Il corpo che ho o il corpo che
sono? Il corpo va guardato con sospetto o in modo sereno? È un intralcio
nel cammino di conversione o è un mezzo e uno strumento di conversione?
La consacrazione va vissuta nonostante il proprio corpo e le esigenze
della propria corporeità o va vissuta attraverso il proprio corpo e le
esigenze della propria corporeità? La preghiera per un consacrato
coinvolge solo mente e cuore o chiama in causa tutto il corpo e implica
tutta la corporeità, con i suoi nessi e connessi?
Questi e altri interrogativi
possono invadere la mente e il cuore, ma anche il corpo e le mani, di
chi ha scelto di donarsi al Signore Gesù, facendo del Cristo Risorto il
Signore della propria vita e della propria storia.
La signoria di Cristo non
annulla l’umanità e la corporeità di chi si dona a lui. Anzi, richiede
l’ascolto equilibrato del proprio corpo e della propria corporeità,
nonché l’accoglienza incondizionata di ciò che si è.
L’individuo non è costituito
solo dalla parte corporea (estensione fisica e limitata), egli porta con
sé anche l’estensione spirituale (anelito d’infinito e slancio verso l’alterità).
Di conseguenza, l’individuo non ha un corpo in cui vive da ospite per un
periodo determinato, egli è un’esistenza corporea che interagisce in
modo creativo e critico con il mondo che lo circonda.
Il corpo è al centro
dell’orizzonte d’azione e di pensiero dell’individuo e colloca in un
qui. Nello stesso tempo, mette in contatto con ciò che è oltre.
L’individuo durante la sua esistenza sa dove è con il suo corpo, ma
desidera anche abitare altrove. Dal desiderio di abitare qui e altrove
nasce l’inquietudine e la ricerca dell’identità del proprio essere.
È l’esistenza corporea situata
qui ma protesa all’alterità e all’altrove che permette al credente di
«farsi» Eucaristia: offerta e rendimento di grazie nel qui-e-ora verso
l’altrove.
L’Eucaristia è offerta e dono di
sé, non di qualcosa che si ha. È dono libero e gratuito di se stessi e
della propria esistenza. Un dono che parte da dentro e interessa tutta
l’esistenza, non solo un aspetto o l’esteriorità di un corpo in
dotazione.
È l’esistenza corporea, con
tutte le sue implicanze, che è invitata dal Cristo a farsi eucaristia:
offerta e dono di sé. Le mani, i piedi, il cuore, la mente… sono
chiamati a farsi eucaristia non in quanto «pezzi» di un corpo, ma in
quanto esistenza che si pone di fronte al mondo con un pensiero amante.
È l’esistenza corporea, con il suo intrigato vissuto, ad entrare in
relazione dialogica e affettiva con un’altra esistenza corporea, a
offrirsi e divenire rendimento di grazie. Non un corpo di fronte a un
altro corpo, ma un’esistenza corporea di fronte a un’altra esistenza
corporea.
L’ascolto e l’accoglienza del
proprio corpo (limiti e risorse, pregi e difetti), poi, e
inevitabilmente, si trasformano in offerta. È l’offerta all’altro,
concretizzata nel contatto e nell’incontro, che consente di interagire
con l’alterità e di sperimentare l’ascolto e l’accoglienza della
diversità. L’altro è e rimane sempre diverso da me.
Nell’offerta all’altro diverso
da me, nel contatto e nell’incontro con l’alterità si consente alla
propria e altrui corporeità di esistere, di percepirsi, di entrare in
relazione. L’offerta, poi, e necessariamente, specie per un consacrato,
si trasforma in rendimento di grazie. È la complementarità accolta e la
reciprocità donata che fanno crescere e toccare l’infinito che è in sé.
Il corpo diventa Eucaristia nel
qui-e-ora del proprio contesto vitale solo quando, superata la scissione
dualistica tra l’aspetto corporeo e l’aspetto spirituale, vive
l’originaria correlazione corpo-mondo1.
che non fa sentire di
essere un corpo fisico, ma un corpo vivente immerso in quella corrente
di desiderio che produce l’azione e fa del corpo non «un» ostacolo da
superare, ma «il» veicolo del contatto con il mondo e con la realtà.
I discepoli e
il corpo di Gesù
Il corpo e la corporeità non
sono sminuiti nei racconti evangelici. Sono presenti e valorizzati fino
al punto che Gesù il Cristo, morto nel corpo e risorto dal suo corpo e
con il suo corpo, offre il suo corpo in dono: «questo è il mio corpo che
è dato per voi » (Lc 22,19). Fino al punto che, Risorto, si presenta ai
discepoli con un corpo, anche se leggero e capace di passare «a porte
chiuse» (Gv 20,19.26). Ritorna per incontrare l’incredulo Tommaso e lo
invita a entrare nelle sue ferite fisiche e toccare la sua umanità
martoriata (cf Gv 20,27).
Gesù non dona il suo corpo solo
nell’ultima cena, quando lo consegna ai discepoli e suggerisce di
mangiarlo e di farlo «in memoria di me» (ib.).
Tutta l’esistenza terrena di
Gesù è contrassegnata dal dono del suo corpo. Un corpo che tutti possono
vedere e toccare, e da cui tutti possono ricevere calore e benefici.
Un episodio evangelico s’impone
all’attenzione: l’esperienza della donna che soffre da dieci anni
d’emorragia. L’esperienza di questa donna colpisce a tal punto i
credenti delle prime comunità cristiane che l’episodio è registrato da
tre evangelisti: da Marco e Luca, in maniera estesa e dettagliata (Mc
5,25-34; Lc 8,43-48); da Matteo, in modo succinto e sintetico (Mt
9,20-22). Questa donna – dopo «aver sofferto per opera di molti medici,
spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio» (Mc 5,26) – prende
il coraggio a due mani, si accosta «alle spalle» (Mc 5,27) di Gesù,
tocca «il lembo del suo mantello» (Lc 8,44) e pensa «se riuscirò anche
solo a toccare il suo mantello, sarò guarita» (Mc 5,28).
Un corpo malato che, nel
pensiero e nella fede della donna, può essere guarito con il semplice
gesto di approssimarsi alle spalle di Gesù e toccare il lembo del suo
mantello.
La donna, raccontano i Vangeli,
tocca il lembo del mantello che copre il corpo di Gesù e riceve
immediatamente la guarigione del suo corpo. Riceve l’attenzione profonda
di Gesù: «chi mi ha toccato il mantello?» (Mc 5,30). La domanda suscita
stupore: «vedi la folla che ti stringe attorno e dici: Chi mi ha
toccato?» (Mc 5,31). Gli apostoli non comprendono e forse sul loro volto
sarà apparso un sorriso per l’inaudita richiesta del Maestro.
Gesù va oltre. Schiacciato dalla
folla cerca il corpo che ha sfiorato la sua corporeità. Non si è
trattato di un contatto tra corpi, ma dell’incontro di due esistenze:
una richiedente e l’altra offerente.
Il contatto tra Gesù e la donna
è delicato ed empatico. È intenso. Coniugato al femminile. Attento ai
particolari.
È un incontro eucaristico
d’offerta e rendimento di grazie che cambia la vita e la storia di
quella donna. L’incontro genera, innanzi tutto, un cambiamento nel
corpo: la donna ottiene subito la guarigione (cf Mc 5,29). Genera, di
conseguenza, un cambiamento profondo nella relazione con l’alterità: la
donna esce col suo corpo malato dall’anonimato della folla e tocca Gesù,
e poi esce ancora allo scoperto per inginocchiarsi davanti al corpo di
Cristo (cf Mc 5,33). Genera, infine, un cambiamento radicale: la donna
adesso, con il corpo guarito dalla sua stessa fede, può, come suggerisce
Gesù, andare in pace (cf Mc 5,34).
Tra le righe dei Vangeli
traspare una relazione amicale e confidenziale tra Gesù e i suoi
discepoli, i quali mostrano un rapporto familiare con il corpo e la
corporeità di Gesù. Un discepolo, poi, in un gesto d’intimità profonda
poggia, di fronte ai suoi compagni d’avventura, il capo sulla spalla di
Gesù. L’emoroissa osa giungere dietro le spalle di Gesù, questo
discepolo va oltre e poggia il capo sulla spalla del suo Maestro.
Chi sa quante volte i discepoli,
in una di quelle sere stellate d’oriente, seduti stretti attorno a Gesù,
hanno sentito il calore e l’odore di quel corpo che si ergeva tra cielo
e terra, tra finito e infinito, tra il Padre e i fratelli. E quante
volte hanno toccato con semplicità quel corpo di cui un giorno sarebbero
divenuti i testimoni privilegiati e avrebbero avuto il compito di
spezzarlo, distribuirlo ai credenti, consumarlo con letizia nelle
piccole comunità cristiane. E quante volte hanno cercato di carpire il
segreto dell’equilibrio di Gesù, il quale sapeva riconoscere la
stanchezza e la fame del suo corpo e gli donava il giusto riposo e il
giusto ristoro, ma sapeva anche chiedergli il sacrificio dell’offerta e
l’abnegazione dell’amore.
E quante volte hanno ammirato
Gesù e quel suo modo di amare, scrutare, conoscere in profondità i ritmi
e le stagioni del corpo. Quel corpo non negato, ma amato e rispettato
profondamente, fino a farlo risorgere nell’amico morto. Non scomodo, ma
compagno di viaggio. Non temuto, ma preso in carico. Non pesante, ma
leggero. Non estraneo, ma familiare. Quel corpo accettato e vissuto nel
dolore della croce e nella gloria della risurrezione.
Tutta la vita di Gesù è intrisa
di atteggiamenti eucaristici: quando s’intrattiene con i bambini, quando
scrive per terra, quando si lascia incontrare da Nicodemo di notte,
quando trasforma l’acqua in vino, quando stende le mani per guarire,
quando con la saliva apre gli occhi al cieco… Ogni gesto coinvolge il
suo corpo e la sua corporeità nell’atto dell’offerta.
L’esempio di Gesù conforta il
nostro cammino e apre l’orizzonte della corporeità all’incontro libero e
profondo con l’alterità. È nell’incontro disponibile e gratuito che il
corpo diventa Eucaristia. Si fa offerta. E canta il suo rendimento di
grazie.
Il corpo si fa offerta vivendo
l’attenzione alla situazione dell’altro e assumendone la condizione
esistenziale in una condivisione profonda. L’offerta si fa compagnia
nella gioia e nella sofferenza, nella difesa della dignità e nella lotta
contro le ingiustizie. Come l’Eucaristia si fa compagnia dei discepoli
di Emmaus.
Il corpo si fa rendimento di
grazie cantando la lode al Creatore attraverso l’amore per ogni
creatura. Il grazie si fa festa per l’impegno profuso a favore delle
pecorelle svilite dalla fame, dalla violenza, dalla persecuzione. Come
l’Eucaristia si fa festa nel cenacolo di Gerusalemme e in ogni agape
vissuta da Gesù con gli uomini e le donne del suo tempo.
Il corpo si fa offerta quando è
libero dalla paura dell’incontro. E si fa rendimento di grazie quando è
libero dal timore del dono. Allora sì che l’esistenza corporea è capace
di donarsi fino al martirio, pur di rimanere fedele alla vocazione
all’incontro con l’altro e al dono per l’altro. Pur di essere fedele
all’impegno di darsi in cibo per amore.
Il corpo
terreno di Gesù: la «tenda» della Trinità
Il corpo non è solo qualcosa che
il Cristo possiede. È il luogo teologico in cui la comunità trinitaria
prende dimora e costruisce la sua casa per incontrare l’umanità. Quell’umanità
cui Dio «fa spazio» attraverso la creazione e, così, l’universo e
l’umanità emergono dalle profondità del suo amore.
La creazione è lo spazio che Dio
«fa» per «dare spazio» all’esistenza corporea degli uomini e delle
donne, suoi figli e creature. La corporeità dei figli di Dio è assunta
dal Figlio di Dio ed è donata nell’Eucaristia.
Nello scambio d’amore tra
Creatore e creature, il volto delle creature si fa irradiazione della
bontà e disponibilità del Creatore. Al volto umano Dio affida il compito
di essere riflesso della sua cordialità e graziosità, di far comprendere
il significato della sua grazia. La charis, direbbe Bernhard Häring, è
la grazia che addita il volto attraente di Dio2.
. Ed è per mezzo di Cristo e dei
suoi discepoli che Dio svela il suo volto all’umanità, un volto
accogliente e amoroso che si dona e si spezza senza riserve.
Il corpo nella sua interezza è
comunicazione ed è segno di speranza. Consente di volgersi gli uni agli
altri e di conoscersi gli uni gli altri. Nella reciprocità delle
coscienze. Nella complementarità rispettosa delle differenze.
Nell’amicizia vera. Così si giunge a intuire la comunione e la
comunicazione con Dio.
Nella propria esistenza corporea
l’uomo (donna) è una «parola detta» da Dio con un amore unico. Una
parola che in Cristo si fa Eucaristia, pane spezzato e donato per amore.
E l’esperienza del Cristo, il «comprarci a caro prezzo» (1Cor 6,20),
spinge a «glorificare Dio nel proprio corpo» (ib.).
Il corpo
parla
Il corpo è una comunicazione
costante di senso e significati, scopi e obiettivi. Il volto parla e
manifesta gioia, affetto, accettazione, rifiuto, ansia, sofferenza,
preoccupazione, voglia di stare e voglia di andare… Le braccia si
esprimono e possono accogliere o respingere, stringere a sé o
allontanare, donare o negare un abbraccio... Le mani comunicano e
possono prendere e dare, dividere e unire, incoraggiare e scoraggiare,
spingere in avanti e frenare, riposare nelle mani di un altro o dare ad
altre mani la possibilità di riposarsi in esse…
Nei libri di Confucio si legge
che i doni più preziosi che il Cielo riversa sul saggio sono quattro. La
benevolenza: il dire bene e il benedire. La gentilezza: la cordialità e
l’amabilità. La giustizia: la rettitudine e l’equità. La prudenza: la
riflessione e il controllo. Questi doni affondano le radici nel cuore.
Sono rivelati nel portamento delle spalle. Interessano le membra del
corpo, in particolare le mani. I loro effetti risplendono sul volto.
Le mani non servono solo a
maneggiare e manipolare le cose. Esse fanno essere narrando vissuti.
Chi sceglie di seguire il
Cristo sa di non poter più tenere le mani in tasca, nascondendole di
fronte all’impegno e alle responsabilità. Le sue mani sono chiamate a
divenire accoglienza e incontro, consolazione e sostegno, guarigione e
servizio. Le sue mani sono offerte come quelle di Cristo sulla croce.
Sono offerte alla vita, ogni vita e tutta la vita: quella che nasce, che
cresce, che muore. Le sue mani devono saper custodire quelle dell’altro,
Comunicare confidenza e fiducia. Spezzare la Parola. Far sentire l’amore
palpitante del Padre e la comunione dei fratelli. Riconciliare con la
propria storia e con la storia dei fratelli…
Le mani richiamano i piedi, quei
piedi che calpestano il luogo sacro in cui Dio ha posto la sua tenda. I
piedi per un consacrato sono molto più che un semplice strumento per
camminare. Essi servono a mettersi «nelle scarpe degli altri» e vivere
una vita empaticamente in sintonia con la storia e i vissuti degli
altri.
Il corpo è soggetto dei sensi:
fa toccare, vedere, ascoltare, odorare, gustare. Ma soprattutto integra
e armonizza tutte le azioni e le passioni umane. È il luogo d’incontro
dei vissuti. Lo spazio in cui mi comprendo, mi conosco, mi riconosco. In
cui esisto e mi confronto con l’altro.
È con il corpo che si vive
l’avventura del nascere e del morire: della prima separazione che
consente di «venire» al mondo e dell’ultima che fa «andare» da questo
mondo. È con il corpo che si esperimenta la crescita e il divenire,
l’incontro e l’amore, il consumarsi e il decadere.
L’eucaristia è la parola del
corpo nel suo nutrirsi: una parola che fa dell’uomo e della donna e
della loro storia una realizzazione dell’amore filiale e fraterno.
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