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n. 1 del 2003

 

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La gestione responsabile del corpo
di Mario Bizzotto
 

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Il corpo è anzitutto qualcosa di donato. Lo si riceve senza sia necessario l’intervento della volontà. Oltre che donato però è anche qualcosa di affidato. E’ consegnato nelle nostre mani come un compito che va eseguito con impegno morale. Se è concepito come compito, si presuppone che sia incompiuto. Spetta al soggetto portarlo a termine.

Su questo particolare ha attirato l’attenzione uno degli antropologi più qualificati: A. Gehlen. La sua analisi muove dal principio che l’uomo nasce come un abbozzo allo stato embrionale. Non si evolve automaticamente come un animale o una pianta, la cui crescita è determinata dal funzionamento di leggi biologiche. Spetta alla cultura e all’impegno del singolo intervenire per completare l’opera lasciata in condizioni precarie dalla natura. Come prodotto naturale il corpo umano difetta di istinti forti, “è privo di organi difensivi naturali, ma anche d’una struttura somatica atta alla fuga”. L’acutezza dei suoi sensi è inferiore a quella dell’animale. Lasciato “nelle sue condizioni naturali, originarie… l’uomo sarebbe già da gran tempo eliminato dalla faccia della terra”1

A far fronte alle sue manchevolezze fisiche interviene con l’ingegno. E’ intraprendente, lavora, trasforma, si organizza, crea istituzioni, sistemi economici, assistenziali, apparati statali. La sua opera è diretta all’ambiente esteriore, che trasforma in un mondo abitabile. Il risultato ultimo di ogni sua iniziativa si ferma al corpo. L’uomo nasce ed è creato, ma poi cresce ed è chiamato ad essere concreatore di se stesso. La sua opera copre un ruolo essenziale.

Dal momento che non gli bastano i sensi e gli istinti, deve lui stesso provvedere per creare la sua identità corporea, cui arriva attraverso numerosi interventi, partendo dal quotidiano, dalle azioni più comuni, come ad es. dal vestito. Già questo particolare ha un chiaro significato antropologico che ci riporta al principio di Gehlen: l’uomo viene al mondo come un essere incompiuto ed è chiamato a gestire di propria iniziativa il completamento di se stesso.

Per nascita il corpo è nudo, ma poi passando per le nostre mani lo si veste. Non lo si accetta allo stato grezzo così come ce lo consegna la natura. Lo si vuole presentare nella convivenza secondo il proprio gusto. Se non lo si può creare, lo si può però vestire, modificandolo e imprimendovi l’immagine a noi più congeniale. Ma più ancora del vestito ad esprimere il corpo è il moto, appreso con i primi passi del bambino e poi sviluppato fino alle prestazioni del trapezista.

  

Addestramento del corpo

 L’addestramento del moto corporeo riveste particolare importanza sia per lo sviluppo armonico dell’organismo sia per ragioni pedagogiche. Esso infatti consolida la volontà e forma il carattere. Chi si sottopone a una fatica e affronta un impegno gravoso non compie soltanto un esercizio fisico, tempra anche la psiche, forgia se stesso, si mette alla prova, tira fuori le forze che possiede. L’attività fisica prepara il giovane alla vita. Gli fa conoscere il sacrificio, lo spinge ad affrontare ostacoli e a sfidarli nel tentativo di vincerli. Alla vita si prepara,sia imparando a non desistere alla comparsa della prima difficoltà, sia soprattutto impossessandosi di qualità che senza lo stimolo della competizione non sarebbero mai venute alla luce. Attraverso il corpo si arriva alla scoperta di qualità morali: coraggio, volontà, costanza, fiducia e fortezza.

Il corpo piegato nel lavoro fornisce conoscenze che nessun libro o scuola può esibire. Dice quello che si è di fatto. Nessun altro lo può dire. Solo il corpo con la sofferenza dell’esperienza è in grado di comunicare l’essenziale dell’esistenza. Si tratta di conformarsi e adeguarsi alla realtà corporea e arrivare così alla propria identità2.

Dal momento poi che ogni attività, lavorativa o sportiva, ci innesta nei rapporti interpersonali, si ha l’occasione di sapersi confrontare con gli altri. Il loro valore può essere superiore al proprio. E’ allora onesto saperlo riconoscere. Particolarmente nell’esercizio sportivo si apprende una lezione importante: l’arte del gentiluomo. Lo sport non si esaurisce nel mietere trofei e strappare lodi e ammirazione. Al di là di tutto questo si scopre in esso l’arte di vincere, ma non sempre questo è possibile, anzi il più delle volte si impara, cosa ancora più importante, l’arte di perdere, vincere se stessi e l’invidia, apprezzare la prestazione altrui e riconoscerne il valore o la superiorità.

Si passa allora dalla prestazione fisica ad altre doti di significato altamente umano. Senza quasi avvedersene viene fuori l’uomo che sa soffrire, perdere, partecipare e comunicare. Anche nell’innocuo esercizio fisico spunta il corpo come realtà aperta ai valori più elevati dello spirito. Si manifesta per quello che è: realtà spirituale. Si consegna a noi con la sua abilità e con la sua umanità.

La psicologia nota come lo sport compia una specie di catarsi. Fa defluire forze velenose e aggressive, sublimandole e orientandole alla conquista di obiettivi nobili. Se ora nell’attività fisica si coniugano assieme componenti fisiche e morali, ci si imbatte con una corretta concezione della salute. L’uomo per essere sano deve trovarsi in armonia con tutte le sue facoltà: in corpo e anima. Non può dirsi sano chi si trova in conflitto con gli altri, nonostante si senta fisicamente bene. All’integrità fisica deve associarsi la serenità e l’equilibrio interiore.

Se vero sportivo è colui che impara a vincere e a perdere, si compiace della propria e dell’altrui vittoria e mostra lealtà nella competizione, va detto allora che lo sport fa di lui un uomo sano. Egli è certo un uomo che possiede vigoria fisica, resistenza e tenacia nella fatica, ma è anche un gentiluomo che misurandosi con gli altri non lo fa solo per vincere la gara, ma per il piacere di prendervi parte e scoprirsi capace di certe prestazioni.

Sport e ogni altra attività fisica è la possibilità di far qualcosa di sé, di vivere il proprio corpo appunto come compito da promuovere. Non ci si accetta solo come natura, si vuole trarre da essa qualcosa che è possibile solo con la propria volontà3. E’ anche questo un modo per trovare l’assestamento nella vita, sentirsi contenti per non aver lasciato languire nell’indolenza tutte le proprie capacità. Noto però che ogni attività, ordinata a un obiettivo, ha un presupposto imprescindibile: l’esercizio ascetico, partendo dal quale è possibile avviare un processo di liberazione del corpo.

 

Disciplina e liberazione del corpo

 E’ diffusa nella nostra cultura l’idea che l’ascesi sia un esercizio punitivo o un castigo e la si confonde con la repressione. E’ un errore dal quale ci si dovrà ricredere. Non c’è cosa nelle mani dell’uomo che non porti caratteri equivoci, non c’è cosa che sia innocente. A questa sorte non si sottrae il corpo. In esso si trovano tendenze che spingono al bene e impulsi che trascinano al disordine. Per uscire dall’ambiguità è imprescindibile l’esercizio ascetico. Una lunga tradizione che va da Pitagora a Schopenhauer ha guardato con diffidenza il corpo, definendolo carcere dell’anima. Ora i termini si invertono. E’ lo spirito che è carcere del corpo e l’opprime con un cumulo di divieti, prescrizioni, obblighi morali, etichette sociali. Si finisce così per passare da un estremo all’altro. A dispetto di ogni estremismo per ritrovare l’equilibrio perduto non si dà altra via se non la vecchia ricetta dell’ascesi.

Non è vero che essa umilia e imprigiona il corpo, anzi è proprio il contrario: lo libera. Non è risparmiandolo dal rigore disciplinare che lo si emancipa, anzi non si fa altro che preparargli ulteriori catene, abbandonandolo in balia degli istinti. La libertà non si riferisce solo ai principi democratici della locomozione, della stampa, degli interscambi, ma alla possibilità di rispondere ai bisogni reali del corpo, slegandosi dalle forze che obbediscono ai fini del sistema4. Il corpo è tanto libero in quanto è in grado di scegliere dei valori. Ma per riuscirci non può concedersi il lusso di eludere l’appuntamento con delle restrizioni. La cosa è chiara per lo stesso Freud. Il rapporto: principio di realtà e di piacere chiede misura ed equilibrio. Il prevalere del principio piacere si fa pagare con la decadenza della civiltà.

Non è della stessa opinione il discepolo Marcuse. Senza esitazioni lamenta nell’attuale contesto sociale la scomparsa del principio piacere, soffocato dalla tirannia della produzione. Il corpo è sottoposto a uno sfruttamento umiliante. “L’aspirazione erotica a fare del corpo intero un soggetto-oggetto di piacere, richiede un raffinamento continuo dell’organismo, una sua più intensa recettività, un aumento della sensualità”5. L’affermazione, estrapolata dal suo contesto, potrebbe essere equivocata e far pensare a un arbitrario sfogo della vita istintuale. Anzitutto Marcuse ha una concezione dell’eros molto ampia, tale da includere tutte le energie di cui dispone il corpo, non esclusa la fantasia, l’interesse culturale, l’emozione artistica, il sentimento morale, la festa, il riposo e l’attività ludica. Analogamente il piacere non è l’esperienza edonistica del libertino, esso è esteso all’intera gamma delle attività in cui il corpo fa da protagonista. Dice la partecipazione del corpo nell’attività lavorativa, nella contemplazione d’un quadro, nello svago, nella lettura d’una poesia o d’un romanzo, nel coltivare interessi culturali. Tenuto conto di tutto questo la liberazione sulla quale punta Marcuse non si compie in una sfrenata corsa edonistica. Ha anch’essa la sua misura e regolamento morale che non viene però ben definito. E’ lotta contro ogni forma di tirannia ordita ai danni del corpo.

Non si può misconoscere che per appagare i bisogni umani è necessaria l’attività lavorativa e già questo fatto impone delle restrizioni. Ci si chiede però se esse, così come sono presenti nell’attuale quadro sociale, non siano eccessive. Marcuse non ha alcun dubbio in proposito. Oggi si vive nella repressione, dovuta non tanto al lavoro in sé, quanto al sistema organizzativo6. Il corpo è visto solo come strumento di prestazione, il suo valore è commisurato alla sua “capacità di creare, accrescere e migliorare oggetti socialmente utili”7. Qualsiasi comportamento: gioco, lavoro, consumi, rapporti interpersonali, è asservito all’affermazione del sistema.

Si capisce come l’attività lavorativa sia frustrante, monotona e demotivata. Il corpo resta estraneo a quanto compie, nel posto che occupa all’interno della società si sente come in terra di esilio, non prova alcun piacere, ha la percezione di perdere la sua sostanza anziché realizzarla. Finché nel lavoro incontra solo fatica, è alienato. La liberazione avviene là quando finalmente ama ciò che compie e ne è contento. Sarebbe troppo poco confinare il piacere alle ore del tempo libero e del riposo o all’appagamento di desideri, la maggior parte dei quali sono indotti.

Si capisce ancora come la libertà sessuale non sia altro che la caduta in forme di schiavitù umilianti. Si crede d’essersi finalmente scrollati di dosso dei gioghi, perché il piacere diventa più facile e lo si può scegliere senza remore e senso di colpa. In realtà si soggiace a un equivoco. Non si distingue libertà di scelta e libertà di scegliere un valore. L’attuale libertà del sesso non è frutto di scelte, è spinta di istinto. Non si pone neppure la questione del valore. Il corpo funziona come una macchina che fornisce piaceri, è depersonalizzato, perché incapace di amare autenticamente. Una libertà che stacca il sesso dall’amore è una truffa. “Quanto più disponibile è il sesso tanto più esso si svuota di qualsiasi significato e a volte perfino di piacere”8. Allora il corpo non è più se stesso, essere dotato di valori, ma uno strumento d’uso e consumo. Si pensa d’aver liberato il corpo e i suoi istinti perché si sono sottratti alla norma morale, ma gli si è tolto il suo principio regolatore, creando insicurezze.

Il gioco di cui si è vittime non lascia scampo e quel che è peggio è subdolo. Si nasconde sotto parvenze di libertà, perché offre molti diversivi e viene incontro ad altrettanti bisogni. Non ci si accorge che questi sono indotti artificialmente, sicché si inaugura un sistema perverso che mentre produce, crea bisogni e mentre li crea, si assicura il consumo della merce prodotta.

In questa spira si trova il corpo, cui è negato quel diritto elementare che apparentemente è più difeso e caldeggiato: la libertà. In suo nome viene presentata una gamma di desideri da appagare, di fatto però si vive in una falsa libertà. Il soggetto è convinto d’essere libero perché colma i suoi desideri materiali, e non di accorge che su di lui domina il sistema. Marcuse si propone di smascherare i giochi ingannevoli messi in atto dalla società borghese e liberare il corpo da ogni soggezione. Egli parla di lotta.

Viene da chiedersi se questo urto contro la tirannide del sistema che mette tutto in ginocchio è possibile senza fatiche, sacrifici o restrizioni. Ricompare proprio ciò che viene stigmatizzato: l’ascesi. Se si parla di liberazione del corpo e la si ritiene realizzabile da un principio spontaneo, intrinseco al corpo e a ogni sua attività, si incorre in un linguaggio fumoso e vago. E’ più che legittima l’aspirazione di liberare sempre più il corpo da ogni forma di repressione, non si può però liberarlo dall’ascesi9. Essa infatti costituisce il presupposto d’ogni vera e reale emancipazione. Al di fuori di essa si è nell’ideologia e nel mondo dei sogni e si sa che con i sogni per lo più ci si illude e non si arriva certo ad alcuna liberazione né dello spirito, né della psiche e tanto meno del corpo.

 

Custodia e cura del corpo

 La liberazione del corpo, proposta da Marcuse, presenta riflessioni stimolanti, ma resta utopistica e per niente adattabile alla portata del quotidiano. Più concreto e aderente alla nostra esperienza è il compito di custodire e curare il corpo, dato che esso è di continuo esposto a infermità. Non basta liberarlo dalla soggezione del guadagno, dalla repressioni sociali, dai tabù o dal principio di realtà, più urgente ancora è il dovere di custodirlo ed eventualmente curarlo nel caso incorra in malattie. Il corpo incompiuto è anche un corpo infermo e sofferente.

 Nella sua gestione occupa un posto l’atto del custodire, che si esplica nel difendere, proteggere, amare e essere amici. Il linguaggio si fa ambiguo. Noi non possiamo essere amici del corpo, perché siamo corpo e allo stesso modo non è corretto dire di difenderlo o gestirlo. D’altra parte non è possibile evitare questo linguaggio approssimativo, è bene rendersene conto.

 Non c’è oggetto nel mondo che per sussistere non richieda protezione. Tutto ripiega verso la deriva e si logora. Questo vale in particolare del corpo. L’intero suo essere è come sospeso, in attesa di essere indirizzato verso obiettivi che lo promuovono. La custodia è la risposta all’essere in pericolo, dischiude gli occhi all’universo precario, del quale si fa parte. Si è tentati di dimenticare la condizione di incertezza e rischio costitutiva dell’uomo. A ricordarlo interviene il corpo. Esso è inconcepibile al di fuori d’un’opera di protezione. La crescita o decrescita non avvengono mai entro schemi precostituiti, urtano di continuo con ostacoli che ne compromettono l’equilibrio, abbisognano perciò d’una mano che faccia da guida e da scudo protettivo.

 La tradizione cristiana parla d’un angelo custode, immagine particolarmente sfruttata da Hölderlin e Rilke. Per mandato divino a lui spetta la salvaguardia dalle minacce: guidare, rassicurare, infondere fiducia nei pericoli in cui di continuo incorre il corpo. Lo si pensa soprattutto vicino alla più fragile delle creature: al bambino che attraversa la delicata fase della crescita. Ogni suo passo si muove su un terreno insidioso. Troppo rude per la sua tenera costituzione la realtà del mondo con la quale deve misurarsi. Ha bisogno di aiuto e protezione. Dal tepore del seno materno passa alla freddezza del seno sociale e il salto non può non essere traumatico.

 Il simbolo cristiano dell’angelo è carico di significati, che alludono alla pagina oscura dell’esistenza e d’altra parte all’insufficienza del singolo. Per quanto questo si dia da fare dovrà riconoscere la sua inadeguatezza nel far fronte ai disagi della vita, si apre perciò all’invocazione di forze superiori. Il compito della custodia assume allora un significato religioso. Nell’immagine dell’angelo è sottintesa l’idea del cammino verso l’ignoto, l’idea del passo falso, che mette ansia. Al timore si contrappone la fiducia che, nonostante tutto, a proprio fianco c’è chi dirige il passo incerto.

Il corpo è realtà contingente, che si ripropone ogni giorno con la fame, la sete, il freddo. Ha bisogno d’una casa che lo difenda, d’un giaciglio su cui distendersi nel sonno. E su tutto vegliano i “custodi’, che Hölderlin chiama anche “angeli della casa”, incaricati a conservare le cose intatte nella verità. Il custode continua l’opera materna, offre al corpo la protezione di cui ha bisogno in ogni età della vita, ma soprattutto nella vecchiaia e nella infermità.

 Si passa allora dal custodire al curare, operazioni ambedue correlate tra loro, specificatamente femminili e materne. Proprio della madre è partorire ma siccome all’evento della nascita fanno seguito i gesti della cura, le è altrettanto proprio il curare. Nell’uno e nell’altro caso non si dà solo un custodire da pericoli, si dà pure un donare. Si sa che la cura è compito del medico, ma prima ancora lo è della madre. Quello procede con l’aiuto della scienza, questa con la spinta dell’amore, entrambi puntano alla salute, entrambi sono necessari.

La cura è gesto corporeo per eccellenza, perché parte dal corpo e al corpo si dirige. Per lo più è associata alla mano, che del corpo rappresenta uno degli organi più qualificanti. E’ un prolungamento del cuore. Attraverso di essa passano sentimenti delicati: tenerezza, vicinanza, solidarietà, sacrificio e servizio. Essa è la grande protagonista della storia quotidiana. E’ rivolta a quella realtà modesta che la mente e il pensiero tendono a dimenticare. L’uomo vive certo di grandi ideali, in prima linea lotta per la giustizia e la libertà, ma anche i valori più elevati devono fare i conti con le operazioni umili del quotidiano. Cosa sarebbero giustizia e libertà se non si soccorresse chi è infermo o affamato? La cura ha occhi per le cose abitualmente presupposte ma non avvertite.

La sua è la vocazione al servizio del corpo infermo. Apre perciò il mondo della sofferenza che di solito si rimuove, perché mortifica i sogni di conquiste e successi. Ci abbassa alla materialità della carne, là dove essa diventa prigioniera ed è inchiodata ad un letto. A fatica si pensa a un Kant seduto tremante alla sua scrivania, preso dal timore che la fiammella della candela provochi un incendio oppure a un Cartesio frebbricitante sul letto di morte. Le riflessioni di questi grandi pensatori ci fanno dimenticare il loro corpo fragile e bisognoso di cure. Erano uomini dalla mente eccelsa, eppure la loro sorte è decisa anche dal corpo10.

 Gestire il corpo è un compito che si risolve incominciando dal vestire, dall’educazione al moto e su su fino ad avviare un processo di liberazione da forze repressive e in particolare dai disagi di disturbi fisici ricorrendo a misure di protezione e a cure. Mai però la gestione del corpo si fa tanto responsabile come quando esso ammala indipendentemente se il disturbo colpisce se stessi o l’altro. Nella gestione infatti c’è amore e pietà, che portano alla condivisione del dolore universale.

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