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supplemento
n. 1 del 2003

 

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I sensi del corpo, porte spirituali
per contemplare e celebrare
la gloria di Dio Trinità che risplende
sul volto di Cristo

di Angelo Amato
 

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La purificazione e la trasfigurazione dei sensi

 «Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare tra noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Il Figlio di Dio è diventato uomo perché l’uomo potesse vedere Dio.

Per questo i nostri sensi corporei possono percepire, discernere, gustare le cose di Dio non solo mediante il cosiddetto libro della natura, ma anche e soprattutto mediante il mistero dell’incarnazione. L’udito può ascoltare la Parola di Dio, il gusto assaporare il pane di vita eterna, l’odorato inebriarsi del  «soave odore» del sacrificio di Cristo (cf Ef 5,2), il tatto toccare il suo corpo eucaristico, la vista contemplarne il volto. Guariti mediante la fede i sensi corporei possono aprirsi alla realtà spirituale.

Ma per poter accedere con tutto il suo essere a questa sapienza l’uomo deve essere istruito dallo Spirito, «che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio» (1Cor 2,11). Non l’«uomo naturale», quindi, ma l’«uomo spirituale» può esprimere cose spirituali in termini spirituali: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1Cor 2,9).

Si tratta di una vera e propria educazione ed elevazione spirituale. Dice, ad esempio, san Giovanni della Croce: «Dio per elevare l’anima con soavità alla somma conoscenza deve incominciare a muoverla dall’estremo limite dei sensi per poterla innalzare così [...] fino al sommo vertice della sapienza spirituale e divina, che non cade sotto il dominio dei sensi»1.

La capacità di «vedere» e «gustare» la realtà divina da parte dell’uomo è un dono dello Spirito del Cristo risorto. Gregorio di Nissa afferma che «respirare il profumo degli aromi divini non è opera del nostro odorato e delle nostre narici, ma di una particolare facoltà intellettuale e immateriale, che ci fa respirare, aspirando lo Spirito Santo, il buon odore di Cristo»2. Lo Spirito opera una vera e propria trasfigurazione dei sensi, che si aprono alla contemplazione di Dio.

Tale influsso dello Spirito del Padre e del Figlio è pienamente operante nel rapporto tra Gesù e il prossimo bisognoso, tra Gesù e i suoi discepoli: i loro sensi vengono guariti, purificati e trasfigurati per poter avere pieno accesso alla realtà divina. È questo che mediteremo, rileggendo alcuni episodi evangelici e riflettendo sull’esperienza spirituale dei santi.

 

I sensi e la lode al Signore

 

«Signore, apri le mie labbra, e la mia bocca proclami la tua lode» (Sal 50,17). Con questa invocazione si apre ogni giorno la Liturgia delle Ore a gloria di Dio Trinità. L’uomo, questa «fragile canna pensante»3, consapevole, però, di essere stato creato a immagine e somiglianza di Dio (cf Gn 1,26), prega il suo Creatore e Signore con tutto il suo essere.

Superiore ai falsi idoli delle genti che «hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano; hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni» (Sal 114,5-7), l’uomo è l’arpa del creato che loda Dio con il canto, la danza e con tutto il suo essere: «Lodate il mio Dio con i timpani, cantate al Signore con cembali, elevate a lui l’accordo del salmo e della lode» (Gdt 16,1); «Cantate al Signore un canto nuovo, suonate la cetra con arte e acclamate» (Sal 32,3).

Ringraziando il Signore per il dono della vita il Salmista canta: «Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia, perché io possa cantare senza posa» (Sal 29,12-13). Fiducioso nella protezione divina, mantiene sempre il suo sguardo rivolto verso il Signore: «A te levo i miei occhi, a te che abiti nei cieli» (Sal 123,1).

I sensi del corpo - tradizionalmente si parla di vista, udito, tatto, gusto e olfatto - sono le porte, che aprono l’essere umano al mondo e al suo prossimo, ma sono anche le vie che lo guidano al dialogo con Dio4, quasi corde di una cetra misteriosa ma reale, mediante la quale egli grida «Abbà, Padre», nella carità dello Spirito del Figlio (Gal 4,7).

La preghiera, la grazia, ogni scelta e manifestazione spirituale dell’uomo non può non avere una positiva ripercussione sulla sua sensibilità, che riceve armonia ed esprime condivisione. Certo, non si deve dimenticare il combattimento spirituale in atto tra la vita secondo la carne e la vita secondo lo spirito. Come avverte Gregorio di Nissa, l’uomo è come una fortezza con cinque porte, i sensi, che devono essere ben custodite per evitare l’ingresso del nemico5.

Ma è altrettanto vero che la grazia offre alla natura un plusvalore di forza e di efficacia spirituale, che ne affina la sensibilità. L’evento, ad esempio, della trasfigurazione di Gesù, di questa straordinaria e gloriosa metamorfosi del suo corpo, provoca nei discepoli un sentimento di tale benessere da spingere Pietro ad esclamare: «Maestro, è bello per noi stare qui» (Mc 9,5). È quasi il preludio della sorte riservata al nostro corpo ad opera del Signore Gesù, «il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3,21).

Ai discepoli di Giovanni, che gli chiedevano se fosse lui il messia, Gesù rispose: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella» (Lc 7,22). La guarigione dei sensi era la premessa perché gli uomini potessero aprirsi alla verità e alla realtà di Dio. La restituzione della loro integrità indicava il ristabilimento di un retto dialogo tra l’uomo e Dio.

 

«Effathà» «Apriti» (Mc 7,34)

 

 La guarigione del sordomuto è uno dei miracoli più belli di Gesù: «E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effathà” cioè: “Apriti!”. E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente» (Mc 7,32-35).

C’è una originalità in questo miracolo. Negli altri è sufficiente la parola: «Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina» (Gv 5,8), dice Gesù al paralitico della piscina Bezata. Nella guarigione del servo del centurione, Gesù addirittura lo guarisce da lontano: «”Va e sia fatto secondo la tua fede”. In quell’istante il servo guarì» (Mt 8,13).

Invece, nel caso del sordomuto, Gesù compie dei gesti concreti. Agisce non solo con la sua parola “ricreatrice”, ma anche con le dita, che pone negli orecchi del sordo, e con la saliva, con la quale gli tocca la lingua. Si tratta di un miracolo in cui la realtà corporea viene molto evidenziata. Gesù ha voluto riplasmare la materia per ricondurla alla sua originaria integrità e nobiltà. In tal modo ha restituito all’uomo la sua originaria identità di «uditore della Parola». Per questo la formula “effathà” era presente nell’antica liturgia battesimale a indicare che il battezzando veniva guarito dalla sua sordità spirituale e che quindi le sue orecchie gli venivano aperte per l’ascolto della voce del Signore.

 

Il miracolo dei sensi

 

E’ vero che Maria Maddalena riconosce Gesù Risorto con i sensi ma con la fede, ma è anche vero che i nostri sensi possono percepire la realtà spirituale, sporgendosi verso il divino, dal momento che è il nostro spirito che vede e sente mediante i sensi. Tertulliano diceva che la carne era il cardine della salvezza: «Quando l’anima viene unita a Dio, è la carne che rende possibile questo legame. È la carne che viene battezzata, perché l’anima venga mondata; la carne viene unta affinché l’anima sia consacrata»6.

Origene parla delle potenzialità spirituali dei nostri sensi: «la vista, che può fissare le realtà superiori al corpo [...]; l’udito, che percepisce dei suoni che non si trovano realmente nell’aria; il gusto che ci fa assaporare il pane vivo disceso dal cielo per dare la vita al mondo; allo stesso modo quei profumi di cui parla Paolo, che sono “per Dio il buon odore di Cristo”; il tatto, grazie al quale Giovanni afferma di aver toccato le mani del Verbo della vita. Avendo trovato questo senso divino, i beati, i profeti guardano in modo divino, ascoltano in modo divino, gustano e sentono allo stesso modo, e cioè mediante un senso che non è sensibile»7.

Il mondo spirituale lo si può cogliere non solo con la fede e la ragione, ma anche con il cuore e con i sensi. Già l’apostolo Giovanni aveva sottolineato con forza il coinvolgimento dei sensi nell’esperienza spirituale della conoscenza del Signore:

 «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita “poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi”, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1Gv 1,1-4).

 La gioia della comunione con Gesù, con il Padre e con lo Spirito Santo è propiziata e sperimentata mediante l’ascolto, la vista, il contatto. Anche i sensi sono in un certo modo avvertiti e pervasi dalla presenza di Dio.

Per questo, negli Esercizi Spirituali S. Ignazio di Loyola pone l’esercizio dell’applicazione dei cinque sensi alla contemplazione del mistero dell’incarnazione e del Natale di Gesù. Oltre alla vista, egli invita a “udire con l’udito ciò che [le persone] dicono o potrebbero dire e, riflettendo in se stesso, trarne qualche vantaggio»8. Si tratta cioè di vedere le persone con la vista immaginativa, udire con l’udito, odorare e assaporare con l’odorato e col gusto, toccare col tatto9. Per venire incontro a questa nostra umana esigenza, Gesù ha voluto rimanere presente in mezzo a noi anche visibilmente mediante l’eucaristia.

 

La fede di Giovanni: «vide e credette» (Gv 20,8)

 

Tutto ciò non è una indebita e tardiva espansione della tradizione spirituale della Chiesa, ma un fondato dato biblico originario. Giovanni nel suo vangelo racconta la sua corsa verso il sepolcro, insieme a Pietro, per verificare cosa era successo del corpo di Gesù.

Ecco il suo racconto completo nei suoi dettagli:

 «Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,3-8 nella traduzione CEI).

 In questo passo è importante comprendere bene il significato delle espressioni nell’originale greco. Anzitutto si deve ricordare che il ricco sinedrita, Giuseppe d’Arimatea, discepolo segreto di Gesù (Gv 19,38), uomo retto e giusto, era riuscito a farsi dare da Pilato il cadavere del Signore e a farlo seppellire nel sepolcro di cui era padrone. Inoltre lo stesso Giuseppe d’Arimatea aveva messo a disposizione la tela, dalla quale erano state ricavate tre tipi di bende: la prima, una specie di sindone, era un lungo lenzuolo da stendere sopra e sotto il corpo di Gesù in modo da coprirlo interamente in tutta la sua lunghezza; le altre bende erano costituite da fasce molto larghe (othonia) per avvolgere in larghezza il corpo martoriato; c’era poi una terza benda, chiamata sudario, formato da un telo quadrato, come un fazzolettone, posto sul volto di Gesù.

Nella preparazione del corpo di Gesù, Giuseppe d’Arimatea fu aiutato da Nicodemo, anche lui fariseo, membro del sinedrio e anche lui discepolo segreto di Gesù (cf Gv 3,1; 7,50). Nicodemo aveva portato una mistura di mirra ed aloe, che era stata versata all’interno delle fasciature e anche in superficie, per coprire il cattivo odore delle piaghe e del sangue rappreso.

Quando Giovanni prima e Pietro dopo entrano nel sepolcro notano che le fasce giacevano non a terra o sciolte, ma ancora avvolte e ben distese, anche se afflosciate. Erano, cioè, rimaste ferme al loro posto. Avevano avvolto il cadavere di Gesù, ma ora restavano nella stessa posizione, anche se svuotate. Pure il sudario era in una strana posizione. Era rimasto al suo posto come le bende, ma appariva arrotolato, per effetto della essiccazione degli inguenti.

Entrando nel sepolcro il giovane apostolo notò questa strana reliquia: e cioè l’involucro delle fasce vuoto, senza il corpo di Gesù, e senza che le fasce fossero state sciolte. Il corpo non era stato trafugato, ma era «sgusciato» come la farfalla dal bruco. Corrispondeva quindi a verità la notizia portata dalle donne. Per questo Giovanni «vide e credette». Vide, cioè, che le bende afflosciate ma non sciolte, indicavano che il corpo del Signore non era più lì ed era risorto in modo straordinario, proprio come aveva predetto. E quindi credette. A Giovanni era stato concesso dal Signore di credere dopo aver “visto”. I sensi lo avevano aiutato a vivere una straordinaria esperienza di fede.

  

«Metti qua il tuo dito» (Gv 20,27)

 

Lo stesso realismo si ha in un altro episodio pasquale, quello della incredulità di Tommaso, il quale apertamente confessa: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv 20,25). Il Signore venne incontro a questo desiderio dell’apostolo e apparendo dopo otto giorni gli dice: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!» (Gv 20,27).

La concretezza corporea di questo dialogo viene ben illustrata dal famoso quadro del Caravaggio, intitolato appunto L’incredulità di Tommaso: raffigura l’apostolo che infila il dito nella piaga viva di Gesù e lo fa in modo talmente profondo e realistico, che provoca i brividi nello spettatore.

La tela, dipinta a Roma nei primi due anni del 1600 (ora si trova nella quadreria del castello di Postdam, alle porte di Berlino), è di una perfezione assoluta. Gli sguardi dei quattro personaggi (Gesù, Tommaso e altri due apostoli) si concentrano sulla ferita del costato e sul dito dell’apostolo. Non ci sono altre distrazioni. Lo sfondo è spoglio. L’artista ha “zoomato” sul costato di Gesù, mettendo a fuoco il dito dell’ apostolo che affonda nella piaga. Lo spettatore diventa il quinto protagonista della tela: anche lui fissa lo sguardo solo sulla ferita di Gesù. Un secondo particolare riguarda proprio la profondità della esplorazione concreta di Tommaso, che si accerta della realtà del Risorto non solo con il dito ma anche con due occhi sgranati in modo ansioso. Due sensi - il tatto e la vista - provano più di uno solo.

Anche gli altri due apostoli toccano la piaga con i loro occhi indagatori. Corrisponde del resto alla parola di Gesù nel terzo vangelo: «Perche siete turbati, e perche sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho» (Lc 24,38-39).

Tutto ciò ricorda l’episodio dell’emoroissa che con fede tocca il mantello del Signore e viene guarita (Lc 8,43-48). Sia durante la sua vita terrena, sia da Risorto il Signore ha offerto ai nostri sensi la gioia di vederlo, di gustarlo, di sentirlo, perchè possiamo riacquistare sia la salute del corpo sia la fede in lui: «”Venite a mangiare” [...]. Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro, e così pure il pesce» (Gv 21,12-13); «”Resta con noi perche si fa sera e il giorno già volge al declino”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc 24,29-31).

 

Sant’ Agostino commenta al riguardo:

 «E adesso, fratelli miei, Gesù è in cielo. Quando era con i suoi discepoli nella sua carne visibile, nella sua sostanza corporale, toccabile, fu visto e fu toccato: ma ora che siede alla destra del Padre, chi di noi lo può toccare? E tuttavia guai a noi se con la fede non lo tocchiamo! Tutti lo tocchiamo, se crediamo. Certo, egli è in cielo, certo è lontano, certo non si può immaginare per quali infiniti spazi disti da noi. Ma se credi, lo tocchi. Che dico, lo tocchi? Proprio perché credi, presso di te hai colui nel quale credi».#

 Per questo, mediante la fede, i discepoli di Gesù «vedono» e «accolgono» il Signore nei bisognosi. Nella Regola di Macario leggiamo:

«”Esercitate l’ospitalità” in ogni circostanza e “non distogliete gli occhi così da lasciare il povero a mani vuote”, perché non accada che il Signore venga da te nella persona dell’ospite o del povero e ti veda restio e tu sia condannato, ma fa’ buon viso a tutti e agisci con fede»10.

Più precisa e concreta è la Regola di S. Benedetto, che vede negli ospiti la presenza stessa di Gesù:

«Tutti gli ospiti che sopraggiungano, siano ricevuti come Cristo, perché Egli dirà: Fui ospite e mi accoglieste; e a tutti si renda il conveniente onore, specialmente poi a quanti ci sono familiari secondo la fede, e ai pellegrini [...]. Il superiore per riguardo all’ospite rompa pure il digiuno, purché non si tratti d’uno speciale giorno di digiuno che non possa esser violato; i fratelli invece seguano i consueti digiuni. L’acqua alle mani la versi agli ospiti l’abate; i piedi a tutti gli ospiti li lavino sia l’abate che tutta la comunità, e finita la lavanda dicano questo verso: Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel mezzo del tuo tempio»11.

  

Il profumo della carità

 

Dice un proverbio buddista: «Di poco valore è il profumo degli aranci o del sandalo, mentre la fragranza dell’uomo virtuoso sale fino al cielo».# Nella casa del fariseo Simone entra all’improvviso una donna con un vasetto di profumo. Si inginocchia ai piedi di Gesù, glieli bagna con la lacrime, li asciuga con i propri capelli, li bacia e li cosparge di olio profumato.

Chi è questa donna? È «una peccatrice», dice il vangelo due volte (cf Lc 7,37.39).

Il gesto della peccatrice è quindi un gesto di adorazione a Gesù, che si comporta proprio come Figlio di Dio, concedendole il perdono e la pace: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace» (Lc 7,50). Una peccatrice, però, che vuole cambiar vita.

I gesti della donna erano a quel tempo dei gesti concreti e comuni quando si accoglievano gli ospiti di riguardo: lavare i piedi, asciugarli, baciarli, profumarli. Ma straordinaria è l’intensità dell’amore che la donna mostra nel compierli. Non si serve di altra acqua che quella delle sue lacrime e i suoi asciugamani sono i suoi capelli. E poi ci sono i baci e i profumi, espressione di grande amore, ma anche di grande desiderio di penitenza e di conversione. Sono tutti gesti indirizzati a Gesù.

Il profumo, infatti, può anche essere indice di mortificazione e di digiuno. Gesù stesso aveva detto: «quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto» (Mt 6,17).

Ma il gesto della donna ha un altro significato: quello dell’amore a Gesù, come al Signore che perdona e benedice. Nel tempio di Gerusalemme c’era l’altare dei profumi sul quale veniva versata quotidianamente una coppa d’oro ripiena di oli profumati. Il sacerdote, dopo aver sparso il profumo sulle braci, usciva e benediceva il popolo con le parole: «Il Signore ti benedica e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti conceda la pace» (cf Nm 6,24-26).

Ma il profumo indica soprattutto la carità messa in pratica: «Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,1-2). Lo stesso San Paolo, ringraziando i cristiani di Filippi dei doni ricevuti, afferma che questi atti di carità «sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio» (Fil 4,18).

La carità è quindi una preghiera profumata al Signore che ci merita il perdono. Il profumo è la fragranza dello Spirito Santo, l’odore della carità e dell’amore di Dio infuso nei nostri cuori. Il gesto della peccatrice impressionò talmente Gesù che lo ripropose lui stesso nell’evento della lavanda dei piedi: «Si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto» (Gv 13,4-5).

Su una delle pareti musive della Cappella Redemptoris Mater inaugurata in Vaticano nel 1999, le due scene sono messe in stretta correlazione, a significare che il gesto concreto di amore ricevuto da Gesù fu da lui offerto ai discepoli come suo testamento di carità e di servizio.

 

I sensi, finestre spirituali

 

Concludiamo rileggendo due esperienze che Ignazio di Loyola riporta nella sua autobiografia. Si tratta di due «visioni» nelle quali i sensi del corpo si aprono alla contemplazione del mistero eucaristico e dell’umanità gloriosa di Gesù.

 La prima avviene a Manresa e Ignazio parla in terza persona:

 «A Manresa dunque, ascoltando un giorno la messa nella chiesa del convento, alla elevazione del Corpo del Signore vide con gli occhi interiori come dei raggi bianchi che scendevano dall’alto. Questo fenomeno, dopo tanto tempo, egli non lo sa ricostruire bene; ma ciò che allora comprese, con tutta chiarezza, fu percepire come era presente in quel santissimo Sacramento Gesù Cristo nostro Signore»12.

Alla percezione della reale presenza di Gesù nell’Eucaristia, fa seguito anche la contemplazione dell’umanità di Cristo, un’esperienza che il Santo ebbe con molta frequenza non solo a Manresa, ma anche a Gerusalemme e nei pressi di Padova:

 «Molte volte, e per molto tempo, mentre era in preghiera, gli accadeva di vedere con gli occhi interiori l’umanità di Cristo, e quello che vedeva era come un corpo bianco, non molto grande né molto piccolo, ma senza alcuna distinzione di membra [...]. Tutte queste esperienze lo confermarono allora nella fede e gliene diedero poi sempre tanta fermezza da pensare molte volte che, se non ci fosse la Scrittura a insegnarci queste verità, era pronto a morire in loro testimonianza anche solo in forza di quanto aveva visto»13.

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