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In principio Dio creò il corpo
dell’uomo e della donna: e lo fece non come per le altre cose create,
cioè dicendo: «Sia la luce… siano gli astri... sia il firmamento… la
terra brulichi…». Dio si inginocchiò e «plasmò l’uomo con il fango della
terra e soffiò nelle sue narici un alito di vita…» (Gen 2,8). E anche
per la donna: «Dio plasmò con la costola… una donna e la condusse
all’uomo» (Gen 2,22).
Se il nostro corpo è frutto di
questo lavoro con le mani di un Dio inginocchiato e plasmatore, come mai
questa secolare tradizione del disprezzo del corpo nel cristianesimo? E
ancora, se la stessa redenzione ha per fondamento il “farsi carne del
Verbo eterno”, perché tutta questa diffidenza per ciò che richiama la
carnalità: bellezza, pulsioni fisiche e psichiche, sessualità, relazioni
corporee?
Agli occhi di Dio la carne non
può essere volgare, se anche il suo Figlio ha voluto assumerla, viverla,
esaltarla, portarla con sé – per di più eternamente “piagata” – nel
mistero più segreto della vita trinitaria. Nell’identità corporea si è
realizzata la redenzione, non in una parvenza di corpo. Il corpo di Gesù
– il Figlio eterno venuto ad abitare fra noi – è fatto per ricevere e
dare, per accogliere e per cercare, per dire e per ascoltare: luogo per
eccellenza di incontro e di scontro, di alleanza e di promessa.
Nel suo corpo scheletrico e
ignudo, inchiodato alla croce, noi oggi contempliamo il Redentore
dell’universo: in quel corpo si riflettono milioni di corpi nudi,
sfigurati, irriconoscibili, e si proclama un giudizio severo sulla
società che li ha resi tali. Il ritorno al corpo nella riflessione
teologica e nella cultura attuale si presta per tutti noi a nuove e
originali considerazioni sul corpo che abbiamo e soprattutto sul “corpo
che siamo”.
Noi siamo
corpo
Dire che “noi abbiamo un corpo”
significa guardare all’umano come a una situazione dove si uniscono due
entità separate: l’anima come elemento nobile e privilegiato, senza
bisogno di spazio né rischio di corruzione. E poi il corpo, sottoposto
alla finitezza, alla fragilità, quasi un involucro che protegge l’anima,
ma anche la deve lasciare andare quando sarà il momento di morire.
Si tratta di una visione che al
cristianesimo è stata prestata dalla filosofia greca, ma che poi nel
decorso dei secoli è diventata così assoluta, che oggi sembra
impossibile scuoterla. Tanto più che attorno a questa visione dicotomica
si sono costruite quasi tutte le scuole di spiritualità, le utopie
popolari, i grandi schemi antropologici della grazia, perfino la stessa
concezione della Chiesa. Si pensi alla distinzione fra la parte visibile
e quella invisibile, la realtà sociale e quella del mistero, tutte
categorie che segnalano la trasposizione globale di una concezione
dualistica nata attorno al corpo come elemento fragile e di minore
valore.
Strana contraddizione: eppure la
nostra è la religione dell’incarnazione. Anzi, possiamo affermare che
non esiste altra religione così radicata nella carne umana quanto quella
cristiana. La stessa promessa della risurrezione, che altro è se non
l’affermazione di una grande dignità della corporeità, dell’esperienza
fondamentale intessuta di corporeità? Come diceva Guardini: «solo il
cristianesimo ha osato mettere il corpo nelle profondità più nascoste di
Dio».
Per questo dobbiamo dire che
“noi siamo corpo”: forma fisica e relazioni intessute di atti corporei
(corpo che vede, sente, parla, gusta, tocca). E tutto ciò che è “corpo”
e manifesta “corpo”, deve ridiventare esperienza cosciente, assunta,
appropriata. Anche la stessa differenza corporea – maschio e femmina –
sta diventando fonte e ispirazione di nuova coscienza, e non solo di
nuova curiosità.
E questa nuova coscienza non è
solo un “rumore di organi”, ma un rumore di pensieri e di valori, che ci
fanno vivere come “persone corporee”, e chiedono una nuova
appropriazione.
Il corpo
nella cultura contemporanea
L’emergenza del corpo è un dato
recente1
praticamente è andato apparendo attraverso il secolo appena trascorso,
consolidandosi negli ultimi decenni in forme variegate e a volte anche
neo-pagane. Lo prova l’ultima propaggine narcisista e dionisiaca del
corpo bello, raffinato, “nuovo”, esposto all’ammirazione. Da una nuova
cultura del corpo, si è così passati a un nuovo “culto del corpo”2.
Possiamo forse considerare come
vero esploratore della nuova coscienza sul corpo F. Nietzsche: per primo
si è reso conto che il capitalismo progressista e onnivoro, finiva per
negare il corpo, rendendolo solo strumento di produzione. Per questo il
filosofo esaltò il corpo come portatore di gioia, di autoelevazione, di
valori alternativi. Certamente nella società capitalistica il principio
era la funzionalità e la produzione: e il corpo ne veniva schiacciato.
La reazione a questa repressione è stata fatta attraverso la
rivalutazione dell’esperienza, dei desideri, del “personale” che è anche
“politico”. Alla precarietà anteriore si è sostituito il primato
dell’individualità: un movimento di controcultura, che ha cambiato molte
cose dal ’68 in poi.
Ma su questa posizione si era
avvicinato anche il neo-marxismo, che ha spostato il primato dalla
specie (come faceva il marxismo classico) all’individuo, riconoscendo
che la civiltà tecnologica finiva per alienarlo, e soprattutto per
negare il corpo nei consumi di massa. Di qui l’ insistenza sugli aspetti
ludici (come la danza), sulla liberazione dalla “logica del dominio”,
che prevale nelle lotte di classe e che rinchiude ideologicamente il
corpo nelle strutture repressive.
Un altro campo dove il corpo ha
fatto la sua irruzione rivoluzionaria è quello della fenomenologia: al
di là della visione ottocentesca che concepiva il corpo come un fascio
di meccanismi fisici, si è scoperta la capacità del corpo di significare
contenuti psichici rimossi, e quindi di essere un “corpo vissuto” come
impulso, desiderio, bisogni3.
In altre parole, per dirla con la filosofia esistenzialista – che pure
ha influito su questo punto – si tratta dell’assunzione del dramma del
mondo che mi attraversa e di confondermi con esso attraverso la
coscienza del corpo. Il corpo diviene così la cifra della totalità della
persona4.
Conseguenze e
nuovi orizzonti
Varie possono essere le
conseguenze di queste nuove letture sul senso del corpo: sia il
narcisismo, come nuovo stadio dell’individualismo, come “muscolazioni
dirette” per ottenere un “corpo” secondo le esigenze dell’apparire e
della “body experience”. Sia – in maniera più sofisticata –
l’esplorazione delle possibilità comunicative del corpo, considerato
come una riserva di segni e di gestualità legati alla cultura e anche
alla ricerca di trascendenza. Sia il vasto campo delle psicoterapie a
mediazione corporea che quello non meno esteso della medicalizzazione
del corpo nella pratiche mediche ufficiali e non ufficiali5.
In tutte domina comunque una
visione olistica, che richiede anche il superamento – pensiamo per
esempio nella medicina come scienza del corpo – delle mire
monopolizzatrici e della visione puramente mutilatrice (il corpo, un
pezzo tra gli altri). Merita un accenno particolare lo sviluppo di
queste conseguenze in alcuni ambiti. Anzitutto la nuova coscienza
femminile del corpo.
Scrive S. Spinsanti in un libro
non proprio recente: «La donna si riferisce al corpo in modo diverso
dall’uomo. Nell’insieme di ruoli e compiti che costituiscono le attese
sociali legate allo stereotipo femminile il rapporto col corpo è
prioritario. Essere donna rimanda al corpo. A quello degli altri,
anzitutto. E’ la donna che pensa alle necessità del corpo dei membri
della famiglia: nutre, pulisce, veste i bambini; accudisce i vecchi;
cura i malati. Tutte le necessità fisiche sono legate tacitamente alla
donna, in particolare all’interno del nucleo familiare… A differenza del
maschio la donna è tenuta a rivolgere una attenzione privilegiata al
corpo proprio. Anche questo è un imperativo legato allo stereotipo
sessuale. L’immaginario della nostra civilizzazione è modellato sul
corpo della donna»6.
Non c’è dubbio che la cultura
che abbiamo ereditato e che anche oggi dilaga fa del “corpo della
donna”, della sua bellezza o anche del suo fascino misterioso o
conturbante, una piattaforma del convivere. Ma proprio su questo punto è
esplosa nell’ultimo secolo una ribellione, o forse anche una
rivoluzione, che ha portato le donne a reclamare altri criteri di
relazioni sociali e di valutazione culturale. Riappropriarsi del corpo è
stata una delle grandi battaglie: realizzate e condotte con passione e a
volte anche con scandalo. Si pensi al diritto di abortire, alla
responsabilità nelle questioni relative alla gravidanza, alla nuova
concezione della sessualità come una delle varie espressioni
dell’intimità, e non tanto come strumento di procreazione.
Ma si pensi anche alla tendenza
a creare una cultura femminile separatista rispetto a quella
“maschilista” dominante: con punte di fanatismo e una grinta che rende
talune donne antipatiche e arrabbiate per principio. Non sempre questo è
segno positivo e fruttuoso: anche se si deve riconoscere che la nuova
coscienza femminile impone agli «uomini di rivedere il loro schemi
mentali, il loro modo di autocomprendersi, di collocarsi nella storia e
di interpretarla, di organizzare la vita sociale, politica, economica,
religiosa, ecclesiale» (VC 57).
Per quanto riguarda il corpo poi
il maschio si comporta con molta più noncuranza della donna. Per
qualcuno – come la psicanalista Christiane Olivier – la causa è
l’eccessivo attaccamento della madre al maschietto bambino. Per sfuggire
a questo desiderio possessivo, scrive Olivier, «il bambino rifiuterà
tutto ciò che riguarda il proprio corpo», proprio perché era il punto di
attrazione della madre. Per questo si concentra sulla fisicità esibita e
strumentalizzata: perdendo così un giusto rapporto anche con la fonte
dei suoi sentimenti e delle sue pulsioni, il corpo. Per questo gli
uomini si ammalano e muoiono prima, rifiutano di essere malati, stanno a
disagio nei gesti di tenerezza, misurano se stessi con la categoria del
dominio e della prepotenza (anche nella sessualità).
Due
situazioni spia: ammalarsi e invecchiare
E’ quando siamo malati, che ci
rendiamo conto che noi siamo corpo, e non soltanto che abbiamo un corpo:
e ad ammalarsi non è una parte di noi, ma tutta la nostra identità entra
in crisi. E ritornare sani non è soltanto riportare alla giusta
funzionalità un organo o una parte del corpo: ma è il senso di
godimento, di fruizione, di unità della persona. La salute è una
condizione di benessere globale, e non soltanto assenza di imperfezioni
o di malattie. E la malattia oggi si tende a descriverla come un
“viaggio”, attraversando angosce e tunnel oscuri, oppure come una
“lotta” non solo contro la carne ferita e umiliata, ma anche contro gli
orrori della fragilità e della morte che sopravviene.
La medicina tante volte tratta
invece malati e malattie come casi clinici, come incidenti da risanare,
come occasioni per mettere alla prova le proprie cognizioni e le abilità
tecniche. E così la persona malata viene dimenticata come persona, e
trattata come un fascio di reazioni meccaniche, prevedibili,
manipolabili. E’ questa “espropriazione” della propria dignità e della
propria persona che oggi fa orrore nelle strutture ospedaliere, ma anche
nelle situazioni più semplici in casa. Il famoso sociologo Ivan Illich
accusava la medicina di essere la più grande minaccia per la salute,
perché affida a una corporazione professionale un potere assoluto e
tecnico sui corpi malati. E così si travolgono le risorse naturali
dell’individuo e gli espedienti terapeutici della tradizione, come anche
tutte le risorse di umanità e di tenerezza che risvegliano sensazioni
vissute e aiutano a sentire il proprio corpo e a gestirlo come compito.
Altro settore in grande
evidenza nella nostra cultura è quello dell’invecchiare. Di fatto in
Occidente aumentano in misura inedita le persone anziane, si prolunga la
media della vita, specie per le donne, si fa di tutto per sfuggire alla
vecchiaia, quasi fosse una malattia contagiosa. Invecchiare non è un
incidente di percorso, ma fa parte della naturale evoluzione della vita:
anche se l’apparire dei “segni” della vecchiaia dipende dallo stile di
vita, dalla mentalità, dai contesti sociali. Anche nella vecchiaia il
corpo sembra prendere connotazioni diverse a seconda che si tratti di
una donna o di un uomo7.
Per la donna la cultura sembra
sottolineare di più la perdita della bellezza, il deterioramento proprio
di quel corpo che invece nella giovinezza ne faceva il pregio. Proprio
nel suo corpo la donna iscrive la sua vecchiaia: con la fase della
menopausa divenuta oggi oggetto di medicalizzazione accanita, con la
fine di quella che è considerata il vero motivo di prestigio, la
fecondità, con una letteratura che parla delle donne vecchie raramente
come belle (piuttosto si trovano le figure di streghe col corpo
contorto). La vecchiaia femminile sembra più penalizzata. Invece per
l’uomo c’è un immaginario di maggiore dignità: si parla di vegliardo, di
saggio, di autorità, di un corpo pieno di fascino, proprio perché
vecchio.
Eppure anche questa fase della
vita del corpo conosce una nuova ricognizione: in mille modi si cerca di
dare dignità e agilità ai corpi degli “anziani”, di conservare il più a
lungo possibile le risorse, i sentimenti, l’autonomia, anche il diritto
alla cultura, alla vita sociale, agli affetti e alla affettività,
sessuale compresa. Ma mentre l’uomo in genere si preoccupa della
immortalità – una discendenza, una scoperta scientifica, un’opera
letteraria, un ruolo di prestigio ricoperto – la donna non ha questa
ossessione, si concentra meglio sulla “formazione” delle persone, sulla
vita ben riuscita e non sui prodotti esterni. Per questo la donna è
mentalmente più flessibile, anche nella vecchiaia, rispetto all’uomo.
Lo stesso morire può acquisire
nuovi significati, come scrive C. Molari: «Se non si raggiunge questa
disposizione oblativa, l’uomo subisce la morte come un furto che gli
sottrae le cose che egli ritiene sue. In realtà nulla appartiene
all’uomo se non il suo nome, quello che fissa la sua identità
definitiva: il nome scritto nei cieli (cf Lc 10,20). Ma questa
disposizione non si acquisisce se non attraverso l’esercizio di un amore
gratuito e disinteressato. La morte chiede a ogni uomo di aver imparato
ad amare al punto di non trattenere nulla per sé, neppure il proprio
corpo e da sapere, quindi, consegnare tutto. L’esistenza perciò è
palestra per imparare ad amare in modo così oblativo da diventare
capace, nella morte, di offrire senza riserve ciò che la vita ci aveva
consegnato perché diventassimo definitivamente viventi»8.
Applicando
alla vita consacrata
Tutto il fascicolo mostrerà
quali conseguenze dirette e indirette – ma anche quali sfide e
provocazioni culturali – derivano ai grandi valori e alle grandi
esigenze della vita consacrata dalla nuova coscienza del corpo vissuta
da uomini e donne “consacrati”. La stessa esortazione postsinodale Vita
consecrata ha qua e là alcune annotazioni sul tema: certamente si tratta
di linguaggio che sembra più prossimo a quello dell’esperienza maschile
che a quello dell’esperienza femminile9.
Si veda per esempio quando si
parla di persone anziane o malate (VC 44), quando si descrivono le fasi
della vita e i diversi sentimenti che le accompagnano (VC 70), quando si
parla di cura dei malati (VC 83) o della testimonianza della castità in
una cultura edonistica (VC 88). Anche lo stesso accenno al «dono del
corpo» che si trova nel paragrafo sulle monache di clausura (VC 59),
sembra affermare più la negazione del corpo che una vera teologia del
corpo e della corporeità, come epifania del divino e come pienezza di
umanità10.
Di fatto noi siamo immersi in
questa nuova concezione del corpo, nella nuova coscienza di tutti nel
vivere il corpo e nel gestirne pulsioni e sensazioni. E anche da
consacrati questo ha delle influenze evidenti e delle esigenze inedite.
Si tratta di una costellazione di sfide e di impegni. Per esempio di
vivere la vita del corpo come obbedienza a Dio che ce l’ha donato come
valore e non come rischio; di accogliere la identità/differenza sessuale
non negandola o trascurandola, ma facendola fiorire in un processo di
identificazione che sappia assumerne tutte le risonanze (fisiche,
psichiche, intellettuali, sociali, emotive, spirituali) in maniera
positiva e costruttiva.
Si tratta di discernere nella
presentazione sociale del corpo, sia la profanazione della sua
mercificazione, specie per il corpo femminile (ma non solo), ma anche
una nuova socializzazione includente anche la corporeità in maniera più
visibile e determinante rispetto a prima. Si tratta ancora di
addestrarsi a essere se stessi come persone corporali e sessuate,
mettendo in gioco le differenze per una nuova danza della vita, senza
ritornare alle vecchie repressioni di emozioni e di ogni tipo di
tenerezza e di gioia vissuta nel corpo.
Si tratta anche di rileggere
nella stessa Parola, sia il Primo Testamento che il Vangelo, la
centralità della relazione corporale nel dialogo dell’alleanza. Gesù è
caratterizzato più dai gesti sui corpi e a favore dei corpi che dalla
dottrina11:
e proprio da questo intenso contatto con i corpi spesso nasce la “fede
grande”, sovente elogiata da Gesù stesso12.
Conclusione
In una parola si tratta di
realizzare quello che Paolo proclamava con forza, ma noi poi invece
l’abbiamo dimenticato volentieri: «Il nostro corpo è per il Signore e il
Signore è per il corpo» (1Cor 6,13). Rimuovere secoli di sospetti e
accuse alla corporeità non è facile, ma è questione di autenticità delle
nostra affermazione che «il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14) e che
aspettiamo «la risurrezione della carne» (Simbolo apostolico).
Eppure ci vuole questa nuova
teologia della corporeità, questa riaffermazione della nostra
provenienza, sul nostro essere «nati da donna», come lo si afferma anche
del Redentore (cf Gal 4,4): tutto il fascicolo ci aiuterà a completare
il discorso in varie prospettive e in molti dettagli. Si tratta di un
tema non usuale per la vita consacrata: ma la sua trattazione segnala
che dobbiamo sapere stare attenti alle nuove «provocazioni culturali»
(VC 87), per reagire da «sapienti recettori ed esperti comunicatori» (VC
99).
«Una teologia della corporeità
diffida di ogni spiritualità astratta, che prescinde dal corpo, dalla
vita, dalla terra e dalle relazioni sociali. Essa ha fiducia in ogni
corporeità, da cui parla uno spirito concreto, impegnato, mosso
dall’eros e riferito al cosmo. La mancanza di corporeità è mancanza di
amore»13.
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