuncio
quasi sinfonico, per la sua poliedricità, per l’originalità, per
l’anticipo intuitivo.
La bellezza di tutto
questo è che si è trattato in molti casi di persone che hanno saputo e
voluto trovare il volto di Cristo in ogni circostanza, in ogni uomo.
Tanto per fare un solo esempio, pensiamo a Charles de Foucauld, la sua
spiritualità è quella della relazione: egli è andato nel deserto per
fare fraternità. Il suo seppellirsi in Gesù è stato un immergersi in
un popolo: da lì ha cominciato a parlare di evangelizzazione come
creazione di legami, di evangelizzazione come amicizia, di annuncio come
vita e pane e vestito condivisi, di ospitalità totale senza paure né
pregiudizi13.
Stretti
nella strada dalla folla: Madeleine Delbrêl
“Ci sono luoghi in
cui soffia lo Spirito, ma c’è uno Spirito che soffia in tutti i
luoghi”14,
diceva M. Delbrêl. Alla novità di questo Spirito non possiamo
sottrarci se vogliamo continuare a contemplare il volto di Cristo.
E Madeleine, donna del
nostro tempo, ci indica ancora oggi, ad oltre trent’anni dalla sua
morte, uno stile esule dalla retorica e tutto pieno di incontri,
silenzi, fatiche umane. Affascinata dal silenzio del Carmelo voleva
entrare in monastero, ma la vita la porta altrove, tra i comunisti di
Ivry o come “delegata tecnica” del Servizio Sociale per conto del
Comune e poi nella piccola casa di rue Raspail, dove tutti sapevano di
poter essere accolti o aiutati.
Ci sono pagine che
raccolgono gli appunti e le poesie di questa donna che possono veramente
indicare una strada nuova nella ricerca del volto, un volto
amato, cercato, incontrato nella vita quotidiana di tutti.
Una ricerca non
casuale, ma radicata nella convinzione che Cristo è presente, vivo:
“Inizia un’altro giorno; Gesù vuole viverlo in me. Lui non si è
isolato, ha camminato in mezzo agli uomini. Con me cammina tra gli
uomini di oggi”15.
Per Madeleine non
esistono momenti o situazioni in cui il volto di Cristo si allontana.
Egli non sceglie luoghi
privilegiati, o persone particolari: la Chiesa, i fratelli, il mondo
intero è come un faccia a faccia con lui, la strada del mondo, lì dove
è possibile incontrare i piccoli che sono suoi. “Quelli che
soffrono nel corpo, quelli che sono presi dal tedio, quelli che si
preoccupano, quelli che mancano di qualcosa. Incontro con il Cristo
respinto, nel peccato dai mille volti”16.
Le radici di un tale
atteggiamento sono nella profondità della parola di Dio, quella parola
che per la Delbrêl non si porta nella valigia da viaggio, né la si pone in un
qualsiasi angolo della nostra casa, ma nella profondità del nostro
essere attraverso un’accoglienza larga, franca, cordiale.
Ed è nella profondità
del nostro essere che la parola prende una forma umana inedita e
ci trasforma, non un semplice fatto intellettuale ma la continuazione
dell’incarnazione in noi. Egli guarderà con i nostri occhi, camminerà
con i nostri piedi: è la trasfigurazione della nostra esistenza
quotidiana.
“La frase del Signore
che abbiamo estratto dal vangelo, in una messa del mattino o durante la
corsa in metrò, o fra un lavoro domestico e l’altro, non ci deve più
abbandonare. Essa vuole fecondare, modificare, rinnovare la stretta di
mano che avremo da dare, lo sforzo che poniamo nei compiti che ci
spettano, il nostro sguardo su coloro che incontriamo, la nostra
reazione alla fatica, il nostro sussulto di fronte al dolore, lo
schiudersi della nostra gioia17.
E’ la strada lo
scenario di tutto ciò, ad essa apparteniamo, ai luoghi della gente
comune, dove scorre la storia di ogni vita, è lì che ognuno di noi
deve sapersi incontrare col volto di Cristo, nel deserto del tempo che
scorre senza chiedercelo. È li che ognuno deve pregare, senza
rimpiangere l’angolo della Chiesa o della propria casa. Il deserto, è
dove si è preda dell’amore.
Sempre e dovunque nel
nostro cuore possiamo dire al Signore: “Questa donna così triste di
fronte a me: ecco le mie labbra perché tu le sorrida. Questo ragazzo
così fatuo, così sciocco, così duro: prendi il mio cuore per amarlo
con esso più fortemente di quanto non gli sia mai accaduto”18.
E’ lì che si
costruisce e vive la nostra obbedienza, nelle conversazioni
apparentemente banali delle persone che incontriamo, e che magari hanno
voglia di perdere tempo, il nostro vicino nell’autobus che ci dà
fastidio, le piccole circostanze della vita sono dei superiori fedeli a
cui obbedire.
Uno stile di sguardi,
di strette di mani e di sorrisi forse appena accennati è l’obbedienza
che ha le sembianze dei volti, del Suo volto.
Un’obbedienza che
colora la nostra vita e la rende più leggera, una musica dello Spirito
che la trasforma in danza.
«Signore, insegnaci il
posto
che tiene, nel romanzo eterno
avviato tra te e noi,
il ballo della nostra obbedienza.
Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni;
in essa quel che tu permetti
dà suoni strani
nella serenità di quel che tu vuoi.
Facci vivere la nostra
vita,
non come un giuoco di scacchi dove tutto è calcolato,
non come una partita dove tutto è difficile,
non come un teorema che ci rompa il capo.
Ma come una festa senza fine
dove il tuo incontro si rinnovella,
come un ballo,
come una danza,
fra le braccia della tua grazia,
nella musica che riempie l’universo d’amore.
Signore, vieni ad invitarci19».
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