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Quando Dante si fa rivolgere da san
Bernardo l’invito “Riguarda omai ne la faccia che a Cristo / più si
somiglia” (Par. XXXII, 85-86), pensa in primo luogo proprio al volto
umano di Maria; pensa che di solito il volto di una madre ricorda nei
tratti e nell’espressione quello di suo figlio. Noi diremmo che il
figlio assomiglia alla madre; in questo caso però dignità e
trascendenza del Figlio sono tali da far sembrare irriguardosa la
formulazione più consueta. Ovviamente Dante non è mosso solo da
considerazioni naturalistiche e affettive, ma anche dalla riflessione
teologica, che ai suoi tempi comincia ad assumere la forma a cui siamo
abituati: Gesù e sua madre come uniche creature esenti dal peccato
originale...
Anche oggi l’idea del volto che
somiglia a Cristo più di ogni altro non ci lascia indifferenti, ma l’eco
privilegiata che suscita nel nostro cuore è, in parte, diversa. Se
guardiamo a Gesù di Nazaret come al prototipo della nuova umanità, sua
madre Maria, donna vera con una vera storia interiore ed esteriore,
donna nuova tra i due Testamenti, coopera all’irruzione del nuovo di
Dio nella storia umana. Vi coopera proprio in quanto esiste, in quanto
è una creatura umana e una madre; vi coopera con la sua autentica,
creaturale fiducia in Dio, non fuori del tempo e dello spazio, non
prefabbricata, non al riparo da dubbi, scoramenti e oscurità, ma
autentica vicenda di fede umana in divenire.
Somigliare a Cristo è l’idea-guida
nella spiritualità cristiana e nell’etica. Una volta si parlava
piuttosto di ‘imitazione’ di Cristo: idea e termine fortunati,
soprattutto in seguito all’opera omonima di Tommaso da Kempis. Oggi
anziché di ‘imitazione’, dal suono più passivo ed estrinseco, si
preferisce parlare, più evangelicamente, di ‘sequela’. Seguire
Gesù, oggi come nei giorni della sua vita terrena, significa farsi suoi
discepoli, mettere tutto il proprio essere al servizio della causa del
Regno, prolungare l’opera di Gesù nella storia.
Modello del discepolato
Forse tutto quanto nei secoli è stato
detto di Maria - in singolare contrasto con la sobrietà degli
evangelisti a suo riguardo - aiuta a capire, più che Maria, coloro che
elaboravano la sua immagine. Ciò vale sia per gli aspetti migliori
della mariologia e del culto mariano sia per quelli meno felici. Aiuta
inoltre a capire il modello di femminilità sottostante. Aiuta a capire
meglio il tipo di Chiesa in cui un certo tipo di speculazione o di
devozione si rendeva possibile e prendeva forma. In questo senso i
cambiamenti che si sono determinati almeno a partire dal Concilio
Vaticano II nel modo di vedere Maria esprimono anche il passaggio da un
modello di Chiesa alquanto statico a un modello - non ancora del tutto
visibile e operante, ma autentico - di Chiesa dinamica, solidale con la
società umana in cui è inserita.
Nell’approccio cattolico, per molto
tempo, nel discorso su Maria risultava predominante il modello dell’ancillarità.
Il termine rimanda immediatamente all’Ecce ancilla Domini..., e, in
seconda istanza, alle parole del Magnificat: Quia respexit humilitatem
ancillae suae. L’una e l’altra frase erano interpretate anche
giustamente, ma restrittivamente e a senso unico, solo come umile
dichiarazione di disponibilità ai voleri di Dio.
Oggi, parlando di Maria, si preferisce
come più autenticamente evangelico e più fecondo, il modello
discepolare: cioè quello che in Maria scorge un modello, anzi un’anticipazione
dei discepoli e delle discepole di Cristo. E’ questa soprattutto la
prospettiva di Luca, che assume il tema del discepolato come una delle
strutture portanti del suo vangelo.
La lettura discepolare è oggi ampiamente
recepita, anzi teologicamente è prevalente, da quando ha avuto la sua
ufficializzazione magisteriale con le due importanti encicliche mariane
di Paolo VI (Marialis cultus, 1974) e di Giovanni Paolo II (Redemptoris
Mater, 1987).
Come sottolinea suor Anne Carr, nota
teologa femminista cattolica americana, le donne credenti oggi stanno
recuperando Maria di Nazaret, dopo un periodo di relativa eclissi,
reazione a certi eccessi del passato; la stanno recuperando come figura;
stanno recuperando Maria di Nazaret nel suo ruolo umano, nel senso di un’autentica
forza religiosa e liberante.1
Un genere inedito di maternità e
filiazione
Nei Vangeli i passi che riguardano Maria
sono pochi, ove si prescinda dai vangeli dell’infanzia, che hanno
origine e intento teologico diversi dal resto della narrazione
evangelica. Oltre che scarsi, sono fin troppo sobri e scarni rispetto a
quanto ci piacerebbe sapere; quasi sempre, risultano anche abbastanza
sconcertanti per il lettore ‘non iniziato’ plasmato da secoli e
secoli di devozione mariana. Infatti Gesù parla poco a sua madre, parla
poco di sua madre e, anche quando lo fa, sembra piuttosto rivolto a
relativizzarne il ruolo di madre, anzi a prendere le distanze da lei, e
talvolta anche in modo sbrigativo, un po’ brusco, che contraddice la
nostra immagine piuttosto oleografica di Gesù o forse la nostra
immagine di ‘figlio modello’.
Inutile porre ai vangeli domande di tipo
puramente biografico o psicologico: esse sono votate all’insuccesso,
forse perché sbagliate in partenza, scorrette nel metodo e nei
presupposti; inoltre, ciò che è più grave, sono feconde di equivoci.
Con tutto ciò, vi è una considerazione
che sempre più spesso si sente avanzare nelle riflessioni moderne, che
merita di essere ricordata, quantunque possa sembrare troppo ‘moderna’
e occidentale, arrischiata e forse semplificatrice.
E’ ormai pacificamente accettata l’idea
che per ogni essere umano di sesso maschile il rapporto con la figura
materna risulta fondamentale e determinante, soprattutto in vista del
rapporto che il figlio, divenuto adulto, stabilirà con le donne, con
ogni donna. Per quel che riguarda il vissuto e l’atteggiamento di
Gesù, uno degli aspetti che risaltano, secondo la testimonianza
molteplice emergente dai Vangeli, è la trasgressiva novità del suo
modo di porsi, così libero e inedito rispetto alle abitudini, allo
stile di comportamento, agli schemi mentali invalsi nel suo tempo e nel
suo ambiente. Forse in nessun altro campo la novità è così evidente
come nei suoi rapporti con le donne. In un contesto culturale e
religioso che può ben dirsi ‘animoso’ (nel senso junghiano) e
sprezzante nei confronti del femminile, più ancora che delle singole
donne, Gesù appare veramente come il modello supremo di uomo integrato
e riconciliato.2
Così assoluta è la sua libertà, così
forte e disturbante, allora e oggi, l’appello profetico contenuto nel
suo agire, che gli stessi evangelisti hanno recepito il nuovo solo fino
a un certo punto; nel restituirci poi quella novità, rivelano un certo
imbarazzo e anche lo sforzo, probabilmente inconsapevole, di sfumare
quella novità, di normalizzarla, anche per non sconcertare troppo i
destinatari.
Così, soprattutto quando nei vangeli si
parla di donne o quando parlano le donne, si devono studiare in
trasparenza anche le lacune e le incertezze del racconto; si deve fare
esegesi del silenzio, e questo ovviamente è sempre rischioso.
Non vogliamo avanzare congetture o
improbabili spunti di impossibile analisi a proposito del tempo
precedente alla vita pubblica e della dimensione intima e privata che i
Vangeli non affrontano; ma come impedirci di pensare che un uomo di
questa straordinaria libertà, un uomo giunto a integrare come pochi
altri il femminile nel proprio modo di essere, dovesse aver avuto con la
propria madre un rapporto inedito per qualità e libertà? E, per
conseguenza, che anche sua madre dovesse essere una donna nient’affatto
comune, almeno per quanto concerne l’apertura al nuovo di Dio?
La nostra cultura occidentale oggi
insiste molto sul distacco dalla madre (in termini psicologici e non
certo affettivi): un figlio che non riesca a realizzare il distacco
dalla madre, è destinato a rimanere per tutta la vita, almeno in certi
ambiti del proprio essere, in uno stato di infantilismo psicologico e
spirituale. Lo stesso vale anche per una figlia; ma il legame di solito
agisce in modo più forte sui figli maschi, come si è già ricordato.
Talvolta questo indispensabile distacco
dalla madre viene inteso dagli studiosi in modo scorretto e ideologico,
quasi come un trionfo del maschile - inteso come età adulta, forza,
iniziativa, logos contro pathos, distanza dagli affetti... - sul
femminile, arbitrariamente ridotto alla maternità, e questa deformata a
sua volta nel ‘mammismo’: dunque attaccamento importuno e limitante,
identificazione esclusiva con il corpo e la natura, emotività,
affettività esclusivista, pathos senza logos…
In realtà il distacco dalla madre,
indispensabile tappa del processo di crescita, implicherebbe qualcosa di
ben diverso: non rottura, ma ricomposizione nel profondo, significa
accogliere nel più profondo di sé ciò che la madre significa, “sviluppando
la continuità e insieme la novità del suo essere figlio/a e persona
unica”,3
e per questa via raggiungendo l’equilibrio affettivo, la capacità di
essere in relazione.
L’ascolto e la risposta a Dio che
chiama
Se si confronta il racconto dell’annuncio
a Maria con quello dell’annuncio a Zaccaria, che si trova nello stesso
capitolo del vangelo di Luca (1,5-25), si resta colpiti dall’evidente
volontà dell’evangelista di stabilire una corrispondenza tra i due
episodi, ma una ‘corrispondenza evolutiva’, cioè sottolineando
costantemente la superiorità di quel che si riferisce a Maria.
Anche nel suo dialogo con l’angelo,
nella sua domanda “Come è possibile questo?” (che, a differenza
della domanda di Zaccaria, non esprime riluttanza a credere, ma bisogno
di capire), e non solo nel suo fiat, Maria ci viene presentata come
paradigma dell’ascolto; e l’ascolto è anche umanissima abitudine a
riflettere. Non sufficiente forse a costituire l’ascolto di fede, ma
necessaria.
L’ascolto è la prima caratteristica
del discepolo di Cristo, e agisce su piani diversi. Ancora qualcuno lo
intende come una realtà passiva, ricevente, mentre è una delle
attività più creative, più trasformative che esistano e, se è vero,
presuppone e genera libertà. Biblicamente parlando, si tratta sempre di
ascolto di Dio, ma la voce di Dio risuona in più modi: attraverso la
coscienza personale in cui parla lo Spirito, attraverso l’intelligenza,
ma anche attraverso l’intuizione (che Hanna Wolff definisce “quella
funzione di coscienza che coglie le possibilità”); attraverso i segni
dei tempi; attraverso le persone che sono accanto a noi, e non
necessariamente attraverso le migliori in termini umani a cui abbiamo
accesso: infatti anche le persone più deboli, più povere in senso
etico e spirituale, meno evolute e consapevoli, possono mediare una
parola di Dio, aprire l’accesso a un ambito particolare delle
intenzioni di Dio.
Letta nella giusta luce, la nostra vita
intera è un tessuto di annunciazioni e ognuno di noi, per quanto
numerose e gravi siano le sue personali debolezze, può ben essere in
certe circostanze l’angelo dell’annunciazione di un altro.
E’ necessaria una fiducia senza riserve
nel mistero di Dio che chiama, per avere il coraggio di lasciare spazio
al nuovo che trasforma profondamente la situazione preesistente. Alle
parole dell’angelo Maria risponde “Eccomi, sono la serva del
Signore...”, e queste parole, come già accennato, sono state per
lungo tempo recepite - pur con tanto amore e venerazione - in un senso
spiccatamente ‘servile’, che è riduttivo e fuori luogo, accentuando
in esse a senso unico l’umiltà e la docilità.
A parte il fatto che la sottomissione a
Dio è assolutamente diversa dalla sottomissione a qualsiasi altra
autorità terrena (è infatti l’unica sottomissione che, quanto più
è profonda e totale, tanto più è liberante e sprigiona autonomia
personale e originalità di risposta), la parola serva richiama qui la
figura del Servo del Signore, nel libro del Secondo Isaia: il misterioso
personaggio che salva il suo popolo attraverso l’accettazione di una
sorte dolorosa. E’ un personaggio sofferente, non si ribella all’ingiusta
sofferenza e alla malvagità umana che lo colpisce; eppure è tutt’altro
che passivo, la sua funzione è regale e mediatrice, il suo carattere è
messianico. A ciò si potrebbe aggiungere che l’iniziale “Eccomi”
della risposta di Maria evoca le grandi chiamate della storia del popolo
di Dio: la prova di Abramo, la vocazione di Samuele...
Da parte sua, quindi, il fatto di
rispondere “Eccomi, sono la serva del Signore” significa collocarsi
consapevolmente in continuità con la storia intera del popolo d’Israele
di cui è parte, e accettare con naturalezza per sé un ruolo unico e
fondamentale all’interno di questa storia. Il fatto di definirsi “serva
del Signore” inoltre anticipa profeticamente uno stile rinnovato di
rapporti all’interno della nuova umanità, fondato sulla centralità
del reciproco servizio.
Il racconto dell’annuncio a Maria nel
vangelo di Luca costituisce anche, secondo un’idea illuminante di L.
Pinkus, un paradigma dell’individuazione-realizzazione.4
La risposta di Maria infatti denota un’autocoscienza
di livello elevato, un’eccezionale disponibilità al cambiamento (che
richiede senso di identità e autonomia), un profondo senso di
creaturalità, una fiducia senza riserve e una consapevole scelta di
affidarsi incondizionatamente a Dio.
Attraverso i secoli Maria è stata
considerata modello privilegiato per le donne e associata a valori quali
l’umiltà, la disponibilità, la verecondia e l’interiorità in
ascolto - di solito troppo sbrigativamente ridotta al ‘silenzio’.
In quest’ultimo caso si tratta, è
chiaro, di uno sviluppo ascetico-mistico, tuttaltro che disinteressato,
dell’affermazione che ricorre due volte nel cap. 2 del vangelo di
Luca, “Maria conservava tutte queste cose meditandole nel suo cuore”(vv.
19,51). “Nel suo cuore”: dunque - si presumeva - in silenzio, e
questo silenzio, che è un dato teologico-spirituale, veniva
indebitamente amplificato, fino a diventare un modus vivendi, e
assolutizzato, fino a costituire quasi la cifra di un’esistenza
intera.
A parte il fatto che il cosiddetto ‘silenzio
di Maria’ nei vangeli è piuttosto il ‘silenzio su Maria’ da parte
degli evangelisti, meditare nel cuore è un’espressione biblica spesso
riferita ai giusti, uomini e donne, a quelli che sono soliti vivere alla
presenza di Dio. Non vuol dire che la persona a cui si riferisce sia
personalmente, caratterialmente taciturna, ma che è abituata a
riflettere. E di solito chi è abituato a riflettere è capace sia di
tacere sia di parlare, secondo quanto le circostanze richiedono, secondo
quanto detta la coscienza illuminata dallo Spirito.
La Visitazione
Secondo Luca, Maria, appena accolto il
mistero delle intenzioni di Dio, si mette in cammino a va a far visita
alla sua parente Elisabetta, anche lei incinta perché “nulla è
impossibile a Dio”. L’evangelista ha detto prima che Elisabetta,
appena compreso il disegno di Dio che la riguarda, rimane nascosta per
cinque mesi; Maria invece si alza in fretta e si mette in cammino.
Nei vangeli in genere e in quello di Luca
in modo speciale, questa fretta è caratteristica dell’agire del
discepolo. Non è solo umana disponibilità e sollecitudine: ha qualcosa
dell’impazienza divina (che può convivere con la pazienza e la
tenerezza di Dio) e dell’urgenza escatologica. Chi ha vissuto con
forza l’incontro con il piano di salvezza di Dio non si chiude subito
dopo in un’estasi solitaria, ma va e annuncia, poiché avverte la
precisa e urgente responsabilità di recare agli altri il dono che ha
ricevuto.
L’interpretazione tradizionale, sempre
volta a leggere la femminilità come servizio e il servizio in termini
prevalentemente materiali e assistenziali, diceva troppo spesso che l’intento
di Maria nell’affrettarsi a far visita a Elisabetta era quello di
prendersi cura della parente anziana e incinta. Senza voler escludere
del tutto questa dimensione del ‘prendersi cura’ - che è pure
essenziale nell’agire del discepolo, uomo o donna che sia, come nell’agire
di Gesù stesso -, riconosciamo che vi è molto di più. Maria va da
Elisabetta soprattutto per condividere con lei l’esperienza
straordinaria del progetto di Dio accolto nella totalità del proprio
essere. L’annuncio si impoverisce quando venga svuotato di questa
dimensione relazionale e solidale.
Tra Fiat e Magnificat
Il vicendevole rendersi omaggio di Maria
ed Elisabetta avvalora il contatto umano e nello stesso tempo è una
celebrazione dialogata e potenziata dell’agire di Dio. L’incontro
delle due madri culmina nel Magnificat.
Qui la creatura che parla si proclama
umile e sottomessa a Dio, il quale “ha guardato l’umiltà della sua
serva” e l’umiltà qui è l’umile condizione, la condizione
creaturale, assai più e assai prima di una ‘virtuosa’ disposizione
dell’animo; ma nello stesso tempo sovverte dalle radici ogni idea
corrente e scontata dell’umiltà. “D’ora in poi tutte le
generazioni mi chiameranno beata; grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”.
Maria assume consapevolmente il suo ruolo nell’agire di Dio, ciò che
non è possibile senza un profondo senso di identità personale, senza
una sana accettazione di sé.
Inoltre proclama qui che Dio riscatta gli
oppressi e capovolge ogni criterio di giudizio terreno, ogni status quo.
Sembra incredibile che tanto spesso il culto mariano sia stato adoperato
nella storia, a fini tradizionalisti e immobilisti. Invece “Maria,
donna profetica e liberatrice” è il titolo che Leonardo Boff dà al
cap.12 del suo studio teologico-cristologico-pneumatologico sulla madre
di Gesù.5
In contrasto con l’immagine tradizionale di Maria che accentuava, l’abbiamo
detto, aspetti quali umiltà, mitezza, rassegnazione, riserbo e
soprattutto silenzio, negli ultimi decenni è stato valorizzato in Maria
con particolare intenzione l’aspetto profetico e sovversivo; e proprio
a partire dal Magnificat.
Il modello di liberazione che si trova
qui espresso da Maria non è di pura rivendicazione o di
contrapposizione violenta: è un modello trasformativo. Le antitesi
salvifiche dell’inno acquistano senso solo in una prospettiva di
trasformazione continua della storia in cui agisce lo Spirito.
Il Magnificat può sembrare a tratti un
canto di trionfo, a tratti quasi minaccioso, ma la sua sostanza profonda
è la logica di un Dio materno, infinitamente solidale con il genere
umano. E’ un canto di gioia e di speranza, carico di forte denuncia
profetica: coscienza critica della storia in prospettiva escatologica.6
Come ogni grande testo di preghiera, come
la vita di ogni vero discepolo, il Magnificat unifica la dimensione
cosiddetta verticale e quella cosiddetta orizzontale. Rapporto con Dio e
apertura al mondo, preghiera e impegno. E’ un inno e un proclama di
solidarietà. Solidarietà in primo luogo con i poveri e gli oppressi,
ma non solo. E’ soprattutto il canto gioioso e riconoscente della
vicinanza, del coinvolgimento di Dio con il genere umano e delinea un
inedito percorso di liberazione per ogni discepola/discepolo di Gesù
proprio in virtù di questo forte senso di identità soggettiva che lo
pervade e che non ha nulla di narcisistico. Il ‘senso di sé’ non è
in conflitto con il ‘senso di Dio’; le due dimensioni si rafforzano
vicendevolmente; così pure si incontrano e si avvalorano, senza
confondersi, la libertà dai condizionamenti della storia e l’impegno
nella storia.
Dice una teologa tedesco-olandese (Catharina
Halkes) che ogni protesta volta alla liberazione è feconda solo in
quanto si riesca a ‘pendolare’ tra Fiat e Magnificat: solo così la
protesta può crescere fino ad acquisire carattere autenticamente
profetico, senza chiudersi in una ideologia.7
L’interpretazione tradizionale del
Magnificat è stata costantemente volta a spiritualizzarlo, ovvero a
ridurlo nei confini di una spiritualità privatistica e intimista, fino
a svuotarlo di tutto il suo contenuto libertario e sovversivo. Sappiamo
ormai che parole quali spirito, spirituale, spiritualità e
spiritualizzare sono così improprie e così fuori della logica redenta,
quando si muovono in senso opposto alla logica dell’incarnazione.
A Cana: uno stimolo salvifico
Nell’episodio delle nozze di Cana,
narrato nel quarto vangelo (Gv 2,1-11), Maria appare come una donna
dotata di profetico senso dell’urgenza e di una penetrazione inedita
del piano di salvezza, in un confronto non privo di qualche elemento di
conflittualità, ma vittorioso, con l’uomo Gesù, il quale in questa
fase sembra ancora trattenuto, all’inizio, in un’idea un po’
astratta e teorica della propria missione.
Dicendo “Non hanno più vino”, è
come se Maria additasse misteriosamente l’insieme dell’esperienza di
fede d’Israele nel Primo Testamento: un’esperienza straordinaria di
comunione collettiva con Dio, che però adesso è esposta al rischio
dell’osservanza formale, dell’esteriorità, della sterilità. “Non
hanno più vino”, considerando la ricchezza dei significati simbolici
che il vino assume nella Scrittura, è come dire “non hanno più vita”;
o anche “non hanno più amore”.
Cana non è tanto un momento della vita
di Maria come madre, quanto piuttosto un momento evolutivo della vita di
Gesù; il racconto dell’evangelista va completamente in questo senso.
Qui Maria influisce su tempi e modi della missione di Gesù e quasi, si
potrebbe dire, sulla sua crescita nella fede, vincendo le resistenze che
sono in lui. Lo fa con tranquilla autorevolezza, senza pregare, senza
insistere, con una fiducia assoluta e, nella sua linearità, quasi
sconcertante. Il suo agire appare nuovo e atipico: non è abituale che
una donna prenda la parola in pubblico, che sostenga il proprio punto di
vista nonostante la disapprovazione maschile (evidente nel “Che cosa
ho da fare con te, o donna?”); ma soprattutto è nuovo perché, con le
parole rivolte ai servi e con l’atteggiamento che adotta nei confronti
di Gesù, assume di fatto una funzione autoritativa, che sembrerebbe
più normale riferire alla figura paterna. Il suo intervento poi
sollecita la manifestazione pubblica della missione profetica e
salvifica di Gesù; e da queste funzioni autoritative nella sfera
sociale e religiosa le donne erano rigorosamente escluse, in Israele
come quasi ovunque. Maria travalica i confini del ruolo femminile
tradizionale.
Anche se il quarto evangelista ci
presenta qui Maria che ‘genera’ il figlio alla vita pubblica, per
Maria la comprensione del destino di Gesù non appare come un dato
acquisito pacificamente una volta per tutte. Per Maria il passaggio
esistenziale da madre a discepola non dev’essere stato né facile né
indolore.
Dare senso alla morte
Anche la presenza silenziosa di Maria
sotto la croce, ricordata dal quarto evangelista (Gv 19,25-27), è una
presenza discepolare: la parentela secondo il discepolato e quella
secondo la carne, talvolta contrapposte nei vangeli, qui si ricompongono
con l’affidamento reciproco di Maria e del discepolo. Ho sempre
trovato molto significativo il verbo adoperato dal quarto evangelista a
proposito di quelli che stavano sotto la croce di Gesù: eistèkeisan,
in latino stabant. L’italiano ‘stavano’ è alquanto incolore e
generico, il latino e il greco lo sono meno, almeno in quanto evocano lo
stare in piedi. Di contro ai modi esagitati di manifestare il dolore e
il lutto che erano diffusi nel mondo antico, e anche nella società
giudaica ai tempi di Gesù, l’uso di questo verbo ci trasmette l’idea
di un’insolita immobilità, dignitosa e piena di attenzione. Anche qui
si può ritrovare la dimensione dell’‘ascolto’.
Attraverso i secoli, la devozione
popolare (e non solo questa, se con ‘popolare’ si deve intendere in
senso stretto la devozione dei semplici) ha esagerato nel caricare i
toni emotivi dell’Addolorata: sappiamo bene che questa immagine
mariana è stata cara alla pietà popolare più di ogni altra, forse
allo stesso modo in cui il Cristo sofferente del venerdi santo è stato
amato più del Cristo glorioso della Pasqua o dell’ascensione o della
Parusìa. Un’umanità precaria e sofferente non poteva non sentire in
questo modo.
L’Addolorata, che ci sembra figura
così tradizionale, sarebbe da ripensare come icona di solidarietà e di
trasformazione. Maria sotto la croce appare profondamente solidale da un
lato con l’opera di salvezza che si sta realizzando nel mistero (e che
è visibile in questo momento solo nella sua carica di scandalo, di
sconfitta, di atrocità); solidale dall’altro con la sofferenza del
mondo.
Il compito che interpella tutti gli
uomini e le donne di oggi, e tanto più se credenti, e tanto più se
credono in Gesù che ha vinto la morte, è anche quello di accompagnare
la morte e darle un senso, anche quando si tratti di una morte ingiusta
o assurda (ciò che non esclude l’impegno a lottare contro la morte
come male e come ingiustizia umana in ogni modo possibile, anzi l’avvalora
e l’ispira): “…l’impegno - che è di ogni persona che aspiri a
un’identità compiuta - di imparare a svolgere una funzione materna di
fronte al morire”.8
Forse un dovere primario dei discepoli del Regno è anche quello di
aiutare il genere umano a riconciliarsi con la realtà della morte e a
caricarla di senso. Senza questo arduo lavoro interiore è impossibile
una comprensione vera e quindi una piena accettazione della vita, la
quale tra l’altro è connotata e avvalorata dalla stessa
provvisorietà.
Il cristianesimo ha ceduto talvolta alla
tentazione del ‘dolorismo’, fino a dar l’impressione di adorare la
croce più del crocifisso risorto, la sofferenza in se stessa, e non
come strumento al servizio della vita: invece l’icona dell’Addolorata,
mentre esprime solidarietà con tutta intera la vicenda di un’umanità
sofferente, significa e anticipa la trasformazione finale della storia e
del cosmo.
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