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Quale volto dà a Gesù la letteratura
italiana del Novecento? L’interrogativo è stimolante, la risposta
complessa. Ci troviamo dinanzi a un personaggio nel quale si concentra
il maximum dell’umanità e della divinità. “Un abisso di luce” lo
ha definito Franz Kafka. In questo abisso ogni uomo scorge la parte
migliore di sé, i richiami e le nostalgie più profonde del suo animo,
e anche il desiderio di oltrepassarsi, di raggiungere la sfera del
divino. Per tale motivo i veri scrittori e poeti cioè coloro che hanno
la capacità di affondare lo sguardo nel profondo dell’anima e
carpirne i segreti, si soffermano dinanzi a Cristo, pensosi e smarriti,
perché vedono realizzati in lui i traguardi più ambiti, e anche i più
“folli”.
Chi ha espresso questa concentrazione di
umanità e di divinità in Cristo è Paolo VI. Lo citiamo perché, oltre
ad essere un papa di alta statura, morale e intellettuale, è anche uno
scrittore forbito dallo stile limpido, classico.
In un’allocuzione del 3 febbraio 1965
così presentava Gesù:
“Gesù è al vertice delle aspirazioni
umane,
è il termine delle nostre speranze e delle nostre preghiere,
è il punto focale dei desideri della storia e della civiltà,
è cioè il messia: il centro dell’umanità,
colui che dà un senso agli avvenimenti umani,
colui che dà un valore alle azioni umane,
colui che forma la gioia e la pienezza di tutti i cuori,
il vere uomo,
il tipo di perfezione, di bellezza, di santità,
posto da Dio per impersonare il vero modello,
il vero concetto di uomo,
il fratello di tutti,
l’amico insostituibile,
l’unico degno d’ogni fiducia e d’ogni amore;
è il Cristo - Uomo”.
Il testo di Paolo VI mette in evidenza la
poliedricità della persona di Gesù, cioè di Dio che nel tempo ha
assunto la natura umana. Vediamo ora quali aspetti - quali volti - del
Cristo-Uomo gli scrittori italiani del Novecento hanno posto in rilievo.
Gesù come modello umano
Nel 1934 Adriano Tilgher (1887-1941),
letterato e filosofo, pubblicava un volume Cristo e noi, nel quale
proclamava la morte della “religione che ha per centro l’essere
divino del Cristo”. Che cosa rimane a noi del Cristo? Si chiedeva. La
risposta era perentoria: rimane il ricordo di un maestro di vita,
banditore di un messaggio morale da purificare - ecco il nostro compito
- “da ogni elemento magico, escatologico e soprannaturale”.
Tilgher si muoveva sulla scia di Kant, di
Renan, di Tolstoj e di molti fautori dell’illuminismo, tutti in gara
nell’esaltare Gesù, “ideale di perfezione morale” (Kant), posto
“al grado più alto della grandezza umana” (Renan), ma non Dio.
Luigi Pirandello (1867-1936) ha
visto in Gesù l’incarnazione della compassione eroica. Persuaso che
tutto è illusione e che noi viviamo di illusioni, ha considerato Gesù
un grande benefattore dell’umanità perché ha accettato di morire
crocifisso per dare ad essa l’illusione dell’aldilà. E’ un eroico
atto di carità immolarsi per convincere gli infelici che nella vita
futura avranno quanto sulla terra è stato loro negato. La vita eterna
è , sì, un’illusione - un’illusione tra le tante - ma un’illusione
che ci dà la forza di vivere e di sopportare le disgrazie.
Nel dramma Lazzaro - nel quale Pirandello
espone la sua concezione religiosa - Lucio, al termine degli studi
teologici, abbandona la fede per vivere una vita secondo natura. Nessun
Dio personale, nessuna vita soprannaturale, nessuna redenzione. Quando
la sorella Lia, paralizzata alle gambe, apprende che il cielo è vuoto,
si sente disperata. “Le mie alucce! Le alucce d’angeletta… Dovevo
averle in compenso dei piedi che mi sono mancati per camminare sulla
terra... Addio voli lassù!...”. Dinanzi alla disperazione della
bambina, Lucio comprende la necessità della fede. Riprende la sua
tonaca e ritorna prete “per riaccendere nel buio della morte il divino
lume della fede, che è carità per tutti quelli a cui fu negato ogni
bene nella vita”. Lucio ora comprende il significato della morte di
Gesù: si è immolato per rendere possibile ai disperati l’illusione
di una vita migliore e dar loro la forza di andare avanti. “Ora
intendo e sento veramente la parola di Cristo: Carità!”.
Nel romanzo Getsemani Giorgio Saviane (1916-200
) vede in Gesù colui che spezza le catene dell’egoismo e si assume il
dolore degli uomini ai quali offre il suo perdono; vince in tal modo le
barriere del male e trasforma la sofferenza in fraternità. Dunque, un
Gesù nobile, da amare e imitare perché ci insegna, con le parole e con
la vita, che i1 vero amore è dono di sé agli altri fino alla morte.
Ecco il “vero” Gesù: un’incarnazione di amore. La sua divinità -
come la sua risurrezione - esula da questa rappresentazione.
Su questa posizione - Gesù, ideale di
perfezione morale, modello di bontà, incarnazione della purezza umana,
ma non Dio incarnato - si schierano anche Giuseppe Berto (1914-78)
col romanzo La gloria, Elsa Morante (1918-85) con La storia,
romanzo corale e fluviale di forte struttura.
Cristo? Colui “nel quale ogni uomo
può riscattare se stesso”
La definizione è di P.P. Pasolini
(1922-75). Credeva che la sua vita, dilacerata e drammatica, potesse
trovare nel Cristo un riscatto capace di procurargli un po’ di pace. L’anno
della sua morte così scriveva a p. Nazareno Fabbretti: “Cristo? Come
regista ne sono ancora segnato […]. E’ lui il problema, lui l’uomo.
lui l’unico uomo, il solo scandalo nel quale ogni uomo può riscattare
se stesso. Anche se Cristo fosse ritenuto soltanto uomo”. La pedofilia
lo dominava fino a renderlo schiavo, e sperava di trovare in Cristo una
liberazione, anzi una giustificazione.
Nella sua opera poetica la presenza di
Cristo ha un posto di rilievo, soprattutto nella raccolta L’usignolo
della Chiesa Cattolica.
A Cristo - giovinezza profanata, purezza
misconosciuta, fierezza respinta - egli contrappone la Chiesa e la sua
morale, causa di malessere, e anche di disperazione, perché condanna
come colpa la “diversità”. Nella poesia Il glicine - che ha un tono
funebre - il poeta si sente un “puro di cuore”, martire come Cristo.
E come Cristo vuole esporre la propria carne e il proprio spirito al
disprezzo della gente. In La Crocifissione pone in esergo un testo
paolino: “Ma noi predichiamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei,
stoltezza per i Gentili” (1Cor 1,23). Lui, Pasolini, si sente come
Cristo: scandalo e stoltezza. Lo si rifiuti e lo s’insulti pure. E’
in buona compagnia. Noi staremo offerti sulla croce, / alla gogna.
La “cristologia” pasoliniana è
espressa soprattutto nel film Il Vangelo secondo Matteo. Cristo è
presentato come un ideale compagno di strada: indica preziose direzioni,
suscita energie, rivela l’uomo a se stesso, rifiuta il mondo borghese
e ipocrita. E’ l’antitesi del mondo moderno; essere divino, non Dio.
“Io non credo che Cristo sia figlio di Dio - confessava lui stesso -
perché non sono credente. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè
che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di
là dei comuni termini dell’umanità” (Il Vangelo secondo Matteo,
Milano, Garzanti 1964, 17).
Passione pedofila e attrattiva del
Cristo: Pasolini ha bruciato la sua esistenza dibattendosi tra questi
due richiami, in un alternarsi di opzioni, simile a uno stato di
martirio. E’ stato limpido il suo sguardo quando si è posato sul
Cristo? Lo ha invocato per riscattarsi dalla sua “diversità”, o per
giustificarla?
Senza Gesù in croce “saremmo già
polvere e vermi”
Anche Ignazio Silone (1900-78),
come Pasolini, ha fissato lo sguardo su Gesù in croce, ma con diverso
intendimento: non per giustificare il disordine ma per riscattare le
sofferenze e le ingiustizie della vita. Per lui Gesù è l’espressione
più alta, più pura e più feconda dell’umanità. In lui s’incarnano
i valori che sono alla base della civiltà e che determinano la verità
- cioè l’autenticità e la grandezza - dell’uomo. Gesù non ha
elaborato un sistema filosofico o teologico, neanche ha fondato una
religione; non è venuto a patti col potere, non ha lusingato gli
istinti bassi dell’uomo, non ha esitato a proporre una morale “scandalosa”,
non ha avuto paura di andare contro corrente e di portare lo scompiglio.
Il Gesù di Silone, senza negare le
virtù naturali, ha proposto “alcune apparenti assurdità. Ci ha
detto: amate la povertà, amate gli umiliati e offesi, amate i vostri
nemici, non preoccupatevi del potere, della carriera, degli onori, sono
cose effimere, indegne di anime immortali” (L’avventura di un povero
cristiano, Milano, Mondadori 1968, 244). Il Vangelo è rifiuto dell’ordine
ingiusto, della politica affaristica, del potere concepito come
supremazia e sopraffazione. Pertanto, Gesù è un ribelle e un
rivoluzionario, in nome della dignità della persona e della giustizia
sociale.
E’ ancora in agonia perché in lui è
riflesso l’uomo che soffre, l’uomo calpestato dal potere. Silone non
lo riconosce nei cristi della chiese, “bello e impomatato come un
parrucchiere”; lo riconosce nell’uomo “inchiodato mani e piedi al
legno del supplizio con la tenta coronata di spine, deriso, ingiuriato,
sputacchiato dagli agenti del potere, tradito abbandonato dimenticato
dai suoi discepoli” (Ed egli si nascose, Milano, Mondadori 1965, 22).
Gesù è sulle nostre strade per
condividere le nostre sofferenze e aiutarci ad andare avanti senza
abbandonarci alla disperazione.
Tra gli episodi più significativi e
indimenticabili dell’opera siloniana è quello narrato in Il seme
sotto la neve. Rivestito di stracci, la zappa sulle spalle, Gesù
riprende il lavoro di Maria Catarina, sfinita e con la schiena rotta.
Lei non lo riconosce. “Eh bon’omo, ti sei sbagliato di terra, io non
t’ho mica chiamato”. Lui continua a sarchiare, senza badarle, tanto
da farla fuggire e riparare in casa della suocera (suo marito è in
carcere). “Tu hai fatto il lavoro e va bene” gli dice la vecchia che
è andata a incontrarlo. “Ma mia nuora è una disgraziata, credi a me,
non ha denaro per pagarti”. Denaro? - dice l’uomo sorridendo -
Denaro? Oh, niente denaro”. Saluta e si allontana. Lei capisce. “Rallegrati,
anima mia, perché oggi hai visto il tuo Signore””.
Gesù ci sta accanto, vive e lavora con
noi, ma noi non sappiamo riconoscerlo, sia perché abbiamo di lui una
immagine falsa sia perché non siamo veramente poveri e liberi per
camminargli accanto. Restiamo abbandonati alla disperazione. Ma Gesù
non ci abbandona. E’ sempre sulle nostre strade, impaziente di
comunicarci le sue speranze e la sua forza. Senza di lui “saremmo già
morti, saremmo già polvere e vermi” (Ed egli si nascose, cit. 22).
Alla domanda: Gesù è il Figlio di Dio, morto e risuscitato? Silone
resta perplesso; negli ultimi anni vari elementi lasciano credere che la
sua risposta sia positiva.
Cristo, il “sempre vivente”
Pochi scrittori come Giovanni Papini (1881-1956)
hanno vagabondato sulle strade del sapere alla ricerca della verità.
“Senza questa verità non riesco più a vivere” scriveva a
conclusione di Un uomo finito (1912), opera drammatica e appassionata,
tra le più notevoli dei primi decenni del Novecento. Aveva bussato a
tutte le porte - filosofia, storia, religioni, letteratura - alla
ricerca della verità. Invano. Svaniti i sogni folli - dare la scalata
al cielo per prendere il posto di Dio - aveva avuto l’onestà di
dichiararsi “un uomo finito”. “Tutto è finito, tutto è perduto,
tutto è chiuso. Non c’è più nulla da fare […]. Sono una cosa e
non un uomo. Toccatemi: sono freddo come una pietra, freddo come un
sepolcro. “Qui è sotterrato un uomo che non poté diventare Dio””
(Un uomo finito, Firenze, Vallecchi 1926, 202).
Ebbe il coraggio di riprendere la strada
della ricerca e d’invocare un po’ di certezza da chi potesse
dargliela. “Io non chiedo né pane, né gloria. né compassione[…].
Ma chiedo e domando, umilmente e in ginocchio, con tutta la forza e la
passione dell’anima mia, un po’ di certezza; una sola, una piccola
fede sicura, un atomo di verità” (ivi, 246 s). Incontrò la verità
quando incontrò Cristo - precedentemente rifiutato e bestemmiato.
La Storia di Cristo (1921) narra, anzi
grida, lo stupore di un ritrovamento che restituisce un morto alla vita.
Il messaggio di fondo è il seguente: essendo Cristo la verità e la
salvezza, abbiamo bisogno di lui come di nessun altro. Cristo è il “sempre-vivente”
che non si stanca di agire sugli uomini di ogni tempo, in modo ora
misterioso e paziente, ora violento e abbagliante. Nessun figliol
prodigo sarà abbandonato al suo lavoro di porcaio “sfigurito e
imbruttito da quella famelica schiavitù, appuzzato e contaminato da
quel mestiere abominevole”. Nessun viandante resterà solo, sulla
strada che porta a Emmaus, ammantato di sfiducia e appesantito da “un’aria
luttuosa di fallimento”. Nessun Tommaso, dall’anima spenta e
raggelata, sarà condannato allo squallore di una vita che attende “dalla
materia soltanto certezze e consolazioni materiali”. Dietro ogni
porcaio, ogni sfiduciato, ogni sensualista c’è Cristo, il Vivente,
con la potenza della sua risurrezione. Lo si sappia o meno, noi abbiamo
bisogno soltanto di lui.
“Chi ricerca la bellezza nel mondo
cerca, senza accorgersene, te che sei la bellezza intera e perfetta; chi
persegue nei pensieri la verità, desidera, senza volere, te che sei l’unica
verità degna di essere saputa; e chi si affanna dietro la pace cerca
te, sola pace dove possono riposare i cuori più inquieti. Essi ti
chiamano senza sapere e il loro grido è inesprimibilmente più doloroso
del nostro” (Storia di Cristo, Firenze, Vallecchi 1922, 541).
Cristo, amore divorante
Dopo la conversione al cristianesimo (era
stato agnostico, se non proprie ateo) Clemente Rebora 1885-1957)
ha fatto di Cristo il solo punto di riferimento della sua vita e della
sua poesia. Sul frantumarsi dei secoli e delle speranze terrene, Cristo
è il solo punto fermo nel moto dei tempi, è la fedeltà di Dio fatta
storia, è il costruttore del “Regno dell’Amore” nel quale si
consumano le nozze dell’Agnello con l’umanità nuova. Ha salvato
questa umanità dal nulla e dalla vanità (cfr. la lirica O carro vuoto
sul binario morto),l’ha liberato dalla fatalità ( E senza scampo io
non muterò), le ha dato la forza di dire sì all’Amore intravisto
(Urge la scelta tremenda: / Dire sì, dire no / A qualcosa che so): come
è possibile non darsi a lui?
“Ho trovato Chi prima mi ha amato
E mi ama e mi lava, nel Sangue che è fuoco,
Gesù, l’Ognibene, l’Amore infinito,
l’Amore che dona l’Amore,
l’Amore che vive ben dentro nel cuore (La speranza)...”
La cristologia di Rebora si sviluppa su
due elementi: siamo stati salvati dall’Amore; dobbiamo vivere d’amore
(cfr. soprattutto le liriche Il gran grido e Gesù, folle Amatore).
Artisticamente i versi non sono i migliori, ma il riflesso di un’anima
che brucia d’amore è così vivo da lasciare perplessi. In Notturno si
percepisce la vertigine dell’amore che porta ad assimilarsi all’amato
(La grazia di patir, morire oscuro, / polverizzato nell’amor di
Cristo: / far da concime sotto la sua vigna, / pavimento sul qual si e
scorda, / pedaliera premuta onde profonda / sal la voce dell’organo
nel tempio) e l’impazienza di morire per incontrare l’amato (A non
poter morire intanto io muoio) . Il Cristo, amore appagante di Mauriac e
di Claudel, è diventato per Rebora amore divorante.
Gesù, “Dio vestito di umanità”
Più passa il tempo più l’opera
poetica di padre David Maria Turoldo (1916-92) si afferma come
una presenza letteraria ricca d’ispirazione, di risonanze simboliche,
di bellezza espressiva, di echi umani. Fiorisce sotto i cieli della fede
religiosa, in essi si radica e si espande; è un “infinito dialogo”
con Dio, che talvolta si trasforma in monologo su Dio. Il Dio di Turoldo
è avvolto di silenzio e di mistero, scompiglia ogni progetto,
disorienta. E lo senti incombere muto, / d’un silenzio che ti assorda:
/ frastuono d’acqua / immense (O sensi miei, Milano, Rizzoli 1990,
658).
Quando la poesia di Turoldo da Dio si
sposta sul Cristo si avverte un cambiamento: gli sfondi restano ancora
solcati da bagliori drammatici, ma i toni sono più distesi, le
atmosfere più rasserenanti. Il Dio-silenzio diventa Parola; il
Dio-lontananza è l’Emmanuele, il Dio-con-noi; il Dio-nascosto ti
cammina accanto, attento alle tue lacrime, coinvolto nel tuo destino.
Anche quando il mistero di Dio - sempre sconvolgente e oscuro - continua
a premere sull’uscio, scorgere sulla parete il Crocifisso-risorto,
poterlo chiamare amico e fratello Cristo, saperlo solidale con noi,
tutto ciò ci autorizza a credere che la nostra storia, dopo l’Incarnazione,
si snoda su traiettorie nuove. Cristo ha rigenerato tutto.
Chi è il Cristo della poesia di Turoldo?
In quanto Verbo, è volto nel quale il Padre si contempla, in quanto
uomo perfetto è “tutta la natura sposata a Dio”, l’“Archetipo
di cosa l’uomo è chiamato ad essere”. Dunque è la rivelazione di
Dio e dell’uomo, è la giovinezza, lo splendore, la verità della
creazione. E’ il Verbo lo splendore d’ogni estetica, / mentre il tuo
Spirito impazza nella creazione, / o Padre della Vita (SM, 482). Più ci
allontaniamo da lui più il nostro cuore diventa un giardino / dopo la
tempesta; più le nostre parole si sottraggono alla sua luce più
perdono il candore / di ancelle vestali del Verbo e più noi
assomigliamo a donne consunte / scintillanti di orpelli. Perché il
nostro cuore e le nostre parole riacquistino valore e bellezza, occorre
che ridiventino espressione del “Verbo vivo”, del Cristo
sparpagliato / per tutta la terra, / Dio vestito di umanità (SM p.
517).
L’incarnazione del Verbo porta il poeta
su sponde che lo commuovono e lo esaltano. In Cristo si incontrano cielo
e terra, si celebrano le nozze della divinità con l’umanità, si
eliminano le antitesi, si realizzano i sogni folli. Gesù è il ‘“sacramento
perfetto dell’amore di Dio”. Anch’Egli / Verbo fatto carne, anch’Egli
/ percorso da vene / azzurre. E le stelle / Gli camminano sul capo (SM
p. 9 1 ).
Turoldo non sa, né potrebbe, contemplare
la divinità del Cristo senza contemplarne, nello stesso tempo, l’umanità.
Il Cristo dei pubblicani, / delle osterie / dei postriboli, è ‘Dio
vestito di umanità il cui nome è “colui-che-fiorisce-sotto-il-sole”
(SM, p. 517). Il carpentiere di Nazaret, coinvolto nella condizione
umana, è lo splendore di Dio, il Verbo divino, anima e vita di tutto
ciò che esiste. “Ciò che non possiamo udire con gli orecchi - scrive
Turoldo - e che la nostra bocca non può annunciare; ciò che la nostra
mente non può contenere e lo spirito non può provare; ciò che può
illuminare pienamente la nostra persona e portare a perfezione il nostro
disegno, fare di ciascuno l’immagine splendida e fedele dei
Dio-che-non-ha-nome è la Parola divenuta carne e sangue, cibo
sostanziale per la rivelazione e dono dell’unica vera vita” (Neanche
Dio può stare solo, Piemme, Cas. Monferrato, 199 1, p. 91).
E’ nato in una stalla ma è il Verbo
che illumina il tempo e l’eterno; è vissuto nel nascondimento, in un
paese insignificante, ma è lui il Verbo che tutto comprende; è stato
creduto il figlio di un fabbro, ma è l’irradiazione di gloria divina,
/della divina sostanza l’impronta (ivi, p. 92). Uomo come tutti noi,
ma anche il solo vero uomo. “(...) Di uomini ce n’è uno solo: il
Cristo. Ed è Lui che porta il peso di tutti; e la sua croce è la
bilancia dei nostri tradimenti. Cristo è la parte migliore di ciascuno
di noi, la verità crocifissa, sempre cercata e sempre respinta e uccisa”
(SM p. 354). In lui l’umanità è perfetta, puro riflesso del pensiero
divino; in noi ha subìto una deformazione. Il poeta contempla con
tristezza tale deformazione, che ha un sapore di morte, e accenna a un
“de profundis”. L’anima mia è un uccello ferito / caduto in mezzo
a sterpeti, / e i pensieri infranti sui sassi. / E tu continui a fissare
/ le colpe mie che fanno / di me tutta una piaga!” (SM p. 356).
Lo sguardo di Dio fissa tale piaga con
quella misericordia creatrice che s’incarna nel Cristo, nel quale
tutti diventiamo “splendore del Padre” perché “figli nel Figlio”.
Nel Crocifisso-risorto si inaugura la nuova era del mondo, fiorisce la
vita nuova, la terra è riconsacrata e trasformata in altare, la
speranza illumina la storia. Ispirandosi a Moltmann, Turoldo distingue
tra avvenire e futuro. L’avvenire, questo avvenire - tumultuoso
incalzare di eventi -, “è inevitabilmente un andare verso la
definitiva morte” (SM p. 375); il futuro - un futuro però che è già
presente e opera nella creazione - è “attesa continua del Cristo”
(SM p. 444), la sponda della vita. Nei riguardi del primo egli è
disperato, nei riguardi del secondo - anche se “assolutamente
imprevisto” - ha pieno speranza perché “è la resurrezione,
tradotta nella realtà dell’esistenza personale e nella storia”.
Dunque, Cristo-speranza contro avvenire-disperazione. “Di quà la
disperazione è un dovere, un doloroso otto fraterno di verità’ (SM
p. 375); di là, sotto i cieli della redenzione, la gioia e la fiducia
sono corollari inevitabili.
La prospettiva del “futuro”, cioè
dell’”attesa del Cristo”, trasfigura anche la morte. Negli ultimi
tempi di vita, divorato dal “mostro” (il cancro), Turoldo si è
sentito “prigioniero della Santa Agonia”, come Bernanos, Dietrich
Bonhoeffer, Edith Stein, come il Verbo, fattosi carne: / portava a
compimento il riscatto / della tua unica possibile Immagine / e nel
Vuoto assoluto si inabissava, / lassù (Canti ultimi, Milano, Garzanti
1991, 204).
Inabissandosi nella morte, Cristo l’ha
trasfigurata, tanto che Turoldo ne ha avvertito la nostalgia. La morte?
Questo finir di morire, / la mia aurora stupenda, la mia danza
inimitabile. Per tali prospettive, il canto turoldiano non è mai
funebre: è canto aurorale, canto d’incontro, di nozze. “L’attesa
della morte è l’attesa del giorno delle nozze”.
“Io vorrei morire come l’aurora
disfatta nel sole, come la notte
nell’aurora, come la luce nella notte […].
Sentire così
quanto dev’essere forte
l’abbraccio di Dio che mi ha fatto
per la mia Morte,
per questo spazio ricolmo
solo dal silenzio del suo Verbo
risucchio di tutte le parole” (SM, 142).
Cristo, “astro incarnato nell’umane
tenebre”
Quando, nel 1942 Giuseppe Ungaretti
(1888-1970) dal Brasile ritornò in Italia, aveva l’anima appesantita
dal dolore. Nel 1937 aveva perduto il fratello, e due anni dopo il
figlio Antonello, di nove anni. “Fu la cosa più tremenda della mia
vita […]. Il dolore è […] il libro che ho scritto negli anni
orribili, stretto alla gola […]. Quel dolore non finirà più di
straziarmi”. Si è soli, nudi, impotenti. In Italia si trovò a vivere
nel periodo più cruciale della seconda guerra mondiale. Attorno a lui
tutto era desolazione e morte. Quando ogni speranza sembrava svanire nel
nulla, la percezione di una presenza vivificante permise al Poeta di
compiere un balzo che lo strappò alla disperazione e gli fece
intravedere una possibilità di riscatto. Sia la morte dei familiari sia
la desolazione della guerra furono viste con occhio nuovo, su sfondi che
superano il particolare e il contingente, e si affermano come elementi
superiori di vita. Classica testimonianza di questo balzo liberatore è
la lirica Mio fiume anche tu che è al vertice dell’itinerario
ungarettiano verso il pieno incontro con Cristo.
La prima e la seconda parte della lirica
è un martellante insistere sulla duplice tragedia, privata e
collettiva. Il Poeta la sente sulla propria pelle, realtà malefica che
schiavizza e soffoca gli animi, scatena l’odio e muta le case in tane
riecheggianti singhiozzi e rantoli. Siamo condannati all’Inferno? A
questo punto egli compie un vigoroso balzo nei cieli cristiani. In essi
scorge Cristo che raccoglie nel suo cuore il dolore della terra e lo
trasforma, per la forza dell’amore, in elemento di redenzione. La
passione di Cristo è la passione dell’uomo: passione vivificante e
trasformante. Il Crocifisso è un altare sul quale le devastazioni e le
sofferenze sono lavate nel sangue dell’Agnello di Dio che fa del
proprio cuore la sede appassionata dell’amore non vano.
Sulle strade desolate l’uomo non è
più solo; Cristo si affianca a ogni sofferente per infondergli forza e
speranza; anzi è in ogni sofferente nel quale continua la sua
redenzione; è in agonia fino alla fine dei tempi perché raccoglie il
dolore umano, lo fa suo, lo riscatta. La visione poetica allora si
trasforma in preghiera, e la preghiera si ammanta di speranza
ultraterrena.
“Fa piaga nel tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l’uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell’amore non vano.
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e Fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D’un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri”.
(Vita di un uomo, Milano, Mondadori 1969, 228 ss).
Sugli stessi sfondi si staglia il Cristo
del romanzo Il Natale del 1833 di Mario Pomilio (1921-90).
Protagonista è Alessandro Manzoni negli anni in cui gli morirono la
moglie e, un anno dopo, la figlia. Un tumultuare d’interrogativi
angosciosi prostrarono l’animo dello scrittore. Se Dio c’è, perché
il dolore? Non è bastata la morte di Cristo a redimere l’uomo? Può
la Bontà divina volere - e non solo permettere - il “perpetuo
olocausto dei buoni”? Quando sembra che questi interrogativi si
perdano contro una cortina di buio, un guizzo di luce solca l’orizzonte:
la storia delle vittime è la storia di Dio. Perché?
“Perché ogni qualvolta un innocente è
chiamato a soffrire, egli recita la Passione. Che dico, recita? Egli è
la Passione […], nel senso che è Cristo stesso a crocifiggersi con
lui. Potrà parervi disperante questo Dio disarmato. E invece che cosa c’è
, riflettendoci bene, di più consolante di questa solidarietà non di
forza o d’ingiustizia, ma di compassione e d’amore? E in verità,
semplicemente, amico mio: la croce di Dio ha voluto essere il dolore di
ciascuno; e il dolore di ciascuno è la croce di Dio” (Il Natale del
1883, Milano, Rusconi 1982, 128 s).
La carrellata continua
Se volessimo presentare tutte le immagini
del Cristo offerteci dalla letteratura italiana del Novecento, avremmo
bisogno di molto spazio. Non possiamo però non ricordare, seppure a
volo d’uccello, alcuni nomi.
Gabriele D’Annunzio (1863-1938)
ha visto in Gesù un “nemico” dal quale difendersi per non vedere
insidiata la sua grandezza di “vate”, di “multanime”, di artista
cui tutto è lecito. Natalia Ginzburg (1916-1990), prendendo lo
spunto dalla proposta di togliere dalle aule scolastiche il crocifisso e
dichiarandosi contraria alla proposta, presentava Gesù come “l’immagine
della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza
tra gli uomini, fino allora assente”. Il Crocifisso affratella tutti,
le sue Parole “sono la chiave di tutto. Sono il contrario di tutte le
guerre […]. Sono l’esatto contrario del mondo come oggi siamo e
viviamo”. Toglierlo dalle aule scolastiche sarebbe “una perdita”.
Per tutti (cfr. L’Unità, 25/3/1988). Per Diego Fabbri
(1911-80) Gesù è colui “che alimenta le speranze del mondo”; a
tale conclusione porta il suo Processo a Gesù, opera drammatica
universalmente conosciuta e apprezzata. Nino Salvaneschi
(1887-1968) ha affascinato migliaia di lettori con la sua opera di
narratore e di confidente spirituale. Colpito da cecità totale a soli
35 anni, visse momenti drammatici. Salvato dall’incontro con Cristo,
ha lasciato scritto: “Tutti gli uomini hanno bisogno di un Salvatore
che li salvi dalla disperazione nella quale le innumerevoli disillusioni
e i crudeli dolori della vita minacciano di gettarli. Gesù Cristo è
questo Salvatore” (Saper soffrire, Milano, Dall’Oglio 1941). Gianni
Stuparich (1891-1961) conclude il suo memorabile romanzo
Ritorneranno con l’episodio di una madre che accoglie il figlio,
reduce dalla guerra, con una cicatrice al posto degli occhi.
Abbracciandolo mormora: “Non può essere che nel mondo sia stato vano
tanto dolore”. L’orizzonte del narratore si dilata per accogliere
una visione redentrice: “[…] qualcosa più vasto della terra,
pulsava un cuore che accoglieva a una a una tutte le sofferenze del
mondo. Quel cuore era divino; quel cuore aveva battuto nel petto di una
creatura umana e divina; e quella creatura umana e divina aveva un
volto: gli uomini lo conoscevano ma ancora gli passavano davanti
specchiandovici fuggevolmente o rinnegandolo. No, non poteva accadere
che un giorno, vicino o lontano, non fossero arrivati in Esso. L’orrore,
la superbia umana potevano oscurare, ma non cancellare il volto di
Cristo nel mondo” (Ritorneranno, Milano, Garzanti 1941). Il Cristo di Giovanni
Testori (1923-93) è l’Uomo-Dio che noi cerchiamo con affanno e
con furore perché, pur sapendo che soltanto in lui abbiamo la
redenzione dal nostro abbrutimento e l’approdo al nostro vagabondare,
non ci stanchiamo di offenderlo. Ti ho amato con pietà, / con furia ti
ho adorato. / Ti ho violato, sconciato, bestemmiato. / Tutto puoi dire
di me / tranne che ti ho evitato (Nel tuo sangue, Milano, Rizzoli 1973).
Il tormentato autore di questi versi sa che la ricerca del Redentore è
redenzione. Italo Alighiero Chiusano (1926-95), in una
suggestiva poesia della sua raccolta Preghiere selvatiche dal titolo Aut
Christus, sintetizza la sua concezione cristologica espressa nella sua
opera narrativa:
“Il mio motto è l’“Aut Christus
aut nihil”.
E’ quello il cuore, il Dio figlio di Dio,
quello è il centro, il sole che m’illumina,
la notte che tutto avvolge e rinfresca,
la linfa, il sangue che scorre a dar vita,
senso, sapore allegria
sì, miseriaccia, allegria! -
a un cosmo che senza di lui
sarebbe un incomprensibile ammasso
di meraviglie sospese nel nulla”.
Luigi Santucci (1918 - 99), in
Volete andarvene anche voi?, avvincente e poetica vita di Gesù, mette
in risalto l’attualità del Protagonista. Il suo è “il Cristo che
accetta e riassume in sé le proteste, le sofferenze, le ricerche di
autentica umanità, sia quella dei credenti sia quelle dei non credenti”.
Soprattutto è Colui che ci resta accanto quando tutto svanisce. “Lasciaci
soltanto il tuo nome, Gesù Cristo, da ripeterlo quando tutte queste
altri parole siano tramontate”. Stefano Jacomuzzi (1924-96),
nell’originale romanzo Cominciò in Galilea (che è anche un’intensa
riflessione sul Vangelo), presenta un Cristo dal volto umano, che
conosce l’uomo, lo cerca e lo ama. Essendo il Verbo incarnato percorre
le nostre strade avvolto di mistero. Ciò nulla toglie alla sua
dimensione umana, anzi la rende immensamente più vera e più amabile. Ferruccio
Ulivi (1912), nel tre romanzi Le mura del cielo, Trenta denari, Come
il tragitto di una stella, ci offre l’immagine di un Cristo che
sconvolge le nostre categorie umane. Più che pace offre tormento (ma
tormento vivificante), più che risposte dà inquietudini (inquietudini
che sono nostalgia dell’Assoluto e invito al superamento di se stessi
per entrare nel suo Regno).
Per concludere una citazione
La carrellata potrebbe continuare.
Vogliamo fermare il suo percorso con una citazione tratta da Il quinto
evangelio di Mario Pomilio, uno dei romanzi più intensi e più
convincenti su Gesù. Da leggere e rileggere. L’Autore dice che è una
Preghiera al crocifisso di anonimo fiammingo del XV secolo. Comunque
sia, è la sintesi del suo romanzo.
“Cristo non ha più mani,
ha soltanto le nostre mani
per fare oggi le sue opere.
Cristo non ha più piedi,
ha soltanto i nostri piedi
per andare oggi agli uomini.
Cristo non ha più voce,
ha soltanto la nostra voce
per parlare oggi di sé.
Cristo non ha più Vangeli
che essi leggano ancora.
Ma ciò che facciamo in parole e in opere
è l’evangelio che si sta scrivendo”.
(Il quinto evangelio, Milano, Rusconi 1975, 87)
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