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L’argomento di questa riflessione,
suscita immediatamente non pochi interrogativi. E pone in discussione la
nostra vita.
E’ possibile essere icona del Volto di
Cristo? E’ possibile divenire così simili a Lui da esserne
trasparenza, o, il nostro, non è piuttosto un tendere presuntuoso, pur
faticoso e perseverante?
Non corriamo il rischio di edulcorare
nella nostra vita, nei nostri gesti, nelle nostre azioni l’immagine di
Gesù?
Eppure è Lui stesso a rivolgerci un
imperativo: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”
(Mt 5,48). E ce ne indica la strada: “Chi vuol essere mio discepolo,
prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24) sapendo che “un discepolo
non è più grande del maestro” (Mt 10,24)
Nella scelta radicale dell’Evangelo, si
ritrova questa condizione fondamentale dell’essere discepoli del
Signore: dentro le mura di un monastero o per le strade del mondo.
E’ come percorrere un itinerario sul
cui sfondo sta Gesù Cristo, riconosciuto come la verità, l’assoluto,
l’unico da cui prendono senso i giudizi del comportamento, i criteri
della vita, gli aspetti dell’essere e dell’agire. Questo riferimento
è come una luce, una prospettiva, che tutto comprende e interpreta. E
fa dire “Tu sei l’ultima parola, Tu sei la via, la verità, la vita.
Tu sei il criterio e il valore della libertà. Semplicemente perché lo
dici Tu, perché lo proponi Tu”.
Forse, per essere icona del Volto del
Cristo è importante porsi davanti a Lui e lasciare che il Suo sguardo
ci penetri dentro e snidi il peccato, l’infedeltà, l’arrogante
presunzione che è in noi, per aprirci a spazi e a prospettive di
novità e di conversione. Senza paure. Senza sconti. Senza troppo
indulgere a facili condiscendenze, alle pretese di un io ripiegato su di
sé, o di un cuore “impietrito” nella ricerca di appagamenti a buon
prezzo.
L’essenza della vita consacrata sta
qui: nell’imparare a poco a poco chi è Dio per la propria vita; e
nell’esprimere, nel testimoniare a ogni uomo e a ogni donna che Egli
è l’ultima parola, l’unica via di salvezza, l’Oltre che ci supera
e ci attira perché l’essere e il realizzarsi stanno in Lui,
consistono unicamente nel mettersi in Lui. Con umiltà e fiducia.
Se vi è una logica della consacrazione,
che è decisione di seguire il Signore nella totale donazione a Lui
nella verginità, nella povertà, nell’obbedienza, non può che essere
questa: è la logica della fede, “stoltezza per il mondo” e “sapienza”
per chi l’assume: “A Gesù non si arriva infatti che per la via
della fede, attraverso un cammino di cui il Vangelo stesso sembra
delinearci le tappe” (NMI, 19).
Si tratta allora di ripetere un atto di
fede: da continuare nel divenire del tempo, mettendo in conto anche le
difficoltà, che sono le difficoltà di tutti e variano a seconda dei
luoghi, delle circostanze, delle epoche della storia. Una vita di
consacrazione non è vocazione a cercare difese; non è vocazione per
una élite, che permette esperienze eccezionali: è vocazione di
condivisione, anche delle difficoltà, anche delle tentazioni che sono
di tutti.
Scelta di fede, non evidenza chiara.
Possibilità di dire di “sì”, come Gesù: “Il Figlio di Dio,
Gesù Cristo… non fu ‘si’ o ‘no’, ma in Lui c’è stato il
‘sì’” (2Cor 1,19): un sì che potrà essere ripetuto solo nell’affidamento,
dentro il mistero di un’elezione che non avviene se non provocando la
fede.
Potranno insorgere sogni, progetti,
incoerenze di una storia di peccato, e tuttavia il cammino apre comunque
alla speranza, a un nuovo modo di amare.
Questo gli uomini attendono da una vita
consacrata.
Essere icona di Gesù diviene allora
capacità di rendere visibile l’amore di Dio dentro la propria
esperienza umana, dentro una libertà, che si riconsegna senza ritorno
all’iniziativa gratuita di un’Alleanza senza pari, totalmente aperti
all’incontro con l’Assoluto, che spinge a farsi dono, come Egli è.
Per questo, una vita consacrata non tiene
l’amore rinchiuso in se stesso, quasi a farne una vittima dell’egoismo:
è una vita che si dona, che fruttifica nel servire morendo: “Se il
chicco di grano non muore non porta frutto” (Gv 12,24).
Bisognerà accettare di essere così. Che
è un modo di essere come il Figlio di Dio.
Bisognerà accettare che Gesù Cristo sia
quello che è e non quello che intendiamo costruire a modo nostro.
Bisognerà accettare di essere come Lui e non un’altra cosa. Anche
quando la vita, come la Sua, è attraversata dalla croce: non perché la
croce abbia un valore in sé, ma perché non c’è amore autentico se
non sulla croce, in vista della risurrezione.
Bisognerà tenere lo sguardo fisso su di
Lui, carne visibile di Dio, gloria visibile di Dio: “Il Verbo si è
fatto carne e ha posto la sua dimora tra noi e noi abbiamo visto la sua
gloria” (Gv 1,14).
Guardiamo dunque a Lui per ritrovare la
nostra identità nell’identificarci con Lui, lasciandoci ammaestrare
ed educare.
“Guardare” e “vedere”, che è
insieme un “ascoltare”: in un itinerario che ha tanti spazi e tante
tappe. E tende verso un “sapere” che può indefinitamente crescere,
perché non è il sapere dell’intelligenza, ma della fede, del cuore,
della vita. E’ un sapere che abilita e provoca a metterci radicalmente
in discussione, per passare dall’illusione alla Verità, per assumere
la decisione di Colui che ci ripete: “Seguimi!” (cfr. Lc 5,23), “prendi
il mio giogo dolce e soave” (Mt 11,20), condividi i miei sentimenti (Fil
2,5), vivi come non avendo, perché il “Figlio dell’Uomo non ha dove
posare il capo” (Mt 8,20).
Guardare a Gesù è imparare a conoscere
i Suoi silenzi e le Sue parole, la Sua obbedienza al Padre, fino alla
morte di croce; è lasciare che l’immagine del servo di Jahvè diventi
la nostra immagine, e il suo donarsi fino alla fine sia il criterio del
nostro amore.
Possiamo allora ripercorrere, sia pure
sinteticamente, alcuni tratti della sua esistenza, per coglierne il
senso e il valore per una vita di consacrazione. E cercare, nel suo
volto, il senso del tacere e del parlare, la ricchezza del non possedere
per donare, la gratuità del consegnarsi nell’espropriazione per
perdonare e salvare.
Silenzio e Parola
Che spazio ha il silenzio nell’Evangelo
di Gesù?
E’ un silenzio singolare il suo: “Mentre
un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del
suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo... si lanciò in mezzo a
quella terra di sterminio…” (Sap 18,14-15).
E poi trent’anni di vita: nell’ordinarietà
di un quotidiano senza eventi eclatanti, nella ripetitività di gesti
comuni, in compagnia di una donna ebrea, la madre sua, e di un artigiano
del legno. Senza apparente straordinarietà, Lui, il Figlio di Dio,
chiamato semplicemente il “figlio di Giuseppe, il falegname” (Mt
13,55).
Silenzio di trent’anni ritmati dalle
stesse cose, da esperienze comuni, da un’obbedienza senza pretese e
senza discussione, se non per dire, ritrovato dai suoi nel tempio con i
dottori: “Non sapevate che devo attendere alle cose del Padre mio?”
(Lc 2,49).
Silenzio delle lunghe notti di preghiera,
trascorse in solitudine per assaporare l’intimità con il Padre.
Silenzio della Passione e della morte in
croce. Gesù tace, quando Pilato lo abbandona nelle mani dei principi
dei Sacerdoti. Tace nel ricevere la croce. Tace nel riprendere il peso
della croce dopo ogni caduta.
“Rimane muto, come l’agnello dinanzi
a chi lo tosa” (Is 53,7) quando lo inchiodano alla croce, nella
verginità di un soffrire, che è quello dell’abbandono e dell’accettazione,
dell’annientamento voluto e abbracciato, della docilità che tutto
accetta e sopporta.
Che cosa può dirci questo silenzio di
Gesù? Che cosa può rimproverare al chiasso delle nostre parole, alle
chiacchiere di una critica corrosiva che pervade il cuore e le nostre
comunità?
Quale spazio diamo al silenzio, al
linguaggio umano della fede che non sa parlare se non radicandosi nel Tu
di Dio?
Quali tempi dedichiamo al silenzio, in
cui affondano le parole della preghiera, in cui possiamo acconsentire
alla precarietà e alla finitezza della nostra vita e delle nostre
azioni?
Quale silenzio avvolge il nostro fare?
Non ostentiamo troppo spesso le nostre scelte, le nostre fatiche, in
ricerca di gratificazioni e di compensi?
O siamo troppo facili al lamento, alla
recriminazione, alla ribellione, appena la croce si fa più pesante,
appena la prova attraversa la nostra vita?
Non sono questi i momenti in cui il
Signore Gesù ci mostra il suo volto sfigurato, come alla Veronica, alla
quale nulla dice, ma “scrive” il suo volto nel lino che lo ha
deterso?
Il silenzio di Gesù è ben lontano - lo
si capisce bene - da quel modo egoistico o intimistico di chi vuole
essere indisturbarto nel proprio monologo interiore, per aprirsi invece
alle sollecitazioni della carità. Lo dice chiaramente Isacco di Ninive
“Abbi sempre ben chiaro qual è lo scopo del tuo silenzio (hesychia),
per dirigere risolutamente allo scopo le opere della tua vita […].
Quando tu vedi la tua intelligenza resa capace di suscitare liberamente
pensieri retti, quando vedi che non ti prospetta nessuna forma di
violenza …sappi che è un silenzio autentico…” (cfr. Discorso 12)
Siamo donne di silenzio, così? O anche
noi abbiamo ucciso il silenzio, come è ucciso nelle nostre città, per
le nostre strade, di giorno e di notte? “Forse - qualcuno dice -
abbiamo cominciato a odiarlo, perché ci riconduce a noi stessi. E
perfino le nostre preghiere sono divenute preghiere da civiltà dei
consumi, rumorose, verbali”.
Il silenzio è imparare ad abitare nel
Mistero, a cui la libertà in ricerca si dischiude. E’ un modo per
recepire una Presenza, un’Alterità, quella di Dio, e lasciarsene
attrarre. Come è stato per Maria, in ascolto ai piedi di un Maestro, il
quale sconfessa l’affanno del fare: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e
ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno.
Maria si è scelta la parte buona, che non le sarà tolta!” (Lc
10,41-42).
Il silenzio è ascolto di una Parola,
nella quale si abita con fede, imparando, non senza travaglio, il venire
alla luce del senso autentico delle cose, il loro nome vero.
Se è così, il silenzio non contraddice
la Parola. Ne è come la sorgente nascosta, come la radice.
Gesù, il Verbo fatto carne, non
assolutizza il silenzio sulla parola, la contemplazione sull’azione:
porta in sé un singolare vissuto di silenzio, che si apre alla
manifestazione, alla comunicazione, al messaggio della buona notizia.
Per dirci che non si evangelizza se non a partire dall’esperienza del
silenzio.
E’ come se ci indicasse la strada per
annunciare il Regno di Dio, Lui, il predicatore itinerante, che va in
giro ad annunciare il Regno di Dio, che egli stesso realizza nella sua
persona. E questo suo annunciare esige di non avere una casa, un
recapito fisso: “Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt
8,20) non per condannare l’uso delle cose o per assolutizzare l’abbandono
di esse, ma perché l’annuncio del Regno può esigere di abbandonare
una quantità di cose. Anche le nostre abitudini. Anche le piccole cose
a cui ci abbarbichiamo così spesso da non sapercene disfare. Anche di
quegli affetti che ci impediscono una sequela a tutta prova.
In questo suo andare, in questo suo
proclamare l’assoluto del Regno, la priorità del Regno, egli ci
impone di disfarci di una quantità di cose: “Non procuratevi oro né
argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da
viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone…” (Mt 10.9).
E’ questa la carta d’identità della
vita apostolica. Ed è un modo di dire, con tutta la persona, che tutto
viene lasciato per l’assoluto del Regno. E’ un modo per testimoniare
che la salvezza, la felicità, la vita stessa non stanno nelle cose, o
in ciò che si possiede, o nei mezzi di cui si dispone; non stanno
neppure nella legalità delle pratiche religiose o nel perbenismo dei
comportamenti; stanno piuttosto nella capacità di essere liberi da ogni
seduzione accecante dell’egoismo e dalla voracità delle cose, nella
capacità di dividere, di condividere con il nostro prossimo anche “i
pochi pani e pesci” che abbiamo.
La Parola di Gesù propone soluzioni
radicali, trasformazioni radicali. Anche della vita consacrata oggi, che
deve rispondere alle sfide di un tempo che esalta il potere e la
violenza, che conculca i diritti dei poveri e degli emarginati, che
esalta la provvisorietà fino a sconfessare la libertà di qualsiasi
scelta definitiva.
La ricerca di senso, che tante sorelle e
fratelli del nostro tempo attendono anche da una vita consacrata, è la
forza costruttiva di una vita che, radicata nella Parola, cioè nel
mistero di un Dio fatto parola, mostra l’esperienza lieta di stare
dalla parte di Dio.
Questo è ciò che Gesù Cristo insegna.
E il suo insegnamento non riguarda soltanto ciò che si ha, ma ciò che
si è. Riguarda il cuore, la vita. Riguarda cioè la radice del nostro
essere, che è quello di sostituire l’egoismo radicale che è in noi,
talora mascherato dalla ossessiva ricerca di realizzazione della propria
identità, con l’amore radicale che è in Lui; impegnandoci a vivere
come Lui ha vissuto, cioè dando se stessi per gli altri.
Forse occorre qualche sforzo in più per
imparare a decifrare il desiderio profondo dell’uomo: che, anche
quando chiede di essere saziato nella sua fame o di essere rivestito
nella sua nudità o di essere consolato nella solitudine, desidera assai
più di ciò di cui ha bisogno. Desidera vedere il Signore: “Vogliamo
vedere Gesù” (Gv 12,21).
La nostra testimonianza sarebbe
inefficace se non fossimo capaci di farlo “vedere”. Ma questo è
possibile se, per primi, sappiamo noi contemplare il Suo volto. E
appropriarci per primi dell’Evangelo.
Bisogna fare effettivamente dell’Evangelo
la regola della vita.
E’ questo “dimorare” nella Parola
che provoca il cambiamento della vita.
E’ questa qualità risolutiva dell’amore
che va cercata e ricercata.
E’ questo imparare a vivere per gli
altri, e non per sé contro gli altri, che consente di capire la
qualità della perfezione cristiana, il cui sigillo sta, appunto, nella
novità del comandamento dell’amore: “Vi do un comandamento nuovo:
amatevi l’un l’altro come io ho amato voi” (Gv 13,34); “Quello
che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete
fatto a me” (Mt 25,40).
E’ certo necessario del coraggio. Ma
non è possibile essere testimoni di Gesù, o dichiarare la radicalità
della scelta evangelica nella consacrazione, senza rifondare l’esistenza
sul primato di un comandamento, che non ha confronto con altre proposte
di vita e, paradossalmente, conduce a credere che “chi vorrà salvare
la propria vita la perderà; chi invece la perde la salverà” (Lc
17.33).
E’ l’invito che ci viene anche dall’Eucaristia:
in cui il Signore Gesù ci consegna alle esigenze della carità,
rinnovando sull’altare il sacrificio della croce.
Essere trasparenza del suo Volto comporta
anche questo. Possibile, non perché ne siamo capaci con le nostre
forze, ma perché il suo comandamento, prima che legge, è dono. Che ci
modella a sua somiglianza.
Il volto del Povero
“Per voi Egli, ricco qual era, si fece
povero, per arricchire voi mediante la sua povertà” (2Cor 8,9)
E’ un ulteriore aspetto di Gesù, che
deve e può definire la nostra immagine. Bisognerà dunque fissare lo
sguardo su Gesù povero, sui tratti desiderabili della sua povertà.
Gesù è il povero: colui che non vive
dell’affermazione di sé per abbattere gli altri, ma si mette al
servizio degli altri per arricchirli della sua povertà.
La povertà di Gesù non è povertà
sociale, istituzionale: è molto più profonda. E ci interroga perché
possiamo realizzarla anche noi nella medesima direzione.
Si è poveri non semplicemente perché si
è rinunciato a possedere, non perché si deve dipendere nell’uso dei
beni - pur non disconoscendo la pregnanza di questo impegno che i voti
ratificano - ma si è poveri nella misura in cui non facciamo della
nostra vita il centro, il punto di gravitazione, ma ci lasciamo prendere
dalla medesima logica di Gesù. La sua non è una logica meramente
orizzontale, di chi si schiera da una parte per elaborare una critica
della società: è la logica di chi accetta la povertà davanti a Dio,
di chi riconosce che l’assoluto è Dio. E solo in coerenza a questa
logica sta “dalla parte dei poveri”, contesta lo scandalo dei
poveri, sconfessa la logica di potenza secondo cui un uomo vale per
quello che ha o fa, e non per quello che è. Sconfessa questa logica del
mondo rovesciandola: “Ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato
gli umili” (Lc 1,52), dichiarando importanti i piccoli e i deboli “Nessuno
di questi piccoli il Padre vuole che si perda” (Mt 18,14).
Ciò che Gesù manifesta è la dignità
dell’uomo, l’uomo raccolto comunque dalla tenerezza del Padre. Di
quest’uomo, forse immerso nell’anonimato, Gesù esprime la stima; a
quest’uomo qualunque, forse senza nome e senza indirizzo, forse senza
incarichi interessanti, Gesù si avvicina per testimoniare il modo di
leggere l’umanità da parte di Dio, prendendo su di sé ogni sorta di
infermità: “Egli ha preso su di sé le nostre infermità e si è
addossato le nostre malattie” (Mt 8,17).
Questo il suo modo di “farsi povero per
arricchire molti”.
E’ così anche per noi? Sappiamo
metterci dalla parte dei deboli e degli emarginati?
Il problema degli emarginati è
abbastanza vivo sulle nostre labbra, perfino nelle invocazioni che
recitiamo durante la Messa. E’ un fatto positivo, certo. Ma questo non
basta. L’esempio di Gesù è molto più esigente: egli stesso,
rifiutato dal suo popolo, abbandonato e tradito dai suoi, si è posto
come il simbolo di tutti gli emarginati, “prendendo su di sé”
perfino il nostro peccato.
Da Lui dobbiamo imparare: perché anche
noi, quando ci spendiamo per gli emarginati, corriamo il rischio di dare
soltanto il superfluo, mentre Egli dà il necessario. E chi dà il
necessario è contro ogni logica umana; è uno che ama, ama veramente
fino a sacrificarsi, fino a dare tutto.
Il Vangelo non ha mezze misure. Nel volto
sfigurato di Gesù possiamo allora ritrovare tanti altri volti,
defigurati dalla povertà di qualsiasi forma, morale o fisica. Dinanzi
ad essi non basta lasciarci muovere da una compassione emotiva: bisogna
lasciarci interpellare “dentro”, nelle pieghe del cuore dove sta
ancora prepotentemente annidato il bisogno di sicurezza, di potere, di
avere…
Il nostro voto di povertà, che intende
configurarci alla povertà di Gesù, interroga seriamente il nostro
quotidiano e lo sottopone a una revisione seria, rigorosa, che ci induca
a condividere davvero i nostri beni, a farne parte a chi non ne ha,
misurando il nostro rapporto con le cose su un imperativo senza sconti:
“Non portate né borsa, né bisaccia, né sandali” (Mc 6,8-4); “Non
accumulate tesori che la ruggine e la tignola consumano” (Mt 6,19-21);
“Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare
faccia altrettanto” (Lc 3,11).
L’itinerario è questo, se vogliamo che
il nostro volto si confonda con quello del Maestro.
Il Volto del Santo
I pochi tratti di Gesù presi in
considerazione non possono che rimandarci alla sua santità. Il Santo è
Lui. Perché è Lui l’invisibilità di Dio resa visibile. E’ Lui l’autore
e il perfezionatore della fede.
Allora, parlare di santità, cercare la
santità, se questa “è la prospettiva in cui deve porsi tutto il
cammino pastorale” (NMI, 30), significa cercare la santità di Gesù.
Scelta offerta a tutti: “Questa è la volontà di Dio, la vostra
santificazione” (1Ts 4,3). “Scelta gravida di conseguenze…: per
cui sarebbe un controsenso accontentarsi di una vita mediocre, vissuta
all’insegna di un’etica minimalistica e di una religiosità
superficiale” (NMI, 31).
Ancora una volta il nostro sguardo deve
fissarsi su Gesù: e trovare, nella sua santità, il modello, il
paradigma della nostra. Superando il rischio di cadere nel generico, o
di considerare la santità fatta di gesti eccezionali. Perché la
santità di Gesù ci offre gesti quotidiani, “feriali”, sottraendoci
alla tentazione di considerare insignificante la normalità. Eppure la
santità deve e può essere ritrovata qui: sapendo che la normalità è
il luogo dove si trova Dio, dove si sperimenta la familiarità con Gesù.
Nell’assenza di ogni clamore. Nella sobrietà dei gesti. Nella
coerenza al proprio carisma, qualunque esso sia, in cui è richiesta la
totalità del coinvolgimento.
Tale coerenza è la santità realizzata,
testimoniata, tradotta nell’obbedienza a una regola che, nella sua
forma, si propone come ideale di santità. In questo senso, va
continuamente riscoperta l’osservanza della regola come indubbia
esperienza di santità. Anche nel mutare dei tempi. Perché esprime un
modo geniale e critico, secondo l’intuizione dei Fondatori, di dire la
fede, di vivere e proclamare l’amore di Dio. Ben lontana, quindi, da
un conformismo ripetitivo, la “regola” ripropone nell’oggi l’imitazione
di Gesù, in un cammino di identificazione con Lui, resa possibile dallo
Spirito.
Possiamo richiamare brevemente alcuni
tratti dell’esistenza di Gesù, che ogni regola propone:
La radicalità dell’adesione totale
al Padre, innanzitutto. Fino all’esperienza dolorosa del Getsemani
e della croce.
Il Nuovo Testamento abbonda di parole che
risuonano sulle labbra di Gesù, a conferma della sua singolare
obbedienza al Padre: “Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha
mandato” (Gv 4,34); “Io faccio quello che il Padre mi ha comandato”
(Gv 14,31); “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta” (Mt 26,42).
Si colloca qui la logica dell’obbedienza
all’interno di una vita di consacrazione. E’ la logica di chi
relativizza la propria autonomia in vista del Regno, in vista di un’obbedienza
alla volontà di Dio, che conduce a purificare da ogni forma di
egocentrismo e rende poveri di spirito, liberi nel distacco, perfino da
sé, dalla propria volontà.
La lotta contro il male. E’ un
altro aspetto che Gesù insegna, richiamandoci alla vigilanza contro
ogni fiacchezza morale e spirituale. Se abbiamo perduto il senso dell’ascesi
e della vigilanza, Gesù ci dice: “Vigilate e pregate in ogni momento”
(Lc 21,34-36), “Pregate per non entrare in tentazione” (Lc 22,40).
L’esempio di Gesù, nella triplice
tentazione del deserto, ci richiama alla fatica del vigilare: efficace
difesa contro l’insinuarsi di tendenze corrosive, contro il facile
consumismo delle cose e degli affetti, contro la mediocrità dei nostri
giorni, delle nostre scelte.
Vigilanza e preghiera.
Costituiscono irrinunciabile disciplina per dar forma cristiana alla
vita, per edificare la santità.
Di qui, la disponibilità a lasciarsi
“premere dalla folla”. Come è stato per Gesù. Che si accorgeva
di quanti lo “toccavano”, in cerca di un aiuto. E si accorgeva dei
poveri, dei malati, dei bisognosi di ogni tipo, rispondendo alle domande
radicali, che indicano la “fame” e la “sete”, e non solo fisica,
che è in ogni uomo e in ogni donna.
Lasciarsi premere dalla folla diviene
capacità di fare della propria vita un dono: lasciarsi spezzare e
donare, come il Pane di vita. E’ questa la sintesi della santità che
non si riduce alla somma di frammenti. Ma è come il cantus firmus. “Dio
e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il nostro cuore, non
come se l’amore umano ne fosse compromesso o indebolito, ma in qualche
modo alla maniera di un cantus firmus sul quale le altre voci della vita
riecheggiano come un contrappunto…” (Dietrich Bonhoeffer).
Il canto fermo è la disponibilità di
Dio sulla quale si colloca la nostra tensione alla santità, con la voce
della nostra umiltà, ma anche della nostra gioia, la gioia quotidiana
della nostra consacrazione.
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