Negli Orientamenti
pastorali dell’Episcopato italiano
per il primo decennio del Duemila i Vescovi italiani avanzano una
considerazione che non lascia tranquilli e merita la massima
considerazione pastorale. «Non è cosa facile, oggi, la speranza. Non
ci aiuta il suo progressivo ridimensionamento: è offuscato se non
addirittura scomparso nella nostra cultura l’orizzonte escatologico,
l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso
una pienezza che va al di là di essa. Tale eclissi si manifesta
talvolta negli stessi ambienti ecclesiali, se è vero che a fatica si
trovano le parole per parlare delle realtà ultime e della vita eterna».
1
A fronte della sfida
contemporanea, onestamente raccolta negli Orientamenti
pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del
Duemila, vorremmo riflettere sulla sintesi che Paolo concentra nel
grido: «la speranza non delude» (Rm 5,5). Qual è il fondamento della
speranza e quali sono le condizioni indispensabili al suo sorgere? Quali
sono i luoghi e i mezzi della sua crescita? A quali peculiari
prospettive apre la speranza cristiana? Proviamo a rispondere, cercando
di tenere presenti in particolare le impegnate affermazioni sulla
speranza distribuite dall’Apostolo nella Lettera
ai Romani.
1.
La speranza d’Abramo «nostro padre» (Rm
4)
Una prima
qualificazione della speranza è presentata da Paolo
nell’argomentazione biblica, che completa la riflessione sulla
giustificazione «lontano dalle opere della legge» (cf Rm 1,18-4,25) a
partire da quello che la Scrittura dice su Abramo (4,1-25). In questo
testo si parla non solo della giustificazione ottenuta da Abramo
attraverso la fede, ma anche della promessa che lo rese padre di molti
popoli. Il passaggio tra questi due livelli è assicurato dal fatto che
la fede del Patriarca assunse anche i chiari colori della speranza:
Abramo «ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre
di molti popoli» (4,18).
Già questo primo passo
della Lettera ai Romani designa con chiarezza il luogo da cui sorge la
speranza cristiana: essa è un arricchimento della fede a partire da
circostanze di difficoltà reali. La speranza non nasce
dall’individuazione di possibilità ottimistiche o di prospettive
rosee, ma essa ha il suo vero ambiente nella percezione di difficoltà
reali. In questo passo non si parla semplicemente della fede d’Abramo,
ma anche della sua «speranza contro ogni speranza» proprio perché la
situazione in cui egli si trova al momento in cui riceve la promessa del
figlio, è contraria al contenuto di quanto gli è promesso. La
dimensione specifica della speranza è indicata, in questo caso, per il
fatto che Abramo sia riuscito a sperare la generazione d’Isacco,
quando già il suo corpo era segnato dalla morte, mentre ormai era
invecchiata anche Sara, la moglie sterile da sempre.
La speranza permette di
superare una situazione che sembra chiusa, offrendo un rimando a
un’altra prospettiva. La speranza indica chiaramente una dimensione
della fede e precisamente il fatto di credere possibili realtà al di
fuori delle leggi dell’esperienza comune. L’atteggiamento della
speranza completa egregiamente il credere d’Abramo: il «padre dei
credenti» è diventato «padre di molti popoli» perché «credette
sperando contro ogni speranza».
Il testo, che stiamo
esaminando, dà anche la motivazione dello sperare
contro ogni speranza. La forma di questa fede accresciuta proviene
ad Abramo dal percepire che Dio, nel quale crede, «dà la vita ai morti
e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (v. 17).
Con l’uso di questa
terminologia Paolo rende il personaggio biblico di Abramo adatto a
esprimere la speranza che il credente riceve dalla risurrezione di Gesù.
In questo modo Abramo diventa figura dei credenti che sperano in
riferimento alla risurrezione di Gesù e alla sua capacità di
vivificare.
L’atteggiamento della
speranza accompagna necessariamente, secondo Paolo, la maturità della
fede. Esso è dato come dono, ma richiede anche una maturazione.
2.
La speranza attuale dell’uomo giustificato
(Rm
5)
Già in questo primo
testo appaiono le condizioni e il fondamento della speranza. Una
trattazione più articolata della speranza, però, è inserita nella
pericope che presenta la condizione attuale dell’uomo che credendo è
anche giustificato (5,1-11).
2.1. Il credente e la
speranza della gloria di Dio
La speranza è
anzitutto uno degli elementi che caratterizzano la situazione
dell’uomo giustificato dalla fede. «Giustificati dunque dalla fede
abbiamo pace nei riguardi di Dio per mezzo del Signore nostro Gesù
Cristo (…) e ci vantiamo in
vista speranza della gloria di Dio (oppure: appoggiandosi sulla
speranza della gloria di Dio» (5,1-2).
L’idea di «vantarsi
della speranza» non connota solo un atteggiamento di fiducia e
sicurezza, ma anche in qualche misura d’esultanza e di gioia.
Potremmo, infatti, leggere il nostro passo, che elenca giustizia, pace e
vanto in parallelo con la dichiarazione che il Regno di Dio «non è
questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia,
pace e gioia nello Spirito Santo» (14,17). «Noi ci vantiamo» equivale
allora a «siamo sicuri e siamo gioiosi». Se in Rm 4 abbiamo visto come la speranza è uno scatto di qualità della
fede, provocato da una reale difficoltà, in questo ulteriore passo
costatiamo che la speranza non è comunque un atteggiamento malinconico,
rassegnato o rivendicativo, ma comporta un elemento di sicurezza, gioia
e vanto.
Rm 5,1-2 indica anche
il riferimento della speranza: si tratta della «speranza della gloria
di Dio». Il cristiano giustificato si sente sicuro e gioioso. Adesso
per lui si è allontanata la situazione in cui si trovava, come uomo,
quando ancora non gli è stato donato il vangelo. Senza il vangelo «tutti
hanno peccato e sono privi della
gloria di Dio» (3,23). Nella gloria, di cui adesso il cristiano si
può vantare, Paolo distingue due stadi: la gloria presente, della quale il cristiano già dispone, e quella futura
che il cristiano nel presente può soltanto attendere. Le due dimensioni
non sono nettamente separate: posso attendere la gloria futura solo in
quanto mi appoggio su quella concessami al presente. E’ dal «già ora»
che ha senso parlare di speranza.2
Chi, credendo, ha ricevuto il dono della giustificazione si apre
all’attuale rivelarsi di Dio e, al tempo stesso, s’incammina a
raggiungere la completa manifestazione divina.
In questa prospettiva
il vanto del giustificato non si appoggia sulle proprie opere. Egli si
vanta fondandosi su quella gloria, che certamente prima dell’ascolto
del vangelo l’uomo non aveva.
2.2. Un cammino concreto: la
resistenza provata opera la speranza
La presentazione del
vanto della speranza della gloria, possibile all’uomo in quanto
giustificato, sarebbe piuttosto astratta, se Paolo non si ponesse la
questione delle difficoltà concrete, le quali appesantiscono
inevitabilmente la vita del cristiano. Speranza e trionfalismi non vanno
certo d’accordo. Il «vanto», di cui Paolo ha appena parlato, è da
combinare con la «tribolazione». Dice, infatti, l’Apostolo: «Non
soltanto, però, ma ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo
che la tribolazione opera resistenza, la resistenza a sua volta (opera)
resistenza provata, la resistenza provata infine opera la speranza»
(5,3-4).
Lo scopo di questi
versetti è impedire l’ingenuità e l’equivoco di una speranza a
buon mercato. Il vanto in questione si realizza nelle tribolazioni,
quando l’uomo credente – anche e proprio nei momenti della prova –
guarda verso la gloria, presente e futura, del Dio in cui spera.
Le parole adoperate da
Paolo meritano attenzione. La «tribolazione» – thlipsis
è un termine caratteristico del linguaggio apocalittico – non designa
semplicemente la persecuzione,
anche se ovviamente non la esclude, ma in genere indica il periodo
d’angoscia che inaugura la fase ultima del tempo escatologico. Nel
tempo che precede immediatamente la fine, le tribolazioni sono strumenti
capaci di dare un contributo al maturare della speranza, passando per
alcuni gradini di crescita.
La tribolazione conduce
la speranza a uno «stare sotto». Il vocabolo greco hypomoné,
che la Bibbia C.E.I traduce con «pazienza», può essere tradotto anche
con varie espressioni: «resistenza», «costanza», «tenuta». Il
termine che preferiamo è «resistenza» perché l’etimologia di hypomoné
indica la capacità di resistere sotto una pressione, senza tentare
fughe. Senza tribolazioni pressanti, il cristiano non potrebbe né
realizzare né mostrare la «capacità di stare sotto» e di «resistere»
(cf già 1Ts 1,3). E’ dentro a una situazione di tribolazione che
appare questa qualità dell’uomo. Questa resistenza è stata ricevuta
dall’uomo per la grazia di Dio; essa è il segno che le virtù
soprannaturali sono talmente presenti in lui, che egli riesce ad avere
una forza che supera le sue sole possibilità native.
Il terzo sostantivo
della catena – ossia dokimé
– è piuttosto difficile da rendere in italiano. Forse possiamo
tradurre con «resistenza misurata dalla prova».3
Il termine deriva dal verbo dokimázo che significa «mettere alla prova», «misurare», «collaudare»,
«discernere». Si potrebbe perciò anche tradurre dokimé
semplicemente con «la prova» e comprendere alla luce del contesto «resistenza
misurata nella prova». L’avere mostrato la capacità di resistere
nella prova porta, di fatto, a un nuovo livello. La persona cresce nella
sua qualità di credente passando dal livello 0 (la speranza) al livello
1 (la resistenza), poi al 2 (la resistenza provata). E’ a questo punto
che si giunge al livello 3, ossia di nuovo alla «speranza».
Che la tribolazione
operi la resistenza e che la resistenza messa alla prova («misurata»)
operi la speranza non è per Paolo un circolo vizioso. Si tratta per lui
piuttosto di abbozzare un progresso illimitato, a spirale che si dilata,
pagato con la costanza: si parte dalla speranza e si arriva alla
speranza per ripartire ancora da essa. E’ uno dei tanti casi del
realismo e radicalismo così tipici nel
loro presentarsi insieme (!)
dell’impostazione spirituale di Paolo.4
2.3. Il fondamento oggettivo
della speranza:
morte di Gesù e dono dello
Spirito
La speranza del
cristiano (vv. 1-2) ha una verifica personale nelle difficoltà
incontrate in questo tempo escatologico (vv. 3-4). Il volontarismo
soggettivo dell’impegno però non basta: la speranza credente ha il
suo fondamento oggettivo nell’amore di Dio, versato nei nostri cuori
dallo Spirito Santo e rivelato nella morte di Cristo (5,5-8). Le
affermazioni di Rm 5,5-8
tolgono una possibile ulteriore ingenuità (rispetto a quella
smascherata in 5,3-4): che cioè la «tenuta» del credente, nelle
tribolazioni e nei momenti della prova, sia qualcosa che viene dal
soggetto, per così dire una prestazione di autosufficienza.
Dice Paolo: «La
speranza poi non fa vergognare, perché l’amore di Dio è stato
versato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato
dato» (Rm 5,5). La frase vuole assicurare che la speranza, maturata
nella tribolazione escatologica, non delude. Il verbo «far vergognare»
(kataiscy´nein)5
indica che la speranza del cristiano non
è vuota. La speranza farebbe vergognare se, dopo tutte le
tribolazioni superate, risultasse inconsistente. La rassicurazione è
fatta dando la motivazione oggettiva dell’impossibilità di rimanere
delusi, che consiste nell’amore di Dio versato nei nostri cuori. Le
tribolazioni affrontate danno la solidità soggettiva,
personale della nostra speranza (vv. 3-4); ma se poi la speranza, pur
soggettivamente solida, deludesse nella realtà delle cose? E se cioè
la speranza fosse soltanto testardaggine? La solidità oggettiva
della speranza è data dal fatto incontrovertibile: l’amore di Dio
versato nei nostri cuori.
L’amore di Dio Padre,
che già nel passato si è realizzato nella morte in croce del Figlio
suo, opera adesso i suoi effetti per mezzo dello Spirito Santo presente
nei nostri cuori.
Più in concreto
l’amore di Dio versato nei nostri cuori può essere inteso in due
modi. La prima possibilità interpretativa è pensare che l’amore di
Dio è versato nei nostri cuori per
il fatto che noi, rispondendo
alla Pasqua di Gesù, sentiamo d’amare Dio. L’amore di Dio è
stato versato nei nostri cuori perché anche noi, rispondendo al dono
fatto a noi dal Padre nella Pasqua del Figlio (cf Rm
5,6-8), ci sentiamo mossi ad amare Dio a nostra volta.
Quest’esperienza dell’amore di Dio ha un aspetto trascendente (perché
coinvolge Dio), ma anche un aspetto esperimentabile: la morte di Cristo
ci fa sentire l’amore di Dio per noi e questo sentire ci spinge a
nostra volta ad amare. Il «versare» sarebbe allora il moto con cui
l’uomo, sapendosi salvato dalla morte di Cristo, si rivolge a Dio con
amore. Si osservi che «il versare» dell’amore corrisponde molto bene
al «versarsi del sangue» di Gesù sulla croce.6
C’è anche una
seconda possibilità di interpretare l’amore di Dio versato nei nostri
cuori, prediletta da qualche esegeta. Nell’ambito del pensiero paolino,7
si può fare riferimento anche al
dono dello Spirito Santo e al fatto che la sua presenza ci dà di
riconoscere Dio come Padre. In questo senso è possibile che ciò
che permette al cristiano di avere speranza e di sapere che essa non
delude, è il fatto che spinto dallo Spirito può gridare con il cuore
«Abbà, ossia: Padre!».
2.4. La sfida di «credere
sperando contro ogni speranza»
Possiamo ormai tentare
un bilancio delle affermazioni di Rm 5,1-12 sulla speranza. Si tratta di
determinazioni decisive e che ci danno, forse, da pensare non poco per
quanto riguarda la nostra esistenza concreta. La speranza è un
costitutivo essenziale dell’esperienza di fede: assieme alla pace essa
appartiene ai tratti distintivi della vita dell’uomo giustificato. Il
dono della speranza, però, non sottrae al collaudo delle difficoltà e
delle tribolazioni. Queste sono affrontabili in forza della speranza
ricevuta, ma al tempo stesso sono proprio le tribolazioni che conducono
alla pienezza della speranza.
Il fondamento della
speranza però non è la capacità ascetica dell’uomo, ma l’amore
che Dio ha versato nel nostro cuore mostrandocelo soprattutto nella
morte del Figlio per gli empi. Guardando a questa morte e accogliendo il
dono dello Spirito che ci fa gridare Abbà, noi riconosciamo Dio come
Padre e scopriamo che il senso della nostra vita è la speranza, anche
se questa – come per Abramo – dovesse essere «un credere sperando
contro ogni speranza».
3.
L’attesa della creazione e la speranza futura
(Rm
8)
Nel cap. 8 della Lettera
ai Romani Paolo allarga la prospettiva della speranza e dall’uomo
giustificato passa alla speranza di tutta la creazione. Attorno al
credente e guardando verso di lui, tutta la creazione che si sente
sottomessa alla caducità anela a trovare nell’uomo credente che
raggiunge la piena redenzione la sua dimensione più profonda di
speranza.
«La creazione stessa
attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa, infatti,
è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere
di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei
pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella
libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene, infatti, che
tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rm
8,19-22).
La piena redenzione si
ha quando l’uomo non sperimenta semplicemente la remissione dei suoi
peccati già ora concessa, ma arriva alla risurrezione della carne.
Adesso l’uomo geme ancora, così come geme la creazione: «essa non è
la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo
interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro
corpo» (Rm 8,23).
Di fronte a un testo di
questa profondità ci sentiamo quasi smarriti. La speranza della
creazione è collegata alla chiarezza della vita cristiana che lascia
trasparire il destino di trasfigurazione cui gli uomini tutti (e, in
loro, tutta la creazione) sono chiamati.
E’ in questa
prospettiva che prende pieno valore il nesso tra la speranza,
l’esistenza cristiana e la vita consacrata. La speranza del cristiano
si trova al centro dell’attesa di tutta la creazione.
Il coinvolgimento del
corpo, nello speciale legame della castità perfetta, pone il religioso
e la religiosa al centro della speranza della risurrezione dei corpi
trasfigurati, in quella realtà nuova dove «non prenderanno moglie né
marito» (Mc 12,25).
4.
Lieti nella speranza (Rm 12)
In sintesi si deve dire
dei cristiani che sono «salvati in speranza» (Rm
8,24). Da questa situazione deve scaturire una gioia. E’ la speranza
che dà alla gioia una permanente che non può venire dalle mutevoli
circostanze in cui viviamo.
All’inizio della
parte esortativa della Lettera ai Romani abbiamo non a caso la raccomandazione alla gioia a
causa della speranza: «Siate lieti nella speranza, forti nella
tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità
dei fratelli, premurosi nell’ospitalità» (Rm
12,12-13). In queste cinque esortazioni, evidentemente collegate,
l’idea della speranza si collega con la tribolazione e si completa con
la preghiera, la sensibilità fraterna e la condivisione.
Anche oggi sarebbe
utopico pensare di testimoniare speranza senza che essa si mostri nella
nostra forza di fronte alle fatiche e come generosità attenta a tutti i
fratelli, perché finalmente egocentrismo e autoreferenzialità sono
superati. Chi pensasse di mostrare la speranza con una pura
dichiarazione d’intenti e di prospettive mancherebbe penosamente il
bersaglio. Certo occorre parlare della speranza, ma la parola decisiva
è «comunicare speranza» e quindi condividere quello che di essa si ha
nel cuore. Lo stesso Pietro raccomanda di mostrare le ragioni della
speranza che è in noi con mansuetudine e dolcezza. «Adorate il
Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque
vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia
fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel
momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli
che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo» (1Pt 3,15-16).
5.
Il Dio della speranza e lo sperare dell’uomo (Rm 15)
Sul finire della
lettera Paolo arriva alla bella definizione «il Dio della speranza» (Rm
15,13), che si collega alla definizione «il Dio della pazienza» (Rm 15,5) e affiancata anche alla classica qualificazione «il Dio
della pace» (Rm 15,33; cf
anche Rm 16,20 e Fil 4,6; 1Ts 5,23 e Eb
13,20).
Le dimensioni di Dio
non sono quelle della fede. Sono piuttosto quelle della speranza, di una
freccia in movimento. Dove tutto il nostro vivere non è circoscritto
dai nostri limiti, ma, a partire da quello che siamo, ci apriamo
all’infinito per noi e a vantaggio degli altri.
I consacrati tra i
credenti devono essere quelli che maggiormente mostrano di aver buttato
l’ancora in un altro mondo. Attraverso la speranza si compie il
celebre detto di San Tommaso d’Aquino: «l’atto di fede non termina
nell’enunciato, ma nella realtà stessa che da esso è dichiarata».
Attraverso la speranza vissuta, la fede rende presente l’oggetto
creduto e lo rende comunicabile a coloro con cui entreremo in autentica
comunione.
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