n. 12
dicembre 2001

 

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Il volto
Rivelazione e mistero, alterità e responsabilità

di Massimo Grilli

 

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Si dice comunemente che l’uomo “ha un volto”, ma sarebbe meglio dire che l’uomo “è un volto”. In effetti, il volto - come del resto il nome - concerne l’identità della persona: la definisce, la rivela, la mette in relazione. Cosa saremmo senza un volto? Il mistero stesso di Dio s’intreccia con quello del suo volto e l’uomo non solo non può pronunciare il nome santo di Dio1, ma non può neanche vedere il suo volto (Es 33,20). Il connubio tra nome e volto manifesta quanto sia significativa una riflessione di antropologia biblica che si muova da questa prospettiva. Ecco, dunque, la domanda a fondamento delle nostre considerazioni: che cosa significa essere un volto? Senza la pretesa dell’esaustività, le poche pagine che seguono vogliono costituire uno stimolo per la riflessione personale e comunitaria su un tema di estrema rilevanza.

Il volto: rivelazione e mistero

Il volto dice anzitutto rivelazione e mistero, e ciò equivale a dire che svela e nasconde, mette in relazione e sottrae. A Mosè, che vuole vedere il volto, Dio risponde: “Tu non puoi vedere il mio volto, perché nessun uomo mi può vedere e rimanere in vita” (Es 33,20). Non a caso, uno dei simboli più comuni di Dio è la nube, che rivela e nasconde. Nel libro dell’Esodo, la nube da una parte manifesta il volto del Dio che si mette a disposizione degli uomini accompagnandoli nel loro cammino (13,20-22), dall’altra lo rende inaccessibile, coprendolo con la sua ombra e impedendo di vederlo faccia a faccia (Es 33,20). E’ interessante che un ritornello biblico reciti cercate il mio volto2 quando poi all’uomo non è concesso di vederlo. Un controsenso? No. Piuttosto un invito a vivere alla presenza di Dio senza aver paura dell’assenza.

Un midrash3 sulla morte di Mosè racconta che, quando venne l’ora del trapasso, l’anima del profeta si ribellò, rifiutando di lasciarlo. Mosè desiderava ardentemente entrare nella terra promessa e, a motivo di ciò, aveva ingaggiato una lunga ed estenuante lotta con Jhwh, nella speranza di veder esaudito il suo desiderio, prima della morte. In suo aiuto vennero il cielo, la terra e le creature celesti. Il Signore però si mostrò irremovibile e non accolse la preghiera del suo servo; prese invece la sua anima con un bacio della sua bocca, come è scritto (cfr. Dt 34,5): e Mosè, il servitore del Signore, morì là, nel paese di Moab, sulla bocca di Jhwh4.

Questo stupefacente midrash mostra che il Dio inaccessibile nei suoi misteriosi disegni, il Dio che tiene lontano il più grande dei profeti dalla terra promessa, è anche il Dio intimo, che non solo mostra il suo volto, ma dona anche il suo bacio. Secondo la tradizione ebraica, il bacio, più del rapporto sessuale, è l’epifania dell’amore, la parola autentica di comunione, perché la bocca è la sorgente del “soffio divino” (cfr. Gn 2,7). Mosè, che muore con il bacio di Dio, è metafora della piena realizzazione della vita, che incontra finalmente il volto, tanto anelato. La vera terra promessa è il volto di Dio (cfr. Es 19,4).

Ma la vicinanza, espressa dal bacio, non significa rimozione del mistero. L’appartenenza rispetta il mistero. “L’assenza del mistero nella nostra vita moderna è la nostra decadenza e la nostra povertà... I bambini hanno occhi così aperti e vigili, perché sanno di essere circondati dal mistero... Noi distruggiamo il mistero perché abbiamo il presentimento che qui incorreremmo in un limite del nostro essere, perché vogliamo disporre ed essere signori di tutto, e proprio questo non è possibile con il mistero. Il mistero ci crea disagio... Vivere senza mistero significa non saper niente del mistero della nostra stessa vita, del mistero dell’uomo, del mistero del mondo, significa non dare importanza all’altro uomo e al mondo, significa restare in superficie. Significa prendere sul serio il mondo solo quel tanto che può essere assoggettato al calcolo e sfruttato. Vivere senza mistero significa non vedere assolutamente i fatti decisivi della vita o addiritttura negarli. Non vogliamo sapere che le radici dell’albero stanno nell’oscurità della terra, che tutto quanto vive alla luce proviene dall’oscurità e dal mistero del grembo materno, che anche tutti i nostri pensieri, la nostra vita spirituale, viene dal mistero di una oscurità nascosta, così come la nostra vita e ogni vita”5.

Ho riportato questo lungo brano di Bonhoeffer, perché mi sembra significativo per ciò che andiamo dicendo. Nel volto, Dio e l’uomo rivelano il loro mistero di presenza e inaccessibilità, di appartenenza e libertà6.

Il volto: alterità e responsabilità

Il volto dice dunque vicinanza e presenza, ma anche alterità e irriducibilità. E’ stato soprattutto il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas7 che ha insistito sul volto come “alterità”. Lévinas chiama volto “il modo in cui si presenta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me”, per cui “la vera unione, o il vero insieme, non è un insieme di sintesi, ma un insieme di faccia a faccia”8. Mi sembra di capire che, per Lévinas, ciò che definisce l’uomo è il faccia a faccia. Sia perché l’uomo è destinato a trovare il senso della “sua” vita solo “di fronte” all’altro, sia perché l’altro, nell’essere di fronte, è veramente un “tu” che non si può né catturare, né uccidere.

Dire che il volto è alterità significa, dunque, dire anzitutto che l’uomo percepisce il suo volto solo guardando chi gli sta di fronte. E’ il volto dell’altro che rende possibile la soggettività. In effetti, nessuno di noi è capace di vedere la propria faccia, di fissare i propri occhi. Noi ci percepiamo attraverso lo sguardo dell’altro.

La psicologia del profondo ha insistito enormemente sull’importanza delle relazioni primordiali per il senso di autostima. Adamo si realizza solo quando incontra qualcuno che gli sta di fronte (Gn 2,18)9. Senza un tu non esiste un io10.

Nel cap. 32 della Genesi troviamo un piccolo capolavoro narrativo che fa emergere il valore del “tu”, e dunque, del “volto” dell’Altro per la percezione del proprio11. Giacobbe, vuole incontrare, dopo un lungo tempo di assenza e inimicizia, il volto del fratello, ma prima è costretto a fissare il volto di Dio. Senza esserne cosciente, per una notte intera, ingaggia con lui una lotta e, nello scontro, dice il suo nome. Dire il nome, nel contesto biblico e semitico, significa raccontare la propria storia, svelare la nudità del proprio volto. Giacobbe dice, dunque, a Dio la sua vita di inganni e di soprusi12. E’ a questo punto che avviene qualcosa di sconvolgente; Dio gli cambia il nome, dicendogli: non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele... Finisce la storia dell’astuto Giacobbe e incomincia quella di Israele (Dio regna, Dio vince). Un racconto mitico di grande levatura, che concerne direttamente il tema che stiamo trattando. Giacobbe riconosce il suo vero volto ed è in grado di fissare quello del fratello solo dopo aver incrociato lo sguardo di Dio e averlo visto faccia a faccia (Gn 32,31).

Dire che il volto è alterità significa anche dire che nel volto non tutto è già dato, non tutto è prevedibile e tanto meno dominabile. La tentazione dell’uomo è quella di inglobare l’Altro in sé, invece di riconoscere che egli, in quanto straniero, esiste prima di ogni mia iniziativa e ogni mio potere. L’affinità di pensieri, di modelli, di comprensione del mondo, la vicinanza insomma, deve tener conto della distanza. La gioia dell’incontro viene, allora, preparata da un esercizio di scoperta faticosa, di avvicinamento laborioso a un volto che primariamente non ci appartiene, e di cui non possiamo disporre a nostro piacimento.

Ed eccoci finalmente all’ultima dimensione, strettamente connessa alla precedente: l’alterità esige “responsabilità”. E’ ancora Lévinas che, in modo profondo e stimolante, ci aiuta a riflettere. Il volto, dice il filosofo ebreo, è “autosignificante”, nel senso che non sono io a porre l’Altro, non sono io a crearlo. Il volto è una sfida al mio potere, al mio desiderio di possesso e di onnipotenza.

E’ da qui che nasce l’etica della responsabilità: “A un soggetto rivolto verso se stesso ... a un soggetto che si definisce per la cura di sé e che, nella felicità, attua il suo per sé, noi opponiamo il Desiderio dell’Altro... di un Altro che sono gli Altri, che non sono né il mio nemico... né il mio complemento...”13. Questo significa che la soggettività non è propriamente un “vivere per sé”, ma “per l’altro”. Il volto (l’Altro) mi inquieta, mi mette in discussione, obbligandomi ad assumere la responsabilità nei suoi confronti. La responsabilità è costitutiva del volto. Chi volge il suo sguardo all’altro gli dice nello stesso tempo: mi importa di te, della tua vita e della tua morte, della tua salvezza e perdizione. La domanda “dov’è tuo fratello?”, che Dio rivolge a Caino in Gn 4,9, è inquietante, ma non impropria. Il “dove” richiede di collocarsi. Chi ha un volto si situa. Lévinas dice che la parola Io significa eccomi. Eccomi a rispondere di tutto e di tutti, a essere responsabile dell’altro, indipendentemente dal fatto che anche l’altro lo sia nei miei confronti14.

Solo così si realizza la “comunione dei volti”, in cui ciascuno scopre la propria profonda vulnerabilità e si affida. Nella “comunione dei volti” la parola non insiste, non vuole essere irresistibile ad ogni costo per conquistare e vincere. Nella “comunione dei volti” è superata anche  la paura che porta l’uomo a nascondersi: “ho avuto paura… e mi sono nascosto” (Gn 3,9). Nella “comunione dei volti” si esprime l’agape, che non è mossa dal desiderio di possedere, ma di appartenere, e di assumere l’altro nella sua libertà e nel suo peccato.

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