n. 12
dicembre 2001

 

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La nostra paura della strada
di Antonietta Augruso

 

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"Fratelli non abbiate paura del peccato, amate l’uomo anche nel suo peccato, giacché proprio questa è l’immagine dell’amore divino ed è la forma suprema dell’amore sulla terra… Amate tutta la creazione divina, nel suo insieme e in ogni granello di sabbia”1.

A parlare così è il monaco Zosima sul letto di morte, un personaggio dei Fratelli Karamazov. Fermiamoci in silenzio davanti alla forza esplosiva di parole tanto sobrie, dense,  specchio di passione profonda per l’umanità intera.

Poi... pare legittimo pensare, che in realtà nel cammino faticoso della vita, il nemico della santità, non sia solo questo o quell’errore, ma ancora di più la superficialità. Quel mostro leggero e senza ali, che ci impedisce di volare alto, ma guida spesso la mente e il cuore di ognuno di noi.

Siamo abituati a condanne e assoluzioni veloci. Sotto la pioggia torrenziale delle notizie tele-trasmesse, ci pare naturale dire la nostra e poi passare oltre senza neppure ricordare quello che abbiamo sentenziato. Eppure, aggiunge ancora il santo monaco russo: “Non c’è che un solo mezzo per salvarsi: rendersi responsabili di tutti i peccati umani”2.

In questa stravolgente ottica della comunione sembra non esserci posto per chi ritiene di non aver bisogno dell’altro.

Invece ogni giorno percepiamo con chiarezza che è l’homo oeconomicus a fare da primo attore nella scena del mondo globale. Un uomo intossicato soprattutto dal suo potere di acquisire e acquistare, spesso poco attento ai dati che parlano di fame e di povertà, travolto da una specie di delirio narcisistico senza freni.

Libido dominandi la chiama Enzo Bianchi, quella sete di potere che per l’Apocalisse di Giovanni sa travestirsi anche da dio (Ap 13) pur di avere l’adesione e l’adorazione che vanno solo al vero Dio3.

Coscienti che nessun uomo, nessuna comunità possano sottrarsi a tale tentazione siamo divisi tra il desiderio di camminare con l’altro per la trasfigurazione del mondo e quello di  fuggire nell’isolamento o di accusarlo e condannarlo.

Come Pietro; anche lui avrebbe voluto allontanarsi e costruirsi una tenda, non scendere più a valle, estraniandosi dal dolore e dall’incredulità altrui. L’evangelista Luca dice che l’apostolo “non sapeva quel che diceva” (Lc 9,33).

Noi al contrario comprendiamo benissimo cos’è la paura di Pietro, perché volentieri ce ne andremmo lontano dal frastuono della città, dai dolori vicini e lontani della vita quotidiana, dal dramma della strada.

Cristo compagno nella strada

Si legge ancora nel vangelo di Luca, subito dopo l’episodio della Trasfigurazione, che Gesù disceso dal monte, si trova davanti una gran folla e che tra la folla qualcuno lo supplica di liberare il figlio dal demonio. Egli si mette a servizio di una così strana e improvvisa richiesta (Lc 9,37-42). Non ci sono cenni in nessuno dei vangeli che ci mostrino un Cristo indifferente all’angoscia  della gente comune. Egli si ferma, ascolta e azioni e parole in una direzione: restituire la dignità, liberare dal male, reintegrare nella comunità.

Egli è presente e accompagna l’uomo afflitto dalle tenebre fisiche e psichiche (es. il cieco, il sordo, il muto), trasforma la casa di un uomo di potere in una casa aperta al cambiamento e ai fratelli (es. Zaccheo, la casa di Simone), così come cerca di dare senso all’inquietudine e alle tenebre esistenziali (Nicodemo Gv 3).

Egli attende stanco, vicino al pozzo, una donna, quella samaritana (cfr. Gv 4), che collezionava mariti, emblema dell’infedeltà e delle contraddizioni e s’intrattiene con lei chiedendole di dissetarlo!

È il Cristo della strada, compagno degli ultimi e di ogni loro fragilità, senza barriere, ma trasportato dalla passione di ridare senso alla vita dei suoi simili offrendo la sua.

E’ ciò che Paolo scrive nel famoso inno cristologico della lettera ai Filippesi: “Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso” (Fil 2, 6-7).

Da secoli queste parole ci ricordano che il dialogo e la comunicazione non sono degli slogan. Stare con la folla, assumere i ritmi a volte banali della vita di ognuno; in fondo, la scena della storia comune è l’oggetto della passione di Dio incarnato, che si lascia svuotare dal bisogno di salvezza. È l’uomo nuovo.

Un’indicazione forte per tutti noi, così lacerati da modelli che spingono a imitare i gesti e i sentimenti dell’antenato Adamo, tutto preso da una autogestione idolatrica della sua vita e delle cose (cfr. Gn 3).

Uno stile, quello di Gesù, che esula da risposte dogmatiche o soluzioni puramente accademiche. Lo scorrere quotidiano, le vicende dell’uomo del suo tempo, le ferite della gente, i loro volti incrociati per strada: ecco i luoghi e le occasioni, in cui egli rende visibile il volto del Padre, totalmente aperto alla condizione umana.

Pensiamo a che cosa ha potuto significare l’incontro del Signore con la peccatrice che tutti volevano punire esemplarmente con la lapidazione. Fino a che punto Gesù ha saputo e voluto scendere nella fragilità così punita dalla Legge.

Il vangelo di Giovanni al capitolo 8, ci fa cogliere benissimo il clima che si era creato intorno a questa donna sorpresa in adulterio. Oltretutto ella non arriva lì per mostrare segni di pentimento, ma solo perché qualcuno ce la trascina in malo modo.

Il testo dice che Gesù si piegò in giù (cfr. Gv 8,7), cioè si piegò a terra, verso terra. Egli si ferma davanti a questa storia umana, a una donna stravolta dal suo errore e dalle condanne altrui. Egli è lì e la sua prima risposta non è un discorso, ma un gesto per niente logico, né razionale.

Molti commentatori hanno cercato di spiegare il significato di questo piegarsi a terra di Gesù. Per es. S. Girolamo ha pensato che fosse sua intenzione scrivere i peccati degli accusatori della donna. Altri pensano che Gesù cercasse di prendere tempo, di far sbollire la ferocia.

Rimane più convincente l’interpretazione che mette in risalto l’atteggiamento di condiscendenza di Gesù. Egli si piega perché l’altro, in questo caso la donna, venga sollevato. E’ come se il peso sulle spalle fosse tanto, e quelle “tracce per terra”, sono come i “lunghi solchi” sulla schiena, di cui parla il Salmo proprio a proposito dell’israelita solidale (Sl 129, 3).

Cosa fa Gesù, lì piegato come un agnellino? Cosa penseranno quelle persone che magari per gelosia verso questa donna la volevano morta a tutti i costi? Quali saranno i pensieri degli scribi, dei farisei, che in realtà hanno condotto davanti a lui l’adultera per tendergli un tranello? L’evangelista ce lo dice: gli onesti accusatori si dileguano, perché nessuno di loro si ritiene senza colpa (Gv 8,9).

Ciò che appare così sorprendente è che l’unica preoccupazione di Gesù sembra la relazione con la donna, in funzione della quale deve essere amministrata la giustizia. Egli utilizza la legge in funzione di lei, imponendole di rivelare un aspetto inconcepibile, facendo scoprire che la legge è sempre in funzione della persona, anche quella che si è macchiata di una colpa tanto grave.

La legge viene spinta fuori dai recinti sacri per intrecciare la strada dell’esistenza con la sua forza di verità e di liberazione. Il testo evangelico ci presenta alla fine Gesù e la donna da soli, ora non c’è posto per l’umiliazione ma solo per una gratuità apparentemente paradossale. Perché a una donna - che non chiede perdono - viene detto: “Va! D’ora in poi non peccherai più” (Gv 8,11). C’è solo l’invito a fare tesoro di una misericordia così dinamica che sicuramente resisterà al peccato.

Così commenta F. Mauriac: “Ella si allontanò. Ritornerebbe: o piuttosto non aveva bisogno di ritornare: essi erano uniti d’ora innanzi per sempre. Così il Cristo si formava, sotto l’apparenza del suo immenso smacco, una clientela nei bassi fondi; egli accumulava un tesoro segreto con quei cuori di scarto, coi rifiuti del mondo. Un ramo di nocciuolo non gli era necessario per scoprire negli esseri a dispetto di tutte le miserie visibile, quella sorgente di sofferenza e di tenerezza sulla quale egli aveva potere”4.

I volti: voci della strada

“Il mio sentimento dominante, l’umiliazione per essere considerato un ospite indesiderato; l’umiliazione di sentirsi disprezzati come gente che vale meno di niente. Mi è capitato più volte di vedere l’immagine dell’uomo inchiodato su una croce di legno, che i cristiani credono sia il figlio di Dio.

Mi è venuta voglia di domandargli se non pensano che tanti rifugiati e immigrati assomiglino molto a quell’uomo e che sono proprio loro, i cristiani, a metterci in una condizione di sofferenza e umiliazione come quella in cui fu messo il figlio di Dio”5.

La strada parla con le parole di Iassin rifugiato in Italia, perché nel suo paese non si voleva adeguare al regime, e dunque è sfuggito alla morte per inseguire un sogno, un sogno di libertà e di giustizia.

Ora la sua voce non è spezzata dal dolore delle torture poliziesche della sua terra, ma dalla terribile esperienza fatta nei ricchi paesi d’occidente. E’ qui che i suoi capelli sono diventati bianchi velocemente, ed è costretto a dormire su un marmo gelido di un sottopassaggio, e a fare una lunga fila per un pezzo di pane.

La strada parla con la voce di migliaia di ragazze portate qui con inganno e costrette a mettersi nel peggiore dei mercati. Con le loro sagome che si muovono sfuggenti nel buio, mostrando nel loro corpo denudato per la bramosia dei viziosi, nuove umiliazioni e tanta solitudine.

La strada ha la voce fioca di un anziano solo, che a fatica scende dall’autobus, angosciato per la fretta del guidatore e con la paura di essere chiuso in mezzo alle porte.

La strada piange con la mamma e i bambini sfrattati dai loro quaranta metri quadri, per un affitto che non potevano più pagare: e ora non hanno più un muro per proteggersi e neppure un fornello per scaldarsi qualcosa.

La strada urla: è il pianto dei minori costretti a vivere con la violenza, il grido insensato di chi è stato scaricato da tutti e vive da barbone, lo smarrimento di gente sradicata e sfruttata, senza documenti né amicizie.

Anni fa don Tonino Bello scrisse una lettera significativa dedicandola ai drop out, cioè “i caduti fuori”, tutti quelli che sono ruzzolati giù, per colpa propria o per cattiveria altrui, e come un’arancia rotolata fuori da un carretto, sono finiti ai bordi di una strada, senza che nessuno li raccogliesse: un deposito di subumanità, respinto dal banchetto della vita.

Ma alla fine della lettera ricordava al popolo dei drop out che da quando il figlio di Dio Gesù, è stato messo in croce, anche gli scarti dell’umanità sono per lui diventati polvere di stelle6.

Facciamo tante cose per “i caduti fuori”, ma spesso con paura di essere contaminati. Diamo loro qualche soldo, ma senza guardarli in faccia. Prestiamo soccorsi ma forse non li amiamo abbastanza: siamo poco capaci di tenerezza sulla strada, e in nome della prudenza chiudiamo troppo in fretta, a sera, l’uscio della nostra casa. Vogliamo liberarci in fretta del volto dell’altro.

I segni: volto della speranza

La speranza cristiana non è soltanto attesa celeste, noi tutti sappiamo che “ogni piccolo segno sociale di un certo tipo, ogni incontro di fratelli e sorelle che si realizza nella vittoria del dono sul calcolo è una pregustazione del Regno definitivo e può essere sperato come dono di Dio”7. Si tratta di avere la certezza che il vangelo può essere inteso e vissuto sempre in modo originale; di certo questo non risolverà le tragedie della strada, ma porrà dei segni di speranza. In fondo è quello che Gesù ha fatto durante la sua vita.

La sera in cui si alzò da tavola e si mise a lavare i piedi agli apostoli (cfr. Gv 13), non ha risolto i problemi della schiavitù, ma ha tracciato un sentiero percorribile. Ha indicato che la vita di ognuno può essere trasformata da questo modo di porsi accanto all’altro, ha tracciato il volto di una Chiesa che si fa serva.

Un cammino di sicuro non privo di fatiche ma percorribile, se si accetta di rivestirsi dei sentimenti di Cristo Gesù (Fil 2,5).

La Chiesa dei primi secoli si rendeva conto dell’urgenza di scendere sulla strada della vita, tra i dolori dei poveri, per accedere alla gioia eterna. San Basilio afferma: “Non trascuriamo di avere, ancora oggi, i Lazzari che giacciono alle porte (cfr. Lc 16,19-31): non neghiamo loro, perché possano saziarsi, le briciole delle nostre mense ; non imitiamo quel ricco spietato, per non finire come lui tra le fiamme dell’inferno”8.

L’ascolto assiduo, attento e accogliente della Parola non mancherà di suggerire ai credenti le modalità e i linguaggi per vivere una prossimità vera, non anacronistica. Ci toglierà di dosso le paure di essere contaminati come il dottore della legge, al quale Gesù chiarisce con cura dei particolari il senso dell’amore verso l’altro. Nella parabola del buon Samaritano infatti (cfr. Lc 25-37), dove tutto si svolge sulla strada, per giunta piena di pericoli, uno degli elementi  più sorprendenti è che, sia il sacerdote sia il levita, sono unicamente preoccupati di mantenere il proprio candore. Entrambi non si rendono conto che questo li mette in una posizione di estraneità a quella vita eterna a cui sembrano tanto interessati (cfr. Lc 10, 25) e finiscono per ereditare solo la loro glacialità senza vita. A differenza di loro il samaritano, trovandosi nella condizione di eretico e perseguitato, è capace di aprire il suo cuore. E’ lui che con tenerezza ineffabile e una carezza intimissima diventa una carne sola con il derubato lasciato lì a morire. Egli è l’unico che ce la fa a sintonizzarsi con lo sventurato, a sentirsi suo prossimo, suo consanguineo (synghenes: generato insieme)9.

L’ascolto vero della Parola ci invita non solo alla vigilanza, all’attesa, alla preghiera ma anche alla perseveranza, aprendosi al futuro con progetti che ridanno senso lì dove sembra esserci il vuoto.

Si tratta di cambiare sguardo sul volto della strada, tentare di guardare con maggiore profondità alle cose che ci passano davanti; e porre dei segni di reciprocità. «Verrò a raccogliervi per fare di voi il lino della Veronica – diceva Davide Turoldo alle prostitute – e del vostro pianto il vino migliore per la mia consacrazione»”10.

Egli si rivolgeva loro chiamandole “sorelle” e indirizzando loro una lettera d’amore. Un andare oltre al fatto che quelle donne lì, disturbano la quiete pubblica, danno cattivo esempio, degradano un quartiere, ecc.

Certo non sarà stato facile per don Benzi lasciare la sua casa canonica dopo la mezzanotte, come ai volontari di “Progetto notte”, per fare  il giro della città con il camper per ascoltare prostitute e clienti, per dare una mano a tirarsi fuori da un giro non solo di “piacere”, ma anche di sofferenze.

E’ la comunità intera a doversi sentire interpellata, non solo il singolo individuo, ed è nella sua rinnovata disponibilità che essa diventa soggetto efficace di evangelizzazione, perché  traduce il mistero celebrato, in una realtà vitale11.

Suggestive, a questo proposito le parole del papa ai consacrati:

“La ricerca della divina bellezza – dice Giovanni Paolo II – spinge le persone consacrate a prendersi cura dell’immagine divina deformata nei volti dei fratelli e sorelle, volti sfigurati dalla fame, volti delusi da promesse politiche, volti umiliati di chi vede disprezzata la propria cultura, volti spaventati dalla violenza quotidiana e indiscriminata, volti angustiati di minorenni, volti di donne offese e umiliate, volti stanchi di migranti senza degna accoglienza, volti di anziani senza le minime condizioni per una vita degna”.  

Questo o quel gesto non sono risolutivi ma alimentano la semina della speranza,  che chiede un cuore aperto e generoso.

E’ quell’acino di grano - dice Tagore nella sua leggenda del mendicante - messo nella mano del Re dei re, che con nostra sorpresa si trasformerà in un granellino d’oro.

Del mendicante che lo incontrò, si dice, che pianse amaramente per non aver dato a quel re che chiedeva l’elemosina tutto quello che possedeva.

Stelle che brillano

Bisogna trovare delle stelle la cui  luce illuminerà i volti.

I volti degli impoveriti, dei piccoli, di tutti quelli che hanno bisogno di relazioni liberanti: sì, perché oggi uno dei problemi urgenti è anche la necessità di relazioni umanizzanti, vere, profonde, nutrite dal desiderio del dono reciproco.

Nessun uomo può farne a meno: deve andare verso l’altro e sentire che l’altro gli sta venendo incontro. In primis il vangelo ci chiama a essere uomini e donne fedeli e appassionati: come il Signore. 

Molti si interrogano sul senso e il futuro del cristianesimo nella nostra epoca. Il giornalista Accattoli sostiene che siamo solo e ancora all’inizio, ma i segni sono tanti e originali. Fa inoltre una sottolineatura interessante, dicendo che saranno i francesi a guardare avanti perché essi sono i meno spaventati dalla modernità: sotto la luce di Teresa di Lisieux e Charles de Foucauld, mandati alla nostra epoca a indicare la strada come piccola sorella  e piccolo fratello universale.

Questa modernità che va vissuta, dai cristiani, senza la spada con cui un tempo obbligarono i popoli a scendere nei fiumi per battezzarli12. I francesi hanno avuto il dono di personalità assolutamente originali nell’annuncio del vangelo. Uomini e donne particolari in un annuncio quasi sinfonico, per la sua poliedricità, per l’originalità, per l’anticipo intuitivo.

La bellezza di tutto questo è che si è trattato in molti casi di persone che hanno saputo e voluto trovare il volto di Cristo in ogni circostanza, in ogni uomo. Tanto per fare un solo esempio, pensiamo a Charles de Foucauld, la sua spiritualità è quella della relazione: egli è andato nel deserto per fare fraternità. Il suo seppellirsi in Gesù è stato un immergersi in un popolo: da lì ha cominciato a parlare di evangelizzazione come creazione di legami, di evangelizzazione come amicizia, di annuncio come vita e pane e vestito condivisi, di ospitalità totale senza paure né pregiudizi13.

Stretti nella strada dalla folla: Madeleine Delbrêl

“Ci sono luoghi in cui soffia lo Spirito, ma c’è uno Spirito che soffia in tutti i luoghi”14, diceva M. Delbrêl. Alla novità di questo Spirito non possiamo sottrarci se vogliamo continuare a contemplare il volto di Cristo.

E Madeleine, donna del nostro tempo, ci indica ancora oggi, ad oltre trent’anni dalla sua morte, uno stile esule dalla retorica e tutto pieno di incontri, silenzi, fatiche umane. Affascinata dal silenzio del Carmelo voleva entrare in monastero, ma la vita la porta altrove, tra i comunisti di Ivry o come “delegata tecnica” del Servizio Sociale per conto del Comune e poi nella piccola casa di rue Raspail, dove tutti sapevano di poter essere accolti o aiutati.

Ci sono pagine che raccolgono gli appunti e le poesie di questa donna che possono veramente indicare una strada nuova nella ricerca del volto, un volto amato, cercato, incontrato nella vita quotidiana di tutti.

Una ricerca non casuale, ma radicata nella convinzione che Cristo è presente, vivo: “Inizia un’altro giorno; Gesù vuole viverlo in me. Lui non si è isolato, ha camminato in mezzo agli uomini. Con me cammina tra gli uomini di oggi”15.

Per Madeleine non esistono momenti o situazioni in cui il volto di Cristo si allontana.

Egli non sceglie luoghi privilegiati, o persone particolari: la Chiesa, i fratelli, il mondo intero è come un faccia a faccia con lui, la strada del mondo, lì dove è possibile incontrare i piccoli che sono suoi. “Quelli che soffrono nel corpo, quelli che sono presi dal tedio, quelli che si preoccupano, quelli che mancano di qualcosa. Incontro con il Cristo respinto, nel peccato dai mille volti”16.

Le radici di un tale atteggiamento sono nella profondità della parola di Dio, quella parola che per la Delbrêl  non si porta nella valigia da viaggio, né la si pone in un qualsiasi angolo della nostra casa, ma nella profondità del nostro essere attraverso un’accoglienza larga, franca, cordiale.

Ed è nella profondità del nostro essere che la parola prende una forma umana inedita e ci trasforma, non un semplice fatto intellettuale ma la continuazione dell’incarnazione in noi. Egli guarderà con i nostri occhi, camminerà con i nostri piedi: è la trasfigurazione della nostra esistenza quotidiana.

“La frase del Signore che abbiamo estratto dal vangelo, in una messa del mattino o durante la corsa in metrò, o fra un lavoro domestico e l’altro, non ci deve più abbandonare. Essa vuole fecondare, modificare, rinnovare la stretta di mano che avremo da dare, lo sforzo che poniamo nei compiti che ci spettano, il nostro sguardo su coloro che incontriamo, la nostra reazione alla fatica, il nostro sussulto di fronte al dolore, lo schiudersi della nostra gioia17.

E’ la strada lo scenario di tutto ciò, ad essa apparteniamo, ai luoghi della gente comune, dove scorre la storia di ogni vita, è lì che ognuno di noi deve sapersi incontrare col volto di Cristo, nel deserto del tempo che scorre senza chiedercelo. È li che ognuno deve pregare, senza rimpiangere l’angolo della Chiesa o della propria casa. Il deserto, è dove si è preda dell’amore.

Sempre e dovunque nel nostro cuore possiamo dire al Signore: “Questa donna così triste di fronte a me: ecco le mie labbra perché tu le sorrida. Questo ragazzo così fatuo, così sciocco, così duro: prendi il mio cuore per amarlo con esso più fortemente di quanto non gli sia mai accaduto”18.

E’ lì che si costruisce e vive la nostra obbedienza, nelle conversazioni apparentemente banali delle persone che incontriamo, e che magari hanno voglia di perdere tempo, il nostro vicino nell’autobus che ci dà fastidio, le piccole circostanze della vita sono dei superiori fedeli a cui obbedire.

Uno stile di sguardi, di strette di mani e di sorrisi forse appena accennati è l’obbedienza che ha le sembianze dei volti, del Suo volto.

Un’obbedienza che colora la nostra vita e la rende più leggera, una musica dello Spirito che la trasforma in danza.

«Signore, insegnaci il posto
che tiene, nel romanzo eterno
avviato tra te e noi,
il ballo della nostra obbedienza.
Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni;
in essa quel che tu permetti
dà suoni strani
nella serenità di quel che tu vuoi.

Facci vivere la nostra vita,
non come un giuoco di scacchi dove tutto è calcolato,
non come una partita dove tutto è difficile,
non come un teorema che ci rompa il capo.
Ma come una festa senza fine
dove il tuo incontro si rinnovella,
come un ballo,
come una danza,
fra le braccia della tua grazia,
nella musica che riempie l’universo d’amore.
Signore, vieni ad invitarci19».

  

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