 |
 |
 |
 |
Si
dice comunemente che l’uomo “ha un volto”, ma sarebbe meglio dire
che l’uomo “è un volto”. In effetti, il volto - come del resto il
nome - concerne l’identità della persona: la definisce, la rivela, la
mette in relazione. Cosa saremmo senza un volto? Il mistero stesso di
Dio s’intreccia con quello del suo volto e l’uomo non solo non può
pronunciare il nome santo di Dio1,
ma non può neanche vedere il suo volto (Es 33,20). Il connubio
tra nome e volto manifesta quanto sia significativa una riflessione di
antropologia biblica che si muova da questa prospettiva. Ecco, dunque,
la domanda a fondamento delle nostre considerazioni: che cosa significa essere
un volto? Senza la pretesa dell’esaustività, le poche pagine che
seguono vogliono costituire uno stimolo per la riflessione personale e
comunitaria su un tema di estrema rilevanza.
Il
volto: rivelazione e mistero
Il volto dice anzitutto
rivelazione e mistero, e ciò equivale a dire che svela e nasconde,
mette in relazione e sottrae. A Mosè, che vuole vedere il volto, Dio
risponde: “Tu non puoi vedere il mio volto, perché nessun uomo mi può
vedere e rimanere in vita” (Es 33,20). Non a caso, uno dei
simboli più comuni di Dio è la nube, che rivela e nasconde. Nel libro
dell’Esodo, la nube da una parte manifesta il volto del Dio che si
mette a disposizione degli uomini accompagnandoli nel loro cammino
(13,20-22), dall’altra lo rende inaccessibile, coprendolo con la sua
ombra e impedendo di vederlo faccia a faccia (Es 33,20).
E’ interessante che un ritornello biblico reciti cercate il mio
volto2
quando poi all’uomo non è concesso di vederlo. Un controsenso? No.
Piuttosto un invito a vivere alla presenza di Dio senza aver paura
dell’assenza.
Un midrash3
sulla morte di Mosè racconta che, quando venne l’ora del trapasso,
l’anima del profeta si ribellò, rifiutando di lasciarlo. Mosè
desiderava ardentemente entrare nella terra promessa e, a motivo di ciò,
aveva ingaggiato una lunga ed estenuante lotta con Jhwh, nella speranza
di veder esaudito il suo desiderio, prima della morte. In suo aiuto
vennero il cielo, la terra e le creature celesti. Il Signore però si
mostrò irremovibile e non accolse la preghiera del suo servo; prese
invece la sua anima con un bacio della sua bocca, come è scritto (cfr.
Dt 34,5): e Mosè, il servitore del Signore, morì là, nel paese di
Moab, sulla bocca di Jhwh4.
Questo stupefacente midrash
mostra che il Dio inaccessibile nei suoi misteriosi disegni, il Dio che
tiene lontano il più grande dei profeti dalla terra promessa, è anche
il Dio intimo, che non solo mostra il suo volto, ma dona anche il suo
bacio. Secondo la tradizione ebraica, il bacio, più del rapporto
sessuale, è l’epifania dell’amore, la parola autentica di
comunione, perché la bocca è la sorgente del “soffio divino” (cfr.
Gn 2,7). Mosè, che muore con il bacio di Dio, è metafora della
piena realizzazione della vita, che incontra finalmente il volto, tanto
anelato. La vera terra promessa è il volto di Dio (cfr. Es
19,4).
Ma la vicinanza,
espressa dal bacio, non significa rimozione del mistero.
L’appartenenza rispetta il mistero. “L’assenza del mistero nella
nostra vita moderna è la nostra decadenza e la nostra povertà... I
bambini hanno occhi così aperti e vigili, perché sanno di essere
circondati dal mistero... Noi distruggiamo il mistero perché abbiamo il
presentimento che qui incorreremmo in un limite del nostro essere, perché
vogliamo disporre ed essere signori di tutto, e proprio questo non è
possibile con il mistero. Il mistero ci crea disagio... Vivere senza
mistero significa non saper niente del mistero della nostra stessa vita,
del mistero dell’uomo, del mistero del mondo, significa non dare
importanza all’altro uomo e al mondo, significa restare in superficie.
Significa prendere sul serio il mondo solo quel tanto che può essere
assoggettato al calcolo e sfruttato. Vivere senza mistero significa non
vedere assolutamente i fatti decisivi della vita o addiritttura negarli.
Non vogliamo sapere che le radici dell’albero stanno nell’oscurità
della terra, che tutto quanto vive alla luce proviene dall’oscurità e
dal mistero del grembo materno, che anche tutti i nostri pensieri, la
nostra vita spirituale, viene dal mistero di una oscurità nascosta, così
come la nostra vita e ogni vita”5.
Ho riportato questo
lungo brano di Bonhoeffer, perché mi sembra significativo per ciò che
andiamo dicendo. Nel volto, Dio e l’uomo rivelano il loro mistero di
presenza e inaccessibilità, di appartenenza e libertà6.
Il
volto: alterità e responsabilità
Il volto dice
dunque vicinanza e presenza, ma anche alterità e irriducibilità. E’
stato soprattutto il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas7
che ha insistito sul volto come “alterità”. Lévinas chiama volto
“il modo in cui si presenta l’Altro, che supera l’idea
dell’Altro in me”, per cui “la vera unione, o il vero insieme,
non è un insieme di sintesi, ma un insieme di faccia a faccia”8.
Mi sembra di capire che, per Lévinas, ciò che definisce l’uomo è il
faccia a faccia. Sia perché l’uomo è destinato a trovare il
senso della “sua” vita solo “di fronte” all’altro, sia perché
l’altro, nell’essere di fronte, è veramente un “tu” che
non si può né catturare, né uccidere.
Dire che il volto è
alterità significa, dunque, dire anzitutto che l’uomo percepisce il
suo volto solo guardando chi gli sta di fronte. E’ il volto
dell’altro che rende possibile la soggettività. In effetti, nessuno
di noi è capace di vedere la propria faccia, di fissare i propri occhi.
Noi ci percepiamo attraverso lo sguardo dell’altro.
La psicologia del
profondo ha insistito enormemente sull’importanza delle relazioni
primordiali per il senso di autostima. Adamo si realizza solo quando
incontra qualcuno che gli sta di fronte (Gn 2,18)9. Senza un tu non
esiste un io10.
Nel cap. 32 della
Genesi troviamo un piccolo capolavoro narrativo che fa emergere il
valore del “tu”, e dunque, del “volto” dell’Altro per la
percezione del proprio11. Giacobbe, vuole incontrare, dopo un lungo
tempo di assenza e inimicizia, il volto del fratello, ma prima è
costretto a fissare il volto di Dio. Senza esserne cosciente, per una
notte intera, ingaggia con lui una lotta e, nello scontro, dice il suo
nome. Dire il nome, nel contesto biblico e semitico, significa
raccontare la propria storia, svelare la nudità del proprio volto.
Giacobbe dice, dunque, a Dio la sua vita di inganni e di soprusi12. E’
a questo punto che avviene qualcosa di sconvolgente; Dio gli cambia il
nome, dicendogli: non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele... Finisce
la storia dell’astuto Giacobbe e incomincia quella di Israele (Dio
regna, Dio vince). Un racconto mitico di grande levatura, che concerne
direttamente il tema che stiamo trattando. Giacobbe riconosce il suo
vero volto ed è in grado di fissare quello del fratello solo dopo aver
incrociato lo sguardo di Dio e averlo visto faccia a faccia (Gn 32,31).
Dire che il volto è
alterità significa anche dire che nel volto non tutto è già dato, non
tutto è prevedibile e tanto meno dominabile. La tentazione dell’uomo
è quella di inglobare l’Altro in sé, invece di riconoscere che egli,
in quanto straniero, esiste prima di ogni mia iniziativa e ogni mio
potere. L’affinità di pensieri, di modelli, di comprensione del
mondo, la vicinanza insomma, deve tener conto della distanza. La gioia
dell’incontro viene, allora, preparata da un esercizio di scoperta
faticosa, di avvicinamento laborioso a un volto che primariamente non ci
appartiene, e di cui non possiamo disporre a nostro piacimento.
Ed eccoci finalmente
all’ultima dimensione, strettamente connessa alla precedente: l’alterità
esige “responsabilità”. E’ ancora Lévinas che, in modo profondo
e stimolante, ci aiuta a riflettere. Il volto, dice il filosofo ebreo,
è “autosignificante”, nel senso che non sono io a porre l’Altro,
non sono io a crearlo. Il volto è una sfida al mio potere, al mio
desiderio di possesso e di onnipotenza.
E’ da qui che nasce
l’etica della responsabilità: “A un soggetto rivolto verso se
stesso ... a un soggetto che si definisce per la cura di sé e che,
nella felicità, attua il suo per sé, noi opponiamo il Desiderio
dell’Altro... di un Altro che sono gli Altri, che non sono né il mio
nemico... né il mio complemento...”13. Questo significa che la
soggettività non è propriamente un “vivere per sé”, ma “per
l’altro”. Il volto (l’Altro) mi inquieta, mi mette in discussione,
obbligandomi ad assumere la responsabilità nei suoi confronti. La
responsabilità è costitutiva del volto. Chi volge il suo sguardo
all’altro gli dice nello stesso tempo: mi importa di te, della tua
vita e della tua morte, della tua salvezza e perdizione. La domanda
“dov’è tuo fratello?”, che Dio rivolge a Caino in Gn 4,9, è
inquietante, ma non impropria. Il “dove” richiede di collocarsi. Chi
ha un volto si situa. Lévinas dice che la parola Io significa eccomi.
Eccomi a rispondere di tutto e di tutti, a essere responsabile
dell’altro, indipendentemente dal fatto che anche l’altro lo sia nei
miei confronti14.
Solo così si realizza
la “comunione dei volti”, in cui ciascuno scopre la propria profonda
vulnerabilità e si affida. Nella “comunione dei volti” la parola
non insiste, non vuole essere irresistibile ad ogni costo per
conquistare e vincere. Nella “comunione dei volti” è superata anche
la paura che porta l’uomo a nascondersi: “ho avuto paura… e
mi sono nascosto” (Gn 3,9). Nella “comunione dei volti” si esprime
l’agape, che non è mossa dal desiderio di possedere, ma di
appartenere, e di assumere l’altro nella sua libertà e nel suo
peccato.
 |