n. 12
dicembre 2001

 

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Volti di Gesù nella letteratura italiana
del novecento
di Ferdinando Castelli

 

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Quale volto dà a Gesù la letteratura italiana del Novecento? L’interrogativo è stimolante, la risposta complessa. Ci troviamo dinanzi a un personaggio nel quale si concentra il maximum dell’umanità e della divinità. “Un abisso di luce” lo ha definito Franz Kafka. In questo abisso ogni uomo scorge la parte migliore di sé, i richiami e le nostalgie più profonde del suo animo, e anche il desiderio di oltrepassarsi, di raggiungere la sfera del divino. Per tale motivo i veri scrittori e poeti cioè coloro che hanno la capacità di affondare lo sguardo nel profondo dell’anima e carpirne i segreti, si soffermano dinanzi a Cristo, pensosi e smarriti, perché vedono realizzati in lui i traguardi più ambiti, e anche i più “folli”.

Chi ha espresso questa concentrazione di umanità e di divinità in Cristo è Paolo VI. Lo citiamo perché, oltre ad essere un papa di alta statura, morale e intellettuale, è anche uno scrittore forbito dallo stile limpido, classico.

In un’allocuzione del 3 febbraio 1965 così presentava Gesù:

“Gesù è al vertice delle aspirazioni umane,
è il termine delle nostre speranze e delle nostre preghiere,
è il punto focale dei desideri della storia e della civiltà,
è cioè il messia: il centro dell’umanità,
colui che dà un senso agli avvenimenti umani,
colui che dà un valore alle azioni umane,
colui che forma la gioia e la pienezza di tutti i cuori,
il vere uomo,
il tipo di perfezione, di bellezza, di santità,
posto da Dio per impersonare il vero modello,
il vero concetto di uomo,
il fratello di tutti,
l’amico insostituibile,
l’unico degno d’ogni fiducia e d’ogni amore;
è il Cristo - Uomo”.

Il testo di Paolo VI mette in evidenza la poliedricità della persona di Gesù, cioè di Dio che nel tempo ha assunto la natura umana. Vediamo ora quali aspetti - quali volti - del Cristo-Uomo gli scrittori italiani del Novecento hanno posto in rilievo.

 

Gesù come modello umano

Nel 1934 Adriano Tilgher (1887-1941), letterato e filosofo, pubblicava un volume Cristo e noi, nel quale proclamava la morte della “religione che ha per centro l’essere divino del Cristo”. Che cosa rimane a noi del Cristo? Si chiedeva. La risposta era perentoria: rimane il ricordo di un maestro di vita, banditore di un messaggio morale da purificare - ecco il nostro compito - “da ogni elemento magico, escatologico e soprannaturale”.

Tilgher si muoveva sulla scia di Kant, di Renan, di Tolstoj e di molti fautori dell’illuminismo, tutti in gara nell’esaltare Gesù, “ideale di perfezione morale” (Kant), posto “al grado più alto della grandezza umana” (Renan), ma non Dio.

Luigi Pirandello (1867-1936) ha visto in Gesù l’incarnazione della compassione eroica. Persuaso che tutto è illusione e che noi viviamo di illusioni, ha considerato Gesù un grande benefattore dell’umanità perché ha accettato di morire crocifisso per dare ad essa l’illusione dell’aldilà. E’ un eroico atto di carità immolarsi per convincere gli infelici che nella vita futura avranno quanto sulla terra è stato loro negato. La vita eterna è , sì, un’illusione - un’illusione tra le tante - ma un’illusione che ci dà la forza di vivere e di sopportare le disgrazie.

Nel dramma Lazzaro - nel quale Pirandello espone la sua concezione religiosa - Lucio, al termine degli studi teologici, abbandona la fede per vivere una vita secondo natura. Nessun Dio personale, nessuna vita soprannaturale, nessuna redenzione. Quando la sorella Lia, paralizzata alle gambe, apprende che il cielo è vuoto, si sente disperata. “Le mie alucce! Le alucce d’angeletta… Dovevo averle in compenso dei piedi che mi sono mancati per camminare sulla terra... Addio voli lassù!...”. Dinanzi alla disperazione della bambina, Lucio comprende la necessità della fede. Riprende la sua tonaca e ritorna prete “per riaccendere nel buio della morte il divino lume della fede, che è carità per tutti quelli a cui fu negato ogni bene nella vita”. Lucio ora comprende il significato della morte di Gesù: si è immolato per rendere possibile ai disperati l’illusione di una vita migliore e dar loro la forza di andare avanti. “Ora intendo e sento veramente la parola di Cristo: Carità!”.

Nel romanzo Getsemani Giorgio Saviane (1916-200 ) vede in Gesù colui che spezza le catene dell’egoismo e si assume il dolore degli uomini ai quali offre il suo perdono; vince in tal modo le barriere del male e trasforma la sofferenza in fraternità. Dunque, un Gesù nobile, da amare e imitare perché ci insegna, con le parole e con la vita, che i1 vero amore è dono di sé agli altri fino alla morte. Ecco il “vero” Gesù: un’incarnazione di amore. La sua divinità - come la sua risurrezione - esula da questa rappresentazione.

Su questa posizione - Gesù, ideale di perfezione morale, modello di bontà, incarnazione della purezza umana, ma non Dio incarnato - si schierano anche Giuseppe Berto (1914-78) col romanzo La gloria, Elsa Morante (1918-85) con La storia, romanzo corale e fluviale di forte struttura.

 

Cristo? Colui “nel quale ogni uomo può riscattare se stesso”

La definizione è di P.P. Pasolini (1922-75). Credeva che la sua vita, dilacerata e drammatica, potesse trovare nel Cristo un riscatto capace di procurargli un po’ di pace. L’anno della sua morte così scriveva a p. Nazareno Fabbretti: “Cristo? Come regista ne sono ancora segnato […]. E’ lui il problema, lui l’uomo. lui l’unico uomo, il solo scandalo nel quale ogni uomo può riscattare se stesso. Anche se Cristo fosse ritenuto soltanto uomo”. La pedofilia lo dominava fino a renderlo schiavo, e sperava di trovare in Cristo una liberazione, anzi una giustificazione.

Nella sua opera poetica la presenza di Cristo ha un posto di rilievo, soprattutto nella raccolta L’usignolo della Chiesa Cattolica.

A Cristo - giovinezza profanata, purezza misconosciuta, fierezza respinta - egli contrappone la Chiesa e la sua morale, causa di malessere, e anche di disperazione, perché condanna come colpa la “diversità”. Nella poesia Il glicine - che ha un tono funebre - il poeta si sente un “puro di cuore”, martire come Cristo. E come Cristo vuole esporre la propria carne e il proprio spirito al disprezzo della gente. In La Crocifissione pone in esergo un testo paolino: “Ma noi predichiamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili” (1Cor 1,23). Lui, Pasolini, si sente come Cristo: scandalo e stoltezza. Lo si rifiuti e lo s’insulti pure. E’ in buona compagnia. Noi staremo offerti sulla croce, / alla gogna.

La “cristologia” pasoliniana è espressa soprattutto nel film Il Vangelo secondo Matteo. Cristo è presentato come un ideale compagno di strada: indica preziose direzioni, suscita energie, rivela l’uomo a se stesso, rifiuta il mondo borghese e ipocrita. E’ l’antitesi del mondo moderno; essere divino, non Dio. “Io non credo che Cristo sia figlio di Dio - confessava lui stesso - perché non sono credente. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità” (Il Vangelo secondo Matteo, Milano, Garzanti 1964, 17).

Passione pedofila e attrattiva del Cristo: Pasolini ha bruciato la sua esistenza dibattendosi tra questi due richiami, in un alternarsi di opzioni, simile a uno stato di martirio. E’ stato limpido il suo sguardo quando si è posato sul Cristo? Lo ha invocato per riscattarsi dalla sua “diversità”, o per giustificarla?

 

Senza Gesù in croce “saremmo già polvere e vermi”

Anche Ignazio Silone (1900-78), come Pasolini, ha fissato lo sguardo su Gesù in croce, ma con diverso intendimento: non per giustificare il disordine ma per riscattare le sofferenze e le ingiustizie della vita. Per lui Gesù è l’espressione più alta, più pura e più feconda dell’umanità. In lui s’incarnano i valori che sono alla base della civiltà e che determinano la verità - cioè l’autenticità e la grandezza - dell’uomo. Gesù non ha elaborato un sistema filosofico o teologico, neanche ha fondato una religione; non è venuto a patti col potere, non ha lusingato gli istinti bassi dell’uomo, non ha esitato a proporre una morale “scandalosa”, non ha avuto paura di andare contro corrente e di portare lo scompiglio.

Il Gesù di Silone, senza negare le virtù naturali, ha proposto “alcune apparenti assurdità. Ci ha detto: amate la povertà, amate gli umiliati e offesi, amate i vostri nemici, non preoccupatevi del potere, della carriera, degli onori, sono cose effimere, indegne di anime immortali” (L’avventura di un povero cristiano, Milano, Mondadori 1968, 244). Il Vangelo è rifiuto dell’ordine ingiusto, della politica affaristica, del potere concepito come supremazia e sopraffazione. Pertanto, Gesù è un ribelle e un rivoluzionario, in nome della dignità della persona e della giustizia sociale.

E’ ancora in agonia perché in lui è riflesso l’uomo che soffre, l’uomo calpestato dal potere. Silone non lo riconosce nei cristi della chiese, “bello e impomatato come un parrucchiere”; lo riconosce nell’uomo “inchiodato mani e piedi al legno del supplizio con la tenta coronata di spine, deriso, ingiuriato, sputacchiato dagli agenti del potere, tradito abbandonato dimenticato dai suoi discepoli” (Ed egli si nascose, Milano, Mondadori 1965, 22).

Gesù è sulle nostre strade per condividere le nostre sofferenze e aiutarci ad andare avanti senza abbandonarci alla disperazione.

Tra gli episodi più significativi e indimenticabili dell’opera siloniana è quello narrato in Il seme sotto la neve. Rivestito di stracci, la zappa sulle spalle, Gesù riprende il lavoro di Maria Catarina, sfinita e con la schiena rotta. Lei non lo riconosce. “Eh bon’omo, ti sei sbagliato di terra, io non t’ho mica chiamato”. Lui continua a sarchiare, senza badarle, tanto da farla fuggire e riparare in casa della suocera (suo marito è in carcere). “Tu hai fatto il lavoro e va bene” gli dice la vecchia che è andata a incontrarlo. “Ma mia nuora è una disgraziata, credi a me, non ha denaro per pagarti”. Denaro? - dice l’uomo sorridendo - Denaro? Oh, niente denaro”. Saluta e si allontana. Lei capisce. “Rallegrati, anima mia, perché oggi hai visto il tuo Signore””.

Gesù ci sta accanto, vive e lavora con noi, ma noi non sappiamo riconoscerlo, sia perché abbiamo di lui una immagine falsa sia perché non siamo veramente poveri e liberi per camminargli accanto. Restiamo abbandonati alla disperazione. Ma Gesù non ci abbandona. E’ sempre sulle nostre strade, impaziente di comunicarci le sue speranze e la sua forza. Senza di lui “saremmo già morti, saremmo già polvere e vermi” (Ed egli si nascose, cit. 22). Alla domanda: Gesù è il Figlio di Dio, morto e risuscitato? Silone resta perplesso; negli ultimi anni vari elementi lasciano credere che la sua risposta sia positiva.

Cristo, il “sempre vivente”

Pochi scrittori come Giovanni Papini (1881-1956) hanno vagabondato sulle strade del sapere alla ricerca della verità. “Senza questa verità non riesco più a vivere” scriveva a conclusione di Un uomo finito (1912), opera drammatica e appassionata, tra le più notevoli dei primi decenni del Novecento. Aveva bussato a tutte le porte - filosofia, storia, religioni, letteratura - alla ricerca della verità. Invano. Svaniti i sogni folli - dare la scalata al cielo per prendere il posto di Dio - aveva avuto l’onestà di dichiararsi “un uomo finito”. “Tutto è finito, tutto è perduto, tutto è chiuso. Non c’è più nulla da fare […]. Sono una cosa e non un uomo. Toccatemi: sono freddo come una pietra, freddo come un sepolcro. “Qui è sotterrato un uomo che non poté diventare Dio”” (Un uomo finito, Firenze, Vallecchi 1926, 202).

Ebbe il coraggio di riprendere la strada della ricerca e d’invocare un po’ di certezza da chi potesse dargliela. “Io non chiedo né pane, né gloria. né compassione[…]. Ma chiedo e domando, umilmente e in ginocchio, con tutta la forza e la passione dell’anima mia, un po’ di certezza; una sola, una piccola fede sicura, un atomo di verità” (ivi, 246 s). Incontrò la verità quando incontrò Cristo - precedentemente rifiutato e bestemmiato.

La Storia di Cristo (1921) narra, anzi grida, lo stupore di un ritrovamento che restituisce un morto alla vita. Il messaggio di fondo è il seguente: essendo Cristo la verità e la salvezza, abbiamo bisogno di lui come di nessun altro. Cristo è il “sempre-vivente” che non si stanca di agire sugli uomini di ogni tempo, in modo ora misterioso e paziente, ora violento e abbagliante. Nessun figliol prodigo sarà abbandonato al suo lavoro di porcaio “sfigurito e imbruttito da quella famelica schiavitù, appuzzato e contaminato da quel mestiere abominevole”. Nessun viandante resterà solo, sulla strada che porta a Emmaus, ammantato di sfiducia e appesantito da “un’aria luttuosa di fallimento”. Nessun Tommaso, dall’anima spenta e raggelata, sarà condannato allo squallore di una vita che attende “dalla materia soltanto certezze e consolazioni materiali”. Dietro ogni porcaio, ogni sfiduciato, ogni sensualista c’è Cristo, il Vivente, con la potenza della sua risurrezione. Lo si sappia o meno, noi abbiamo bisogno soltanto di lui.

“Chi ricerca la bellezza nel mondo cerca, senza accorgersene, te che sei la bellezza intera e perfetta; chi persegue nei pensieri la verità, desidera, senza volere, te che sei l’unica verità degna di essere saputa; e chi si affanna dietro la pace cerca te, sola pace dove possono riposare i cuori più inquieti. Essi ti chiamano senza sapere e il loro grido è inesprimibilmente più doloroso del nostro” (Storia di Cristo, Firenze, Vallecchi 1922, 541).

 

Cristo, amore divorante

Dopo la conversione al cristianesimo (era stato agnostico, se non proprie ateo) Clemente Rebora 1885-1957) ha fatto di Cristo il solo punto di riferimento della sua vita e della sua poesia. Sul frantumarsi dei secoli e delle speranze terrene, Cristo è il solo punto fermo nel moto dei tempi, è la fedeltà di Dio fatta storia, è il costruttore del “Regno dell’Amore” nel quale si consumano le nozze dell’Agnello con l’umanità nuova. Ha salvato questa umanità dal nulla e dalla vanità (cfr. la lirica O carro vuoto sul binario morto),l’ha liberato dalla fatalità ( E senza scampo io non muterò), le ha dato la forza di dire sì all’Amore intravisto (Urge la scelta tremenda: / Dire sì, dire no / A qualcosa che so): come è possibile non darsi a lui?

“Ho trovato Chi prima mi ha amato
E mi ama e mi lava, nel Sangue che è fuoco,
Gesù, l’Ognibene, l’Amore infinito,
l’Amore che dona l’Amore,
l’Amore che vive ben dentro nel cuore (La speranza)...”

La cristologia di Rebora si sviluppa su due elementi: siamo stati salvati dall’Amore; dobbiamo vivere d’amore (cfr. soprattutto le liriche Il gran grido e Gesù, folle Amatore). Artisticamente i versi non sono i migliori, ma il riflesso di un’anima che brucia d’amore è così vivo da lasciare perplessi. In Notturno si percepisce la vertigine dell’amore che porta ad assimilarsi all’amato (La grazia di patir, morire oscuro, / polverizzato nell’amor di Cristo: / far da concime sotto la sua vigna, / pavimento sul qual si e scorda, / pedaliera premuta onde profonda / sal la voce dell’organo nel tempio) e l’impazienza di morire per incontrare l’amato (A non poter morire intanto io muoio) . Il Cristo, amore appagante di Mauriac e di Claudel, è diventato per Rebora amore divorante.

 

Gesù, “Dio vestito di umanità”

Più passa il tempo più l’opera poetica di padre David Maria Turoldo (1916-92) si afferma come una presenza letteraria ricca d’ispirazione, di risonanze simboliche, di bellezza espressiva, di echi umani. Fiorisce sotto i cieli della fede religiosa, in essi si radica e si espande; è un “infinito dialogo” con Dio, che talvolta si trasforma in monologo su Dio. Il Dio di Turoldo è avvolto di silenzio e di mistero, scompiglia ogni progetto, disorienta. E lo senti incombere muto, / d’un silenzio che ti assorda: / frastuono d’acqua / immense (O sensi miei, Milano, Rizzoli 1990, 658).

Quando la poesia di Turoldo da Dio si sposta sul Cristo si avverte un cambiamento: gli sfondi restano ancora solcati da bagliori drammatici, ma i toni sono più distesi, le atmosfere più rasserenanti. Il Dio-silenzio diventa Parola; il Dio-lontananza è l’Emmanuele, il Dio-con-noi; il Dio-nascosto ti cammina accanto, attento alle tue lacrime, coinvolto nel tuo destino. Anche quando il mistero di Dio - sempre sconvolgente e oscuro - continua a premere sull’uscio, scorgere sulla parete il Crocifisso-risorto, poterlo chiamare amico e fratello Cristo, saperlo solidale con noi, tutto ciò ci autorizza a credere che la nostra storia, dopo l’Incarnazione, si snoda su traiettorie nuove. Cristo ha rigenerato tutto.

Chi è il Cristo della poesia di Turoldo? In quanto Verbo, è volto nel quale il Padre si contempla, in quanto uomo perfetto è “tutta la natura sposata a Dio”, l’“Archetipo di cosa l’uomo è chiamato ad essere”. Dunque è la rivelazione di Dio e dell’uomo, è la giovinezza, lo splendore, la verità della creazione. E’ il Verbo lo splendore d’ogni estetica, / mentre il tuo Spirito impazza nella creazione, / o Padre della Vita (SM, 482). Più ci allontaniamo da lui più il nostro cuore diventa un giardino / dopo la tempesta; più le nostre parole si sottraggono alla sua luce più perdono il candore / di ancelle vestali del Verbo e più noi assomigliamo a donne consunte / scintillanti di orpelli. Perché il nostro cuore e le nostre parole riacquistino valore e bellezza, occorre che ridiventino espressione del “Verbo vivo”, del Cristo sparpagliato / per tutta la terra, / Dio vestito di umanità (SM p. 517).

L’incarnazione del Verbo porta il poeta su sponde che lo commuovono e lo esaltano. In Cristo si incontrano cielo e terra, si celebrano le nozze della divinità con l’umanità, si eliminano le antitesi, si realizzano i sogni folli. Gesù è il ‘“sacramento perfetto dell’amore di Dio”. Anch’Egli / Verbo fatto carne, anch’Egli / percorso da vene / azzurre. E le stelle / Gli camminano sul capo (SM p. 9 1 ).

Turoldo non sa, né potrebbe, contemplare la divinità del Cristo senza contemplarne, nello stesso tempo, l’umanità. Il Cristo dei pubblicani, / delle osterie / dei postriboli, è ‘Dio vestito di umanità il cui nome è “colui-che-fiorisce-sotto-il-sole” (SM, p. 517). Il carpentiere di Nazaret, coinvolto nella condizione umana, è lo splendore di Dio, il Verbo divino, anima e vita di tutto ciò che esiste. “Ciò che non possiamo udire con gli orecchi - scrive Turoldo - e che la nostra bocca non può annunciare; ciò che la nostra mente non può contenere e lo spirito non può provare; ciò che può illuminare pienamente la nostra persona e portare a perfezione il nostro disegno, fare di ciascuno l’immagine splendida e fedele dei Dio-che-non-ha-nome è la Parola divenuta carne e sangue, cibo sostanziale per la rivelazione e dono dell’unica vera vita” (Neanche Dio può stare solo, Piemme, Cas. Monferrato, 199 1, p. 91).

E’ nato in una stalla ma è il Verbo che illumina il tempo e l’eterno; è vissuto nel nascondimento, in un paese insignificante, ma è lui il Verbo che tutto comprende; è stato creduto il figlio di un fabbro, ma è l’irradiazione di gloria divina, /della divina sostanza l’impronta (ivi, p. 92). Uomo come tutti noi, ma anche il solo vero uomo. “(...) Di uomini ce n’è uno solo: il Cristo. Ed è Lui che porta il peso di tutti; e la sua croce è la bilancia dei nostri tradimenti. Cristo è la parte migliore di ciascuno di noi, la verità crocifissa, sempre cercata e sempre respinta e uccisa” (SM p. 354). In lui l’umanità è perfetta, puro riflesso del pensiero divino; in noi ha subìto una deformazione. Il poeta contempla con tristezza tale deformazione, che ha un sapore di morte, e accenna a un “de profundis”. L’anima mia è un uccello ferito / caduto in mezzo a sterpeti, / e i pensieri infranti sui sassi. / E tu continui a fissare / le colpe mie che fanno / di me tutta una piaga!” (SM p. 356).

Lo sguardo di Dio fissa tale piaga con quella misericordia creatrice che s’incarna nel Cristo, nel quale tutti diventiamo “splendore del Padre” perché “figli nel Figlio”. Nel Crocifisso-risorto si inaugura la nuova era del mondo, fiorisce la vita nuova, la terra è riconsacrata e trasformata in altare, la speranza illumina la storia. Ispirandosi a Moltmann, Turoldo distingue tra avvenire e futuro. L’avvenire, questo avvenire - tumultuoso incalzare di eventi -, “è inevitabilmente un andare verso la definitiva morte” (SM p. 375); il futuro - un futuro però che è già presente e opera nella creazione - è “attesa continua del Cristo” (SM p. 444), la sponda della vita. Nei riguardi del primo egli è disperato, nei riguardi del secondo - anche se “assolutamente imprevisto” - ha pieno speranza perché “è la resurrezione, tradotta nella realtà dell’esistenza personale e nella storia”. Dunque, Cristo-speranza contro avvenire-disperazione. “Di quà la disperazione è un dovere, un doloroso otto fraterno di verità’ (SM p. 375); di là, sotto i cieli della redenzione, la gioia e la fiducia sono corollari inevitabili.

La prospettiva del “futuro”, cioè dell’”attesa del Cristo”, trasfigura anche la morte. Negli ultimi tempi di vita, divorato dal “mostro” (il cancro), Turoldo si è sentito “prigioniero della Santa Agonia”, come Bernanos, Dietrich Bonhoeffer, Edith Stein, come il Verbo, fattosi carne: / portava a compimento il riscatto / della tua unica possibile Immagine / e nel Vuoto assoluto si inabissava, / lassù (Canti ultimi, Milano, Garzanti 1991, 204).

Inabissandosi nella morte, Cristo l’ha trasfigurata, tanto che Turoldo ne ha avvertito la nostalgia. La morte? Questo finir di morire, / la mia aurora stupenda, la mia danza inimitabile. Per tali prospettive, il canto turoldiano non è mai funebre: è canto aurorale, canto d’incontro, di nozze. “L’attesa della morte è l’attesa del giorno delle nozze”.

“Io vorrei morire come l’aurora
disfatta nel sole, come la notte
nell’aurora, come la luce nella notte […].
Sentire così
quanto dev’essere forte
l’abbraccio di Dio che mi ha fatto
per la mia Morte,
per questo spazio ricolmo
solo dal silenzio del suo Verbo
risucchio di tutte le parole” (SM, 142).

 

Cristo, “astro incarnato nell’umane tenebre”

Quando, nel 1942 Giuseppe Ungaretti (1888-1970) dal Brasile ritornò in Italia, aveva l’anima appesantita dal dolore. Nel 1937 aveva perduto il fratello, e due anni dopo il figlio Antonello, di nove anni. “Fu la cosa più tremenda della mia vita […]. Il dolore è […] il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola […]. Quel dolore non finirà più di straziarmi”. Si è soli, nudi, impotenti. In Italia si trovò a vivere nel periodo più cruciale della seconda guerra mondiale. Attorno a lui tutto era desolazione e morte. Quando ogni speranza sembrava svanire nel nulla, la percezione di una presenza vivificante permise al Poeta di compiere un balzo che lo strappò alla disperazione e gli fece intravedere una possibilità di riscatto. Sia la morte dei familiari sia la desolazione della guerra furono viste con occhio nuovo, su sfondi che superano il particolare e il contingente, e si affermano come elementi superiori di vita. Classica testimonianza di questo balzo liberatore è la lirica Mio fiume anche tu che è al vertice dell’itinerario ungarettiano verso il pieno incontro con Cristo.

La prima e la seconda parte della lirica è un martellante insistere sulla duplice tragedia, privata e collettiva. Il Poeta la sente sulla propria pelle, realtà malefica che schiavizza e soffoca gli animi, scatena l’odio e muta le case in tane riecheggianti singhiozzi e rantoli. Siamo condannati all’Inferno? A questo punto egli compie un vigoroso balzo nei cieli cristiani. In essi scorge Cristo che raccoglie nel suo cuore il dolore della terra e lo trasforma, per la forza dell’amore, in elemento di redenzione. La passione di Cristo è la passione dell’uomo: passione vivificante e trasformante. Il Crocifisso è un altare sul quale le devastazioni e le sofferenze sono lavate nel sangue dell’Agnello di Dio che fa del proprio cuore la sede appassionata dell’amore non vano.

Sulle strade desolate l’uomo non è più solo; Cristo si affianca a ogni sofferente per infondergli forza e speranza; anzi è in ogni sofferente nel quale continua la sua redenzione; è in agonia fino alla fine dei tempi perché raccoglie il dolore umano, lo fa suo, lo riscatta. La visione poetica allora si trasforma in preghiera, e la preghiera si ammanta di speranza ultraterrena.

“Fa piaga nel tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l’uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell’amore non vano.
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e Fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D’un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri”.
(Vita di un uomo, Milano, Mondadori 1969, 228 ss).

Sugli stessi sfondi si staglia il Cristo del romanzo Il Natale del 1833 di Mario Pomilio (1921-90). Protagonista è Alessandro Manzoni negli anni in cui gli morirono la moglie e, un anno dopo, la figlia. Un tumultuare d’interrogativi angosciosi prostrarono l’animo dello scrittore. Se Dio c’è, perché il dolore? Non è bastata la morte di Cristo a redimere l’uomo? Può la Bontà divina volere - e non solo permettere - il “perpetuo olocausto dei buoni”? Quando sembra che questi interrogativi si perdano contro una cortina di buio, un guizzo di luce solca l’orizzonte: la storia delle vittime è la storia di Dio. Perché?

“Perché ogni qualvolta un innocente è chiamato a soffrire, egli recita la Passione. Che dico, recita? Egli è la Passione […], nel senso che è Cristo stesso a crocifiggersi con lui. Potrà parervi disperante questo Dio disarmato. E invece che cosa c’è , riflettendoci bene, di più consolante di questa solidarietà non di forza o d’ingiustizia, ma di compassione e d’amore? E in verità, semplicemente, amico mio: la croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno; e il dolore di ciascuno è la croce di Dio” (Il Natale del 1883, Milano, Rusconi 1982, 128 s).

 

La carrellata continua

Se volessimo presentare tutte le immagini del Cristo offerteci dalla letteratura italiana del Novecento, avremmo bisogno di molto spazio. Non possiamo però non ricordare, seppure a volo d’uccello, alcuni nomi.

Gabriele D’Annunzio (1863-1938) ha visto in Gesù un “nemico” dal quale difendersi per non vedere insidiata la sua grandezza di “vate”, di “multanime”, di artista cui tutto è lecito. Natalia Ginzburg (1916-1990), prendendo lo spunto dalla proposta di togliere dalle aule scolastiche il crocifisso e dichiarandosi contraria alla proposta, presentava Gesù come “l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza tra gli uomini, fino allora assente”. Il Crocifisso affratella tutti, le sue Parole “sono la chiave di tutto. Sono il contrario di tutte le guerre […]. Sono l’esatto contrario del mondo come oggi siamo e viviamo”. Toglierlo dalle aule scolastiche sarebbe “una perdita”. Per tutti (cfr. L’Unità, 25/3/1988). Per Diego Fabbri (1911-80) Gesù è colui “che alimenta le speranze del mondo”; a tale conclusione porta il suo Processo a Gesù, opera drammatica universalmente conosciuta e apprezzata. Nino Salvaneschi (1887-1968) ha affascinato migliaia di lettori con la sua opera di narratore e di confidente spirituale. Colpito da cecità totale a soli 35 anni, visse momenti drammatici. Salvato dall’incontro con Cristo, ha lasciato scritto: “Tutti gli uomini hanno bisogno di un Salvatore che li salvi dalla disperazione nella quale le innumerevoli disillusioni e i crudeli dolori della vita minacciano di gettarli. Gesù Cristo è questo Salvatore” (Saper soffrire, Milano, Dall’Oglio 1941). Gianni Stuparich (1891-1961) conclude il suo memorabile romanzo Ritorneranno con l’episodio di una madre che accoglie il figlio, reduce dalla guerra, con una cicatrice al posto degli occhi. Abbracciandolo mormora: “Non può essere che nel mondo sia stato vano tanto dolore”. L’orizzonte del narratore si dilata per accogliere una visione redentrice: “[…] qualcosa più vasto della terra, pulsava un cuore che accoglieva a una a una tutte le sofferenze del mondo. Quel cuore era divino; quel cuore aveva battuto nel petto di una creatura umana e divina; e quella creatura umana e divina aveva un volto: gli uomini lo conoscevano ma ancora gli passavano davanti specchiandovici fuggevolmente o rinnegandolo. No, non poteva accadere che un giorno, vicino o lontano, non fossero arrivati in Esso. L’orrore, la superbia umana potevano oscurare, ma non cancellare il volto di Cristo nel mondo” (Ritorneranno, Milano, Garzanti 1941). Il Cristo di Giovanni Testori (1923-93) è l’Uomo-Dio che noi cerchiamo con affanno e con furore perché, pur sapendo che soltanto in lui abbiamo la redenzione dal nostro abbrutimento e l’approdo al nostro vagabondare, non ci stanchiamo di offenderlo. Ti ho amato con pietà, / con furia ti ho adorato. / Ti ho violato, sconciato, bestemmiato. / Tutto puoi dire di me / tranne che ti ho evitato (Nel tuo sangue, Milano, Rizzoli 1973). Il tormentato autore di questi versi sa che la ricerca del Redentore è redenzione. Italo Alighiero Chiusano (1926-95), in una suggestiva poesia della sua raccolta Preghiere selvatiche dal titolo Aut Christus, sintetizza la sua concezione cristologica espressa nella sua opera narrativa:

“Il mio motto è l’“Aut Christus aut nihil”.
E’ quello il cuore, il Dio figlio di Dio,
quello è il centro, il sole che m’illumina,
la notte che tutto avvolge e rinfresca,
la linfa, il sangue che scorre a dar vita,
senso, sapore allegria
sì, miseriaccia, allegria! -
a un cosmo che senza di lui
sarebbe un incomprensibile ammasso
di meraviglie sospese nel nulla”.

Luigi Santucci (1918 - 99), in Volete andarvene anche voi?, avvincente e poetica vita di Gesù, mette in risalto l’attualità del Protagonista. Il suo è “il Cristo che accetta e riassume in sé le proteste, le sofferenze, le ricerche di autentica umanità, sia quella dei credenti sia quelle dei non credenti”. Soprattutto è Colui che ci resta accanto quando tutto svanisce. “Lasciaci soltanto il tuo nome, Gesù Cristo, da ripeterlo quando tutte queste altri parole siano tramontate”. Stefano Jacomuzzi (1924-96), nell’originale romanzo Cominciò in Galilea (che è anche un’intensa riflessione sul Vangelo), presenta un Cristo dal volto umano, che conosce l’uomo, lo cerca e lo ama. Essendo il Verbo incarnato percorre le nostre strade avvolto di mistero. Ciò nulla toglie alla sua dimensione umana, anzi la rende immensamente più vera e più amabile. Ferruccio Ulivi (1912), nel tre romanzi Le mura del cielo, Trenta denari, Come il tragitto di una stella, ci offre l’immagine di un Cristo che sconvolge le nostre categorie umane. Più che pace offre tormento (ma tormento vivificante), più che risposte dà inquietudini (inquietudini che sono nostalgia dell’Assoluto e invito al superamento di se stessi per entrare nel suo Regno).

 

Per concludere una citazione

La carrellata potrebbe continuare. Vogliamo fermare il suo percorso con una citazione tratta da Il quinto evangelio di Mario Pomilio, uno dei romanzi più intensi e più convincenti su Gesù. Da leggere e rileggere. L’Autore dice che è una Preghiera al crocifisso di anonimo fiammingo del XV secolo. Comunque sia, è la sintesi del suo romanzo.

“Cristo non ha più mani,
ha soltanto le nostre mani
per fare oggi le sue opere.
Cristo non ha più piedi,
ha soltanto i nostri piedi
per andare oggi agli uomini.
Cristo non ha più voce,
ha soltanto la nostra voce
per parlare oggi di sé.
Cristo non ha più Vangeli
che essi leggano ancora.
Ma ciò che facciamo in parole e in opere
è l’evangelio che si sta scrivendo”.
                 (Il quinto evangelio, Milano, Rusconi 1975, 87)

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