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Il corpo è anzitutto
qualcosa di donato. Lo si riceve senza sia necessario l’intervento della
volontà. Oltre che donato però è anche qualcosa di affidato. E’
consegnato nelle nostre mani come un compito che va eseguito con impegno
morale. Se è concepito come compito, si presuppone che sia incompiuto.
Spetta al soggetto portarlo a termine.
Su questo particolare
ha attirato l’attenzione uno degli antropologi più qualificati: A.
Gehlen. La sua analisi muove dal principio che l’uomo nasce come un
abbozzo allo stato embrionale. Non si evolve automaticamente come un
animale o una pianta, la cui crescita è determinata dal funzionamento di
leggi biologiche. Spetta alla cultura e all’impegno del singolo
intervenire per completare l’opera lasciata in condizioni precarie dalla
natura. Come prodotto naturale il corpo umano difetta di istinti forti,
“è privo di organi difensivi naturali, ma anche d’una struttura somatica
atta alla fuga”. L’acutezza dei suoi sensi è inferiore a quella
dell’animale. Lasciato “nelle sue condizioni naturali, originarie…
l’uomo sarebbe già da gran tempo eliminato dalla faccia della terra”1
A far fronte alle sue
manchevolezze fisiche interviene con l’ingegno. E’ intraprendente,
lavora, trasforma, si organizza, crea istituzioni, sistemi economici,
assistenziali, apparati statali. La sua opera è diretta all’ambiente
esteriore, che trasforma in un mondo abitabile. Il risultato ultimo di
ogni sua iniziativa si ferma al corpo. L’uomo nasce ed è creato, ma poi
cresce ed è chiamato ad essere concreatore di se stesso. La sua opera
copre un ruolo essenziale.
Dal momento che non
gli bastano i sensi e gli istinti, deve lui stesso provvedere per creare
la sua identità corporea, cui arriva attraverso numerosi interventi,
partendo dal quotidiano, dalle azioni più comuni, come ad es. dal
vestito. Già questo particolare ha un chiaro significato antropologico
che ci riporta al principio di Gehlen: l’uomo viene al mondo come un
essere incompiuto ed è chiamato a gestire di propria iniziativa il
completamento di se stesso.
Per nascita il corpo
è nudo, ma poi passando per le nostre mani lo si veste. Non lo si
accetta allo stato grezzo così come ce lo consegna la natura. Lo si
vuole presentare nella convivenza secondo il proprio gusto. Se non lo si
può creare, lo si può però vestire, modificandolo e imprimendovi
l’immagine a noi più congeniale. Ma più ancora del vestito ad esprimere
il corpo è il moto, appreso con i primi passi del bambino e poi
sviluppato fino alle prestazioni del trapezista.
Addestramento del corpo
L’addestramento del
moto corporeo riveste particolare importanza sia per lo sviluppo
armonico dell’organismo sia per ragioni pedagogiche. Esso infatti
consolida la volontà e forma il carattere. Chi si sottopone a una fatica
e affronta un impegno gravoso non compie soltanto un esercizio fisico,
tempra anche la psiche, forgia se stesso, si mette alla prova, tira
fuori le forze che possiede. L’attività fisica prepara il giovane alla
vita. Gli fa conoscere il sacrificio, lo spinge ad affrontare ostacoli e
a sfidarli nel tentativo di vincerli. Alla vita si prepara,sia imparando
a non desistere alla comparsa della prima difficoltà, sia soprattutto
impossessandosi di qualità che senza lo stimolo della competizione non
sarebbero mai venute alla luce. Attraverso il corpo si arriva alla
scoperta di qualità morali: coraggio, volontà, costanza, fiducia e
fortezza.
Il corpo piegato nel
lavoro fornisce conoscenze che nessun libro o scuola può esibire. Dice
quello che si è di fatto. Nessun altro lo può dire. Solo il corpo con la
sofferenza dell’esperienza è in grado di comunicare l’essenziale
dell’esistenza. Si tratta di conformarsi e adeguarsi alla realtà
corporea e arrivare così alla propria identità2.
Dal momento poi che
ogni attività, lavorativa o sportiva, ci innesta nei rapporti
interpersonali, si ha l’occasione di sapersi confrontare con gli altri.
Il loro valore può essere superiore al proprio. E’ allora onesto saperlo
riconoscere. Particolarmente nell’esercizio sportivo si apprende una
lezione importante: l’arte del gentiluomo. Lo sport non si esaurisce nel
mietere trofei e strappare lodi e ammirazione. Al di là di tutto questo
si scopre in esso l’arte di vincere, ma non sempre questo è possibile,
anzi il più delle volte si impara, cosa ancora più importante, l’arte di
perdere, vincere se stessi e l’invidia, apprezzare la prestazione altrui
e riconoscerne il valore o la superiorità.
Si passa allora dalla
prestazione fisica ad altre doti di significato altamente umano. Senza
quasi avvedersene viene fuori l’uomo che sa soffrire, perdere,
partecipare e comunicare. Anche nell’innocuo esercizio fisico spunta il
corpo come realtà aperta ai valori più elevati dello spirito. Si
manifesta per quello che è: realtà spirituale. Si consegna a noi con la
sua abilità e con la sua umanità.
La psicologia nota
come lo sport compia una specie di catarsi. Fa defluire forze velenose e
aggressive, sublimandole e orientandole alla conquista di obiettivi
nobili. Se ora nell’attività fisica si coniugano assieme componenti
fisiche e morali, ci si imbatte con una corretta concezione della
salute. L’uomo per essere sano deve trovarsi in armonia con tutte le sue
facoltà: in corpo e anima. Non può dirsi sano chi si trova in conflitto
con gli altri, nonostante si senta fisicamente bene. All’integrità
fisica deve associarsi la serenità e l’equilibrio interiore.
Se vero sportivo è
colui che impara a vincere e a perdere, si compiace della propria e
dell’altrui vittoria e mostra lealtà nella competizione, va detto allora
che lo sport fa di lui un uomo sano. Egli è certo un uomo che possiede
vigoria fisica, resistenza e tenacia nella fatica, ma è anche un
gentiluomo che misurandosi con gli altri non lo fa solo per vincere la
gara, ma per il piacere di prendervi parte e scoprirsi capace di certe
prestazioni.
Sport e ogni altra
attività fisica è la possibilità di far qualcosa di sé, di vivere il
proprio corpo appunto come compito da promuovere. Non ci si accetta solo
come natura, si vuole trarre da essa qualcosa che è possibile solo con
la propria volontà3.
E’ anche questo un modo per trovare l’assestamento nella vita, sentirsi
contenti per non aver lasciato languire nell’indolenza tutte le proprie
capacità. Noto però che ogni attività, ordinata a un obiettivo, ha un
presupposto imprescindibile: l’esercizio ascetico, partendo dal quale è
possibile avviare un processo di liberazione del corpo.
Disciplina e liberazione del corpo
E’ diffusa nella
nostra cultura l’idea che l’ascesi sia un esercizio punitivo o un
castigo e la si confonde con la repressione. E’ un errore dal quale ci
si dovrà ricredere. Non c’è cosa nelle mani dell’uomo che non porti
caratteri equivoci, non c’è cosa che sia innocente. A questa sorte non
si sottrae il corpo. In esso si trovano tendenze che spingono al bene e
impulsi che trascinano al disordine. Per uscire dall’ambiguità è
imprescindibile l’esercizio ascetico. Una lunga tradizione che va da
Pitagora a Schopenhauer ha guardato con diffidenza il corpo, definendolo
carcere dell’anima. Ora i termini si invertono. E’ lo spirito che è
carcere del corpo e l’opprime con un cumulo di divieti, prescrizioni,
obblighi morali, etichette sociali. Si finisce così per passare da un
estremo all’altro. A dispetto di ogni estremismo per ritrovare
l’equilibrio perduto non si dà altra via se non la vecchia ricetta
dell’ascesi.
Non è vero che essa
umilia e imprigiona il corpo, anzi è proprio il contrario: lo libera.
Non è risparmiandolo dal rigore disciplinare che lo si emancipa, anzi
non si fa altro che preparargli ulteriori catene, abbandonandolo in
balia degli istinti. La libertà non si riferisce solo ai principi
democratici della locomozione, della stampa, degli interscambi, ma alla
possibilità di rispondere ai bisogni reali del corpo, slegandosi dalle
forze che obbediscono ai fini del sistema4.
Il corpo è tanto libero in quanto è in grado di scegliere dei valori. Ma
per riuscirci non può concedersi il lusso di eludere l’appuntamento con
delle restrizioni. La cosa è chiara per lo stesso Freud. Il rapporto:
principio di realtà e di piacere chiede misura ed equilibrio. Il
prevalere del principio piacere si fa pagare con la decadenza della
civiltà.
Non è della stessa
opinione il discepolo Marcuse. Senza esitazioni lamenta nell’attuale
contesto sociale la scomparsa del principio piacere, soffocato dalla
tirannia della produzione. Il corpo è sottoposto a uno sfruttamento
umiliante. “L’aspirazione erotica a fare del corpo intero un
soggetto-oggetto di piacere, richiede un raffinamento continuo
dell’organismo, una sua più intensa recettività, un aumento della
sensualità”5.
L’affermazione, estrapolata dal suo contesto, potrebbe essere equivocata
e far pensare a un arbitrario sfogo della vita istintuale. Anzitutto
Marcuse ha una concezione dell’eros molto ampia, tale da includere tutte
le energie di cui dispone il corpo, non esclusa la fantasia, l’interesse
culturale, l’emozione artistica, il sentimento morale, la festa, il
riposo e l’attività ludica. Analogamente il piacere non è l’esperienza
edonistica del libertino, esso è esteso all’intera gamma delle attività
in cui il corpo fa da protagonista. Dice la partecipazione del corpo
nell’attività lavorativa, nella contemplazione d’un quadro, nello svago,
nella lettura d’una poesia o d’un romanzo, nel coltivare interessi
culturali. Tenuto conto di tutto questo la liberazione sulla quale punta
Marcuse non si compie in una sfrenata corsa edonistica. Ha anch’essa la
sua misura e regolamento morale che non viene però ben definito. E’
lotta contro ogni forma di tirannia ordita ai danni del corpo.
Non si può
misconoscere che per appagare i bisogni umani è necessaria l’attività
lavorativa e già questo fatto impone delle restrizioni. Ci si chiede
però se esse, così come sono presenti nell’attuale quadro sociale, non
siano eccessive. Marcuse non ha alcun dubbio in proposito. Oggi si vive
nella repressione, dovuta non tanto al lavoro in sé, quanto al sistema
organizzativo6.
Il corpo è visto solo come strumento di prestazione, il suo valore è
commisurato alla sua “capacità di creare, accrescere e migliorare
oggetti socialmente utili”7.
Qualsiasi comportamento: gioco, lavoro, consumi, rapporti
interpersonali, è asservito all’affermazione del sistema.
Si capisce come
l’attività lavorativa sia frustrante, monotona e demotivata. Il corpo
resta estraneo a quanto compie, nel posto che occupa all’interno della
società si sente come in terra di esilio, non prova alcun piacere, ha la
percezione di perdere la sua sostanza anziché realizzarla. Finché nel
lavoro incontra solo fatica, è alienato. La liberazione avviene là
quando finalmente ama ciò che compie e ne è contento. Sarebbe troppo
poco confinare il piacere alle ore del tempo libero e del riposo o
all’appagamento di desideri, la maggior parte dei quali sono indotti.
Si capisce ancora
come la libertà sessuale non sia altro che la caduta in forme di
schiavitù umilianti. Si crede d’essersi finalmente scrollati di dosso
dei gioghi, perché il piacere diventa più facile e lo si può scegliere
senza remore e senso di colpa. In realtà si soggiace a un equivoco. Non
si distingue libertà di scelta e libertà di scegliere un valore.
L’attuale libertà del sesso non è frutto di scelte, è spinta di istinto.
Non si pone neppure la questione del valore. Il corpo funziona come una
macchina che fornisce piaceri, è depersonalizzato, perché incapace di
amare autenticamente. Una libertà che stacca il sesso dall’amore è una
truffa. “Quanto più disponibile è il sesso tanto più esso si svuota di
qualsiasi significato e a volte perfino di piacere”8.
Allora il corpo non è più se stesso, essere dotato di valori, ma uno
strumento d’uso e consumo. Si pensa d’aver liberato il corpo e i suoi
istinti perché si sono sottratti alla norma morale, ma gli si è tolto il
suo principio regolatore, creando insicurezze.
Il gioco di cui si è
vittime non lascia scampo e quel che è peggio è subdolo. Si nasconde
sotto parvenze di libertà, perché offre molti diversivi e viene incontro
ad altrettanti bisogni. Non ci si accorge che questi sono indotti
artificialmente, sicché si inaugura un sistema perverso che mentre
produce, crea bisogni e mentre li crea, si assicura il consumo della
merce prodotta.
In questa spira si
trova il corpo, cui è negato quel diritto elementare che apparentemente
è più difeso e caldeggiato: la libertà. In suo nome viene presentata una
gamma di desideri da appagare, di fatto però si vive in una falsa
libertà. Il soggetto è convinto d’essere libero perché colma i suoi
desideri materiali, e non di accorge che su di lui domina il sistema.
Marcuse si propone di smascherare i giochi ingannevoli messi in atto
dalla società borghese e liberare il corpo da ogni soggezione. Egli
parla di lotta.
Viene da chiedersi se
questo urto contro la tirannide del sistema che mette tutto in ginocchio
è possibile senza fatiche, sacrifici o restrizioni. Ricompare proprio
ciò che viene stigmatizzato: l’ascesi. Se si parla di liberazione del
corpo e la si ritiene realizzabile da un principio spontaneo, intrinseco
al corpo e a ogni sua attività, si incorre in un linguaggio fumoso e
vago. E’ più che legittima l’aspirazione di liberare sempre più il corpo
da ogni forma di repressione, non si può però liberarlo dall’ascesi9.
Essa infatti costituisce il presupposto d’ogni vera e reale
emancipazione. Al di fuori di essa si è nell’ideologia e nel mondo dei
sogni e si sa che con i sogni per lo più ci si illude e non si arriva
certo ad alcuna liberazione né dello spirito, né della psiche e tanto
meno del corpo.
Custodia e cura del corpo
La liberazione del
corpo, proposta da Marcuse, presenta riflessioni stimolanti, ma resta
utopistica e per niente adattabile alla portata del quotidiano. Più
concreto e aderente alla nostra esperienza è il compito di custodire e
curare il corpo, dato che esso è di continuo esposto a infermità. Non
basta liberarlo dalla soggezione del guadagno, dalla repressioni
sociali, dai tabù o dal principio di realtà, più urgente ancora è il
dovere di custodirlo ed eventualmente curarlo nel caso incorra in
malattie. Il corpo incompiuto è anche un corpo infermo e sofferente.
Nella sua gestione
occupa un posto l’atto del custodire, che si esplica nel difendere,
proteggere, amare e essere amici. Il linguaggio si fa ambiguo. Noi non
possiamo essere amici del corpo, perché siamo corpo e allo stesso modo
non è corretto dire di difenderlo o gestirlo. D’altra parte non è
possibile evitare questo linguaggio approssimativo, è bene rendersene
conto.
Non c’è oggetto nel
mondo che per sussistere non richieda protezione. Tutto ripiega verso la
deriva e si logora. Questo vale in particolare del corpo. L’intero suo
essere è come sospeso, in attesa di essere indirizzato verso obiettivi
che lo promuovono. La custodia è la risposta all’essere in pericolo,
dischiude gli occhi all’universo precario, del quale si fa parte. Si è
tentati di dimenticare la condizione di incertezza e rischio costitutiva
dell’uomo. A ricordarlo interviene il corpo. Esso è inconcepibile al di
fuori d’un’opera di protezione. La crescita o decrescita non avvengono
mai entro schemi precostituiti, urtano di continuo con ostacoli che ne
compromettono l’equilibrio, abbisognano perciò d’una mano che faccia da
guida e da scudo protettivo.
La tradizione
cristiana parla d’un angelo custode, immagine particolarmente sfruttata
da Hölderlin e Rilke. Per mandato divino a lui spetta la salvaguardia
dalle minacce: guidare, rassicurare, infondere fiducia nei pericoli in
cui di continuo incorre il corpo. Lo si pensa soprattutto vicino alla
più fragile delle creature: al bambino che attraversa la delicata fase
della crescita. Ogni suo passo si muove su un terreno insidioso. Troppo
rude per la sua tenera costituzione la realtà del mondo con la quale
deve misurarsi. Ha bisogno di aiuto e protezione. Dal tepore del seno
materno passa alla freddezza del seno sociale e il salto non può non
essere traumatico.
Il simbolo cristiano
dell’angelo è carico di significati, che alludono alla pagina oscura
dell’esistenza e d’altra parte all’insufficienza del singolo. Per quanto
questo si dia da fare dovrà riconoscere la sua inadeguatezza nel far
fronte ai disagi della vita, si apre perciò all’invocazione di forze
superiori. Il compito della custodia assume allora un significato
religioso. Nell’immagine dell’angelo è sottintesa l’idea del cammino
verso l’ignoto, l’idea del passo falso, che mette ansia. Al timore si
contrappone la fiducia che, nonostante tutto, a proprio fianco c’è chi
dirige il passo incerto.
Il corpo è realtà
contingente, che si ripropone ogni giorno con la fame, la sete, il
freddo. Ha bisogno d’una casa che lo difenda, d’un giaciglio su cui
distendersi nel sonno. E su tutto vegliano i “custodi’, che Hölderlin
chiama anche “angeli della casa”, incaricati a conservare le cose
intatte nella verità. Il custode continua l’opera materna, offre al
corpo la protezione di cui ha bisogno in ogni età della vita, ma
soprattutto nella vecchiaia e nella infermità.
Si passa allora dal
custodire al curare, operazioni ambedue correlate tra loro,
specificatamente femminili e materne. Proprio della madre è partorire ma
siccome all’evento della nascita fanno seguito i gesti della cura, le è
altrettanto proprio il curare. Nell’uno e nell’altro caso non si dà solo
un custodire da pericoli, si dà pure un donare. Si sa che la cura è
compito del medico, ma prima ancora lo è della madre. Quello procede con
l’aiuto della scienza, questa con la spinta dell’amore, entrambi puntano
alla salute, entrambi sono necessari.
La cura è gesto
corporeo per eccellenza, perché parte dal corpo e al corpo si dirige.
Per lo più è associata alla mano, che del corpo rappresenta uno degli
organi più qualificanti. E’ un prolungamento del cuore. Attraverso di
essa passano sentimenti delicati: tenerezza, vicinanza, solidarietà,
sacrificio e servizio. Essa è la grande protagonista della storia
quotidiana. E’ rivolta a quella realtà modesta che la mente e il
pensiero tendono a dimenticare. L’uomo vive certo di grandi ideali, in
prima linea lotta per la giustizia e la libertà, ma anche i valori più
elevati devono fare i conti con le operazioni umili del quotidiano. Cosa
sarebbero giustizia e libertà se non si soccorresse chi è infermo o
affamato? La cura ha occhi per le cose abitualmente presupposte ma non
avvertite.
La sua è la vocazione
al servizio del corpo infermo. Apre perciò il mondo della sofferenza che
di solito si rimuove, perché mortifica i sogni di conquiste e successi.
Ci abbassa alla materialità della carne, là dove essa diventa
prigioniera ed è inchiodata ad un letto. A fatica si pensa a un Kant
seduto tremante alla sua scrivania, preso dal timore che la fiammella
della candela provochi un incendio oppure a un Cartesio frebbricitante
sul letto di morte. Le riflessioni di questi grandi pensatori ci fanno
dimenticare il loro corpo fragile e bisognoso di cure. Erano uomini
dalla mente eccelsa, eppure la loro sorte è decisa anche dal corpo10.
Gestire il corpo è
un compito che si risolve incominciando dal vestire, dall’educazione al
moto e su su fino ad avviare un processo di liberazione da forze
repressive e in particolare dai disagi di disturbi fisici ricorrendo a
misure di protezione e a cure. Mai però la gestione del corpo si fa
tanto responsabile come quando esso ammala indipendentemente se il
disturbo colpisce se stessi o l’altro. Nella gestione infatti c’è amore
e pietà, che portano alla condivisione del dolore universale.
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