n. 12
dicembre 2001

 

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Il volto
Vita consacrata: Icona e trasparenza del volto di Cristo

di Dora Castenetto

 

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L’argomento di questa riflessione, suscita immediatamente non pochi interrogativi. E pone in discussione la nostra vita.

E’ possibile essere icona del Volto di Cristo? E’ possibile divenire così simili a Lui da esserne trasparenza, o, il nostro, non è piuttosto un tendere presuntuoso, pur faticoso e perseverante?

Non corriamo il rischio di edulcorare nella nostra vita, nei nostri gesti, nelle nostre azioni l’immagine di Gesù?

Eppure è Lui stesso a rivolgerci un imperativo: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). E ce ne indica la strada: “Chi vuol essere mio discepolo, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24) sapendo che “un discepolo non è più grande del maestro” (Mt 10,24)

Nella scelta radicale dell’Evangelo, si ritrova questa condizione fondamentale dell’essere discepoli del Signore: dentro le mura di un monastero o per le strade del mondo.

E’ come percorrere un itinerario sul cui sfondo sta Gesù Cristo, riconosciuto come la verità, l’assoluto, l’unico da cui prendono senso i giudizi del comportamento, i criteri della vita, gli aspetti dell’essere e dell’agire. Questo riferimento è come una luce, una prospettiva, che tutto comprende e interpreta. E fa dire “Tu sei l’ultima parola, Tu sei la via, la verità, la vita. Tu sei il criterio e il valore della libertà. Semplicemente perché lo dici Tu, perché lo proponi Tu”.

Forse, per essere icona del Volto del Cristo è importante porsi davanti a Lui e lasciare che il Suo sguardo ci penetri dentro e snidi il peccato, l’infedeltà, l’arrogante presunzione che è in noi, per aprirci a spazi e a prospettive di novità e di conversione. Senza paure. Senza sconti. Senza troppo indulgere a facili condiscendenze, alle pretese di un io ripiegato su di sé, o di un cuore “impietrito” nella ricerca di appagamenti a buon prezzo.

L’essenza della vita consacrata sta qui: nell’imparare a poco a poco chi è Dio per la propria vita; e nell’esprimere, nel testimoniare a ogni uomo e a ogni donna che Egli è l’ultima parola, l’unica via di salvezza, l’Oltre che ci supera e ci attira perché l’essere e il realizzarsi stanno in Lui, consistono unicamente nel mettersi in Lui. Con umiltà e fiducia.

Se vi è una logica della consacrazione, che è decisione di seguire il Signore nella totale donazione a Lui nella verginità, nella povertà, nell’obbedienza, non può che essere questa: è la logica della fede, “stoltezza per il mondo” e “sapienza” per chi l’assume: “A Gesù non si arriva infatti che per la via della fede, attraverso un cammino di cui il Vangelo stesso sembra delinearci le tappe” (NMI, 19).

Si tratta allora di ripetere un atto di fede: da continuare nel divenire del tempo, mettendo in conto anche le difficoltà, che sono le difficoltà di tutti e variano a seconda dei luoghi, delle circostanze, delle epoche della storia. Una vita di consacrazione non è vocazione a cercare difese; non è vocazione per una élite, che permette esperienze eccezionali: è vocazione di condivisione, anche delle difficoltà, anche delle tentazioni che sono di tutti.

Scelta di fede, non evidenza chiara. Possibilità di dire di “sì”, come Gesù: “Il Figlio di Dio, Gesù Cristo… non fu ‘si’ o ‘no’, ma in Lui c’è stato il ‘sì’” (2Cor 1,19): un sì che potrà essere ripetuto solo nell’affidamento, dentro il mistero di un’elezione che non avviene se non provocando la fede.

Potranno insorgere sogni, progetti, incoerenze di una storia di peccato, e tuttavia il cammino apre comunque alla speranza, a un nuovo modo di amare.

Questo gli uomini attendono da una vita consacrata.

Essere icona di Gesù diviene allora capacità di rendere visibile l’amore di Dio dentro la propria esperienza umana, dentro una libertà, che si riconsegna senza ritorno all’iniziativa gratuita di un’Alleanza senza pari, totalmente aperti all’incontro con l’Assoluto, che spinge a farsi dono, come Egli è.

Per questo, una vita consacrata non tiene l’amore rinchiuso in se stesso, quasi a farne una vittima dell’egoismo: è una vita che si dona, che fruttifica nel servire morendo: “Se il chicco di grano non muore non porta frutto” (Gv 12,24).

Bisognerà accettare di essere così. Che è un modo di essere come il Figlio di Dio.

Bisognerà accettare che Gesù Cristo sia quello che è e non quello che intendiamo costruire a modo nostro. Bisognerà accettare di essere come Lui e non un’altra cosa. Anche quando la vita, come la Sua, è attraversata dalla croce: non perché la croce abbia un valore in sé, ma perché non c’è amore autentico se non sulla croce, in vista della risurrezione.

Bisognerà tenere lo sguardo fisso su di Lui, carne visibile di Dio, gloria visibile di Dio: “Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora tra noi e noi abbiamo visto la sua gloria” (Gv 1,14).

Guardiamo dunque a Lui per ritrovare la nostra identità nell’identificarci con Lui, lasciandoci ammaestrare ed educare.

“Guardare” e “vedere”, che è insieme un “ascoltare”: in un itinerario che ha tanti spazi e tante tappe. E tende verso un “sapere” che può indefinitamente crescere, perché non è il sapere dell’intelligenza, ma della fede, del cuore, della vita. E’ un sapere che abilita e provoca a metterci radicalmente in discussione, per passare dall’illusione alla Verità, per assumere la decisione di Colui che ci ripete: “Seguimi!” (cfr. Lc 5,23), “prendi il mio giogo dolce e soave” (Mt 11,20), condividi i miei sentimenti (Fil 2,5), vivi come non avendo, perché il “Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20).

Guardare a Gesù è imparare a conoscere i Suoi silenzi e le Sue parole, la Sua obbedienza al Padre, fino alla morte di croce; è lasciare che l’immagine del servo di Jahvè diventi la nostra immagine, e il suo donarsi fino alla fine sia il criterio del nostro amore.

Possiamo allora ripercorrere, sia pure sinteticamente, alcuni tratti della sua esistenza, per coglierne il senso e il valore per una vita di consacrazione. E cercare, nel suo volto, il senso del tacere e del parlare, la ricchezza del non possedere per donare, la gratuità del consegnarsi nell’espropriazione per perdonare e salvare.

 

Silenzio e Parola

Che spazio ha il silenzio nell’Evangelo di Gesù?

E’ un silenzio singolare il suo: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo... si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio…” (Sap 18,14-15).

E poi trent’anni di vita: nell’ordinarietà di un quotidiano senza eventi eclatanti, nella ripetitività di gesti comuni, in compagnia di una donna ebrea, la madre sua, e di un artigiano del legno. Senza apparente straordinarietà, Lui, il Figlio di Dio, chiamato semplicemente il “figlio di Giuseppe, il falegname” (Mt 13,55).

Silenzio di trent’anni ritmati dalle stesse cose, da esperienze comuni, da un’obbedienza senza pretese e senza discussione, se non per dire, ritrovato dai suoi nel tempio con i dottori: “Non sapevate che devo attendere alle cose del Padre mio?” (Lc 2,49).

Silenzio delle lunghe notti di preghiera, trascorse in solitudine per assaporare l’intimità con il Padre.

Silenzio della Passione e della morte in croce. Gesù tace, quando Pilato lo abbandona nelle mani dei principi dei Sacerdoti. Tace nel ricevere la croce. Tace nel riprendere il peso della croce dopo ogni caduta.

“Rimane muto, come l’agnello dinanzi a chi lo tosa” (Is 53,7) quando lo inchiodano alla croce, nella verginità di un soffrire, che è quello dell’abbandono e dell’accettazione, dell’annientamento voluto e abbracciato, della docilità che tutto accetta e sopporta.

Che cosa può dirci questo silenzio di Gesù? Che cosa può rimproverare al chiasso delle nostre parole, alle chiacchiere di una critica corrosiva che pervade il cuore e le nostre comunità?

Quale spazio diamo al silenzio, al linguaggio umano della fede che non sa parlare se non radicandosi nel Tu di Dio?

Quali tempi dedichiamo al silenzio, in cui affondano le parole della preghiera, in cui possiamo acconsentire alla precarietà e alla finitezza della nostra vita e delle nostre azioni?

Quale silenzio avvolge il nostro fare? Non ostentiamo troppo spesso le nostre scelte, le nostre fatiche, in ricerca di gratificazioni e di compensi?

O siamo troppo facili al lamento, alla recriminazione, alla ribellione, appena la croce si fa più pesante, appena la prova attraversa la nostra vita?

Non sono questi i momenti in cui il Signore Gesù ci mostra il suo volto sfigurato, come alla Veronica, alla quale nulla dice, ma “scrive” il suo volto nel lino che lo ha deterso?

Il silenzio di Gesù è ben lontano - lo si capisce bene - da quel modo egoistico o intimistico di chi vuole essere indisturbarto nel proprio monologo interiore, per aprirsi invece alle sollecitazioni della carità. Lo dice chiaramente Isacco di Ninive “Abbi sempre ben chiaro qual è lo scopo del tuo silenzio (hesychia), per dirigere risolutamente allo scopo le opere della tua vita […]. Quando tu vedi la tua intelligenza resa capace di suscitare liberamente pensieri retti, quando vedi che non ti prospetta nessuna forma di violenza …sappi che è un silenzio autentico…” (cfr. Discorso 12)

Siamo donne di silenzio, così? O anche noi abbiamo ucciso il silenzio, come è ucciso nelle nostre città, per le nostre strade, di giorno e di notte? “Forse - qualcuno dice - abbiamo cominciato a odiarlo, perché ci riconduce a noi stessi. E perfino le nostre preghiere sono divenute preghiere da civiltà dei consumi, rumorose, verbali”.

Il silenzio è imparare ad abitare nel Mistero, a cui la libertà in ricerca si dischiude. E’ un modo per recepire una Presenza, un’Alterità, quella di Dio, e lasciarsene attrarre. Come è stato per Maria, in ascolto ai piedi di un Maestro, il quale sconfessa l’affanno del fare: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte buona, che non le sarà tolta!” (Lc 10,41-42).

Il silenzio è ascolto di una Parola, nella quale si abita con fede, imparando, non senza travaglio, il venire alla luce del senso autentico delle cose, il loro nome vero.

Se è così, il silenzio non contraddice la Parola. Ne è come la sorgente nascosta, come la radice.

Gesù, il Verbo fatto carne, non assolutizza il silenzio sulla parola, la contemplazione sull’azione: porta in sé un singolare vissuto di silenzio, che si apre alla manifestazione, alla comunicazione, al messaggio della buona notizia. Per dirci che non si evangelizza se non a partire dall’esperienza del silenzio.

E’ come se ci indicasse la strada per annunciare il Regno di Dio, Lui, il predicatore itinerante, che va in giro ad annunciare il Regno di Dio, che egli stesso realizza nella sua persona. E questo suo annunciare esige di non avere una casa, un recapito fisso: “Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20) non per condannare l’uso delle cose o per assolutizzare l’abbandono di esse, ma perché l’annuncio del Regno può esigere di abbandonare una quantità di cose. Anche le nostre abitudini. Anche le piccole cose a cui ci abbarbichiamo così spesso da non sapercene disfare. Anche di quegli affetti che ci impediscono una sequela a tutta prova.

In questo suo andare, in questo suo proclamare l’assoluto del Regno, la priorità del Regno, egli ci impone di disfarci di una quantità di cose: “Non procuratevi oro né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone…” (Mt 10.9).

E’ questa la carta d’identità della vita apostolica. Ed è un modo di dire, con tutta la persona, che tutto viene lasciato per l’assoluto del Regno. E’ un modo per testimoniare che la salvezza, la felicità, la vita stessa non stanno nelle cose, o in ciò che si possiede, o nei mezzi di cui si dispone; non stanno neppure nella legalità delle pratiche religiose o nel perbenismo dei comportamenti; stanno piuttosto nella capacità di essere liberi da ogni seduzione accecante dell’egoismo e dalla voracità delle cose, nella capacità di dividere, di condividere con il nostro prossimo anche “i pochi pani e pesci” che abbiamo.

La Parola di Gesù propone soluzioni radicali, trasformazioni radicali. Anche della vita consacrata oggi, che deve rispondere alle sfide di un tempo che esalta il potere e la violenza, che conculca i diritti dei poveri e degli emarginati, che esalta la provvisorietà fino a sconfessare la libertà di qualsiasi scelta definitiva.

La ricerca di senso, che tante sorelle e fratelli del nostro tempo attendono anche da una vita consacrata, è la forza costruttiva di una vita che, radicata nella Parola, cioè nel mistero di un Dio fatto parola, mostra l’esperienza lieta di stare dalla parte di Dio.

Questo è ciò che Gesù Cristo insegna. E il suo insegnamento non riguarda soltanto ciò che si ha, ma ciò che si è. Riguarda il cuore, la vita. Riguarda cioè la radice del nostro essere, che è quello di sostituire l’egoismo radicale che è in noi, talora mascherato dalla ossessiva ricerca di realizzazione della propria identità, con l’amore radicale che è in Lui; impegnandoci a vivere come Lui ha vissuto, cioè dando se stessi per gli altri.

Forse occorre qualche sforzo in più per imparare a decifrare il desiderio profondo dell’uomo: che, anche quando chiede di essere saziato nella sua fame o di essere rivestito nella sua nudità o di essere consolato nella solitudine, desidera assai più di ciò di cui ha bisogno. Desidera vedere il Signore: “Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21).

La nostra testimonianza sarebbe inefficace se non fossimo capaci di farlo “vedere”. Ma questo è possibile se, per primi, sappiamo noi contemplare il Suo volto. E appropriarci per primi dell’Evangelo.

Bisogna fare effettivamente dell’Evangelo la regola della vita.

E’ questo “dimorare” nella Parola che provoca il cambiamento della vita.

E’ questa qualità risolutiva dell’amore che va cercata e ricercata.

E’ questo imparare a vivere per gli altri, e non per sé contro gli altri, che consente di capire la qualità della perfezione cristiana, il cui sigillo sta, appunto, nella novità del comandamento dell’amore: “Vi do un comandamento nuovo: amatevi l’un l’altro come io ho amato voi” (Gv 13,34); “Quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).

E’ certo necessario del coraggio. Ma non è possibile essere testimoni di Gesù, o dichiarare la radicalità della scelta evangelica nella consacrazione, senza rifondare l’esistenza sul primato di un comandamento, che non ha confronto con altre proposte di vita e, paradossalmente, conduce a credere che “chi vorrà salvare la propria vita la perderà; chi invece la perde la salverà” (Lc 17.33).

E’ l’invito che ci viene anche dall’Eucaristia: in cui il Signore Gesù ci consegna alle esigenze della carità, rinnovando sull’altare il sacrificio della croce.

Essere trasparenza del suo Volto comporta anche questo. Possibile, non perché ne siamo capaci con le nostre forze, ma perché il suo comandamento, prima che legge, è dono. Che ci modella a sua somiglianza.

Il volto del Povero

“Per voi Egli, ricco qual era, si fece povero, per arricchire voi mediante la sua povertà” (2Cor 8,9)

E’ un ulteriore aspetto di Gesù, che deve e può definire la nostra immagine. Bisognerà dunque fissare lo sguardo su Gesù povero, sui tratti desiderabili della sua povertà.

Gesù è il povero: colui che non vive dell’affermazione di sé per abbattere gli altri, ma si mette al servizio degli altri per arricchirli della sua povertà.

La povertà di Gesù non è povertà sociale, istituzionale: è molto più profonda. E ci interroga perché possiamo realizzarla anche noi nella medesima direzione.

Si è poveri non semplicemente perché si è rinunciato a possedere, non perché si deve dipendere nell’uso dei beni - pur non disconoscendo la pregnanza di questo impegno che i voti ratificano - ma si è poveri nella misura in cui non facciamo della nostra vita il centro, il punto di gravitazione, ma ci lasciamo prendere dalla medesima logica di Gesù. La sua non è una logica meramente orizzontale, di chi si schiera da una parte per elaborare una critica della società: è la logica di chi accetta la povertà davanti a Dio, di chi riconosce che l’assoluto è Dio. E solo in coerenza a questa logica sta “dalla parte dei poveri”, contesta lo scandalo dei poveri, sconfessa la logica di potenza secondo cui un uomo vale per quello che ha o fa, e non per quello che è. Sconfessa questa logica del mondo rovesciandola: “Ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili” (Lc 1,52), dichiarando importanti i piccoli e i deboli “Nessuno di questi piccoli il Padre vuole che si perda” (Mt 18,14).

Ciò che Gesù manifesta è la dignità dell’uomo, l’uomo raccolto comunque dalla tenerezza del Padre. Di quest’uomo, forse immerso nell’anonimato, Gesù esprime la stima; a quest’uomo qualunque, forse senza nome e senza indirizzo, forse senza incarichi interessanti, Gesù si avvicina per testimoniare il modo di leggere l’umanità da parte di Dio, prendendo su di sé ogni sorta di infermità: “Egli ha preso su di sé le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (Mt 8,17).

Questo il suo modo di “farsi povero per arricchire molti”.

E’ così anche per noi? Sappiamo metterci dalla parte dei deboli e degli emarginati?

Il problema degli emarginati è abbastanza vivo sulle nostre labbra, perfino nelle invocazioni che recitiamo durante la Messa. E’ un fatto positivo, certo. Ma questo non basta. L’esempio di Gesù è molto più esigente: egli stesso, rifiutato dal suo popolo, abbandonato e tradito dai suoi, si è posto come il simbolo di tutti gli emarginati, “prendendo su di sé” perfino il nostro peccato.

Da Lui dobbiamo imparare: perché anche noi, quando ci spendiamo per gli emarginati, corriamo il rischio di dare soltanto il superfluo, mentre Egli dà il necessario. E chi dà il necessario è contro ogni logica umana; è uno che ama, ama veramente fino a sacrificarsi, fino a dare tutto.

Il Vangelo non ha mezze misure. Nel volto sfigurato di Gesù possiamo allora ritrovare tanti altri volti, defigurati dalla povertà di qualsiasi forma, morale o fisica. Dinanzi ad essi non basta lasciarci muovere da una compassione emotiva: bisogna lasciarci interpellare “dentro”, nelle pieghe del cuore dove sta ancora prepotentemente annidato il bisogno di sicurezza, di potere, di avere…

Il nostro voto di povertà, che intende configurarci alla povertà di Gesù, interroga seriamente il nostro quotidiano e lo sottopone a una revisione seria, rigorosa, che ci induca a condividere davvero i nostri beni, a farne parte a chi non ne ha, misurando il nostro rapporto con le cose su un imperativo senza sconti: “Non portate né borsa, né bisaccia, né sandali” (Mc 6,8-4); “Non accumulate tesori che la ruggine e la tignola consumano” (Mt 6,19-21); “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto” (Lc 3,11).

L’itinerario è questo, se vogliamo che il nostro volto si confonda con quello del Maestro.

 

Il Volto del Santo

I pochi tratti di Gesù presi in considerazione non possono che rimandarci alla sua santità. Il Santo è Lui. Perché è Lui l’invisibilità di Dio resa visibile. E’ Lui l’autore e il perfezionatore della fede.

Allora, parlare di santità, cercare la santità, se questa “è la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale” (NMI, 30), significa cercare la santità di Gesù. Scelta offerta a tutti: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1Ts 4,3). “Scelta gravida di conseguenze…: per cui sarebbe un controsenso accontentarsi di una vita mediocre, vissuta all’insegna di un’etica minimalistica e di una religiosità superficiale” (NMI, 31).

Ancora una volta il nostro sguardo deve fissarsi su Gesù: e trovare, nella sua santità, il modello, il paradigma della nostra. Superando il rischio di cadere nel generico, o di considerare la santità fatta di gesti eccezionali. Perché la santità di Gesù ci offre gesti quotidiani, “feriali”, sottraendoci alla tentazione di considerare insignificante la normalità. Eppure la santità deve e può essere ritrovata qui: sapendo che la normalità è il luogo dove si trova Dio, dove si sperimenta la familiarità con Gesù. Nell’assenza di ogni clamore. Nella sobrietà dei gesti. Nella coerenza al proprio carisma, qualunque esso sia, in cui è richiesta la totalità del coinvolgimento.

Tale coerenza è la santità realizzata, testimoniata, tradotta nell’obbedienza a una regola che, nella sua forma, si propone come ideale di santità. In questo senso, va continuamente riscoperta l’osservanza della regola come indubbia esperienza di santità. Anche nel mutare dei tempi. Perché esprime un modo geniale e critico, secondo l’intuizione dei Fondatori, di dire la fede, di vivere e proclamare l’amore di Dio. Ben lontana, quindi, da un conformismo ripetitivo, la “regola” ripropone nell’oggi l’imitazione di Gesù, in un cammino di identificazione con Lui, resa possibile dallo Spirito.

Possiamo richiamare brevemente alcuni tratti dell’esistenza di Gesù, che ogni regola propone:

La radicalità dell’adesione totale al Padre, innanzitutto. Fino all’esperienza dolorosa del Getsemani e della croce.

Il Nuovo Testamento abbonda di parole che risuonano sulle labbra di Gesù, a conferma della sua singolare obbedienza al Padre: “Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato” (Gv 4,34); “Io faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31); “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta” (Mt 26,42).

Si colloca qui la logica dell’obbedienza all’interno di una vita di consacrazione. E’ la logica di chi relativizza la propria autonomia in vista del Regno, in vista di un’obbedienza alla volontà di Dio, che conduce a purificare da ogni forma di egocentrismo e rende poveri di spirito, liberi nel distacco, perfino da sé, dalla propria volontà.

La lotta contro il male. E’ un altro aspetto che Gesù insegna, richiamandoci alla vigilanza contro ogni fiacchezza morale e spirituale. Se abbiamo perduto il senso dell’ascesi e della vigilanza, Gesù ci dice: “Vigilate e pregate in ogni momento” (Lc 21,34-36), “Pregate per non entrare in tentazione” (Lc 22,40).

L’esempio di Gesù, nella triplice tentazione del deserto, ci richiama alla fatica del vigilare: efficace difesa contro l’insinuarsi di tendenze corrosive, contro il facile consumismo delle cose e degli affetti, contro la mediocrità dei nostri giorni, delle nostre scelte.

Vigilanza e preghiera. Costituiscono irrinunciabile disciplina per dar forma cristiana alla vita, per edificare la santità.

Di qui, la disponibilità a lasciarsi “premere dalla folla”. Come è stato per Gesù. Che si accorgeva di quanti lo “toccavano”, in cerca di un aiuto. E si accorgeva dei poveri, dei malati, dei bisognosi di ogni tipo, rispondendo alle domande radicali, che indicano la “fame” e la “sete”, e non solo fisica, che è in ogni uomo e in ogni donna.

Lasciarsi premere dalla folla diviene capacità di fare della propria vita un dono: lasciarsi spezzare e donare, come il Pane di vita. E’ questa la sintesi della santità che non si riduce alla somma di frammenti. Ma è come il cantus firmus. “Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il nostro cuore, non come se l’amore umano ne fosse compromesso o indebolito, ma in qualche modo alla maniera di un cantus firmus sul quale le altre voci della vita riecheggiano come un contrappunto…” (Dietrich Bonhoeffer).

Il canto fermo è la disponibilità di Dio sulla quale si colloca la nostra tensione alla santità, con la voce della nostra umiltà, ma anche della nostra gioia, la gioia quotidiana della nostra consacrazione.

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