Ero
a una festa di parenti e amici di missionari. Prima che iniziasse la
celebrazione eucaristica, la mamma di un missionario, dietro di me, mi
ha toccato la spalla e mi ha chiesto sottovoce: «Forse io non dovrei
dirlo, ma lasciami fare questa domanda: dove era Dio l’11 settembre
mentre crollavano le torri? Dove è Dio adesso, quando alla televisione
vediamo immagini di distruzione e morte di innocenti?». La Messa stava
per cominciare. La domanda era lì nell’aria, talmente banale e
talmente tragica, insieme ad abbozzi di risposte insoddisfacenti che si
presentavano e si svuotavano di convinzione da soli. La mamma del
missionario, mentre iniziava il canto di ingresso, ha aggiunto: «Forse
non dovrei parlare così, penso che mio figlio è missionario in un
paese islamico, penso che io dovrei avere più fede. Ma ho questa
domanda qui in gola da settimane. Posso farmela?». Allora ho risposto
di sì. E che me la facevo anch’io.
Sì,
credo che possiamo e dobbiamo farci questa domanda, possiamo e dobbiamo
scriverla. È una domanda vecchia di duemila anni e molto di più, una
domanda fatta tante di quelle volte, che implica così tante cose, che
scivola verso così terribili conclusioni…
Una
domanda che è salita fin sul Calvario, quando hanno detto a Gesù in
croce: Se scendi crederemo. Se non scendi, non possiamo credere. Dove è
Dio qui? Se non scendi, non è con te.
Dobbiamo
e possiamo fare anche noi questa domanda. Ma se facciamo una domanda
dobbiamo anche avere il coraggio di ascoltare la risposta, perché la
domanda in ultima analisi è fatta a Dio e lui ha il diritto di
rispondere.
La
risposta a questa domanda è la speranza.
La speranza di Dio
Come
imparare a sperare e insegnare a sperare oggi? Un mestiere difficile.
C’è una pedagogia della speranza da apprendere. Ci sono dei passi da
fare. E il primo è tentare di imparare da Dio.
L’immagine
della speranza è Dio che discute
Dio
spera per primo. Già nell’Antico Testamento, un magnifico passo sulla
speranza di Dio è il dialogo tra Dio e Abramo a proposito di Sodoma (Gn
18,16-33). Conosciamo quel lungo mercanteggiare. «Forse ci sono
cinquanta giusti in quella città… Non perdonerai a quel luogo per
riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?». Abramo dà voce al
desiderio di Dio stesso: salvare. Quanti ne troverò? Forse cinquanta,
forse trenta, forse dieci, forse… Il contrattare della misericordia.
Ma quando Abramo cessa di contrattare, Dio non cessa di sperare. Uno
solo è l’ultimo limite della sua speranza nell’uomo. A Dio basta
uno e se non c’è ve lo manda, perché ci sia, perché possa trovare
uno per salvare tutti. Quell’uno è la presenza del Figlio tra noi, la
sua presenza in noi, è quello che il Padre guarda per salvarci.
In
questo si manifesta la speranza di Dio: che sempre trova in noi qualcosa
che val la pena di salvare. Spesso noi non siamo capaci di vedere questo
qualcosa che val la pena di salvare, né fuori di noi né in noi. Non
vediamo abbastanza lontano, né abbastanza in profondità. Per questo ci
scoraggiamo. La speranza è uno sguardo.
Insegnare
a sperare è insegnare a vedere: vedere meglio, più a fondo, nei fatti,
nelle persone, nei segni di bene, nelle prospettive del futuro, nelle
intenzioni, nei desideri; far credito a tutto questo, in noi e negli
altri. Non fermarsi alla prima impressione di male, cattiveria e
durezza; non squalificare tutto perché c’è del male, dell’impurità;
non scartare tutto perché qualcosa è inquinato. Per uno, Dio chiude
gli occhi su quanti?
L’immagine della
speranza è Dio che concima
Un’altra
parola di speranza del vangelo è la richiesta del contadino al padrone
dell’albero (Lc 13,6-9). Il padrone vuol tagliare l’albero perché
non dà frutto. Niente di più logico. Perché deve sfruttare il
terreno? Ma il contadino spera che porti frutto. «Lascialo ancora un
anno».
Dio
spera nei nostri frutti. Dio spera nel nostro cambiamento. La sua
speranza è attiva: tende a porre le condizioni adatte. Non si limita a
dire: vediamo se vengono frutti, vediamo se cambia (o, peggio, voglio
proprio vedere se cambia!). Non spera passivamente che in noi succeda
qualcosa. Scava intorno, mette concime. Ci lavora, ci provoca. La sua
speranza non ci lascia tranquilli.
Insegnare
a sperare è insegnare a operare perché il bene si mostri, emerga. È
aiutare gli altri a essere migliori, è credere nell’aiuto reciproco,
nella correzione fraterna, nel portare i pesi gli uni degli altri. È
avere pazienza, non mettere scadenze, lasciare a Dio l’ultima parola.
L’immagine della
speranza è Dio sul terrazzo
Infine,
una parola sullo sperare di Dio è la parabola del padre misericordioso
di due figli (Lc 15,11-32). Dio spera nel nostro rientrare in noi
stessi, nel nostro ritorno, nel nostro comprendere la sua misericordia.
La sua speranza è paziente, fiduciosa, vigile, calda. Dio che spera è
il padre sul terrazzo che aspetta il figlio senza condizioni.
Insegnare
a sperare è insegnare a sperare non una volta sola, ma di nuovo e
sempre. Sperare prima di ogni delusione è più facile. Sperare dopo le
delusioni è più difficile. Ridare fiducia a noi stessi e agli altri è
speranza più grande.
Chi
spera non sta chiuso in casa aspettando che chi arriva bussi, per
alzarsi nel caso e andare ad aprire. Chi spera sta sul terrazzo a
scrutare l’orizzonte, quasi affrettando il ritorno con l’attesa
ardente, quasi spingendo i passi di chi torna, attraendo con l’amore
che aspetta.
Dio ci chiede di sperare
Dio
che spera ci chiede di sperare. Per diventare educatori di speranza, ci
chiede di sperare quando è difficile, già comportandoci come se la
speranza fosse certezza, già riconoscendo i segni della speranza
realizzata.
Dare nella speranza
Il
profeta Elia era scoraggiato (1Re 17,1-16) . Dio si prende cura di lui e
lo anima. Gli mostra che provvede a lui acqua del torrente e pane e
carne portati dai corvi. Gli fa sperimentare che oltre la sua delusione
di se stesso («non sono migliore dei miei padri») c’è la sua
presenza e il suo progetto.
Quando
Elia ha fatto esperienza di speranza, allora Dio lo invia a insegnarla
ad altri. È l’incontro con la vedova di Zarepta. A lei che non ha
niente il profeta chiede. Le dice: «Prima prepara un pane per me e poi
lo preparerai per te e tuo figlio». Non ce n’è abbastanza. La
speranza è difficile, perché sulla parola del profeta la vedova deve
dare prima di vedere la ricompensa. E c’è un momento, quello in cui dà,
in cui resta davvero senza niente.
Nei
luoghi difficili della speranza, alle porte della città stretta dalla
fame, quando c’è così poco che non basta per nessuno, prima da’ e
poi riceverai. La speranza chiede di dare prima di ricevere.
Guardare nella speranza
Gesù
è maestro di speranza nel vangelo. Quando i discepoli ancora non vedono
nulla, indica: «Guardate i campi che biondeggiano» (Gv 4,34-38).
L’oro del grano è il segno che qualcosa sta capitando.
«Alzate
gli occhi e guardate». I nostri occhi sono fissi a terra e non vedono
che il raccolto è maturo. A noi sembra sempre non ancora pronto. Dio
vede oltre, vede il raccolto pronto, frutto della speranza di chi ha
seminato non per sé.
Gesù
maestro di speranza dice un’altra volta «guardate». Guardate i
corvi, guardate i gigli (Lc 12,22-31): perché siete così ansiosi?
Noi
non riusciamo a vedere quello che Dio vede, nella nostra vita, nella
storia. Il grano, i corvi e i gigli non ci dicono molto. Ma Dio continua
a ripeterci: alzate gli occhi e guardate.
I travestimenti della
speranza
Ma
per quanto ci sia chiaro l’esempio e l’insegnamento di Dio, noi
abbiamo le nostre resistenze e la sua grazia ci incontra nella nostra
realtà limitata.
La
speranza, radicata nella fede e sostenuta dalla grazia, trova
espressione dentro l’organizzazione psicologica della persona e la sua
struttura. Per questo, per un lavoro educativo, la speranza può essere
compresa meglio nell’esaminare le sue dinamiche psicologiche.1
Speranza e limite
La
speranza è solo il sogno di chi è sveglio, è la definizione
attribuita da Diogene ad Aristotele.
La
speranza è l’emozione che nasce in assenza di un bene futuro che è
difficile ma non impossibile raggiungere, dice la tradizione tomistica.
La
speranza è l’aspettativa di raggiungere uno scopo (Stotland),
è il senso del possibile (Lynch),
è il qualcosa che rende la persona capace di andare avanti con una
certa energia verso un obiettivo, una meta desiderata e non ancora
raggiunta (MacIntyre).2
La
persona umana in quanto tale è capace di immaginare il futuro. Sperare
significa credere che il futuro non è completamente determinato dal
passato, da una realtà già data, ma che c’è spazio per la novità e
la libertà. La capacità di sperare implica la convinzione che ci sono
soluzioni alle difficoltà concrete e alle sfide della vita di ogni
giorno.
Di
tutto quanto è possibile dire sulla speranza, ci fermiamo su un
particolare aspetto che appare paradossale: la speranza è radicata
nella capacità di accettare i limiti della realtà. Solo la persona che
distingue tra possibile e impossibile è capace di sperare, perché è
capace di desiderare profondamente e al tempo stesso di sopportare la
frustrazione.
Che
cosa significa sperare realisticamente? Ridurre la speranza a nostra
misura? Al contrario.
In
termini di psicologia evolutiva, una speranza realistica si raggiunge
quando si abbandona il senso di onnipotenza infantile e si apprende a
vivere secondo il principio della realtà. Vari autori ritengono che la
capacità di sperare si sviluppa a partire da un rapporto significativo
con la madre: un rapporto che consente di stabilire una fiducia di base
e proprio per questo permette gradualmente di rinunciare alla dipendenza
infantile e di impegnarsi per il proprio futuro.3
La
capacità di sperare allora coinciderebbe con la maturità umana
psicologica.
Questa
affermazione è interessante: saper sperare, sperare davvero, sarebbe un
segno indicativo di maturità umana oltre che di fede, proprio perché
collegato alla capacità di accettazione realistica del limite in sé,
negli altri, nel mondo.
Una
speranza matura si costruisce sulla comprensione che la nostra realtà,
su questa terra, è una realtà finita. La speranza non esonera
dall’affrontare limiti, decisioni e morte. Se la speranza diventa il
tentativo di evitare tutto questo, allora è una evasione che può
diventare patologica: dall’angoscia all’illusione, per evitare
l’angoscia. Una speranza è immatura quando tenta di evadere dalla
responsabilità, quando nega il limite, quando distorce la realtà per
rifugiarsi in un mondo di possibilità illimitate…
La
vera speranza spinge in avanti. Invece l’immaturità tende a
perpetuare se stessa attraverso l’evasione dalle sfide che potrebbero
modificare gli schemi ripetitivi che la persona usa. La tendenza
all’evasione si vede anche dalla qualità delle speranze che possono
riflettere i processi più o meno immaturi della persona: alcune
immaturità infatti possono trovare la loro espressione nel modo cui la
persona pensa al proprio futuro.
In
molte persone è facile notare una tendenza a idealizzare il proprio
futuro o il proprio passato, una tendenza che trova espressione in
speranze fantastiche.
Costituiscono
un buon esempio di speranza immatura le fantasie che vengono chiamate:
“Un giorno o l’altro…” e “Se soltanto…”.4
Un giorno o l’altro…
Un
giorno o l’altro… tutto andrà per il meglio!
Questa
“speranza” è un tentativo di adattamento alla realtà nella
convinzione che un giorno o l’altro nel futuro tutto andrà bene,
anche se il passato e il presente sono sentiti negativamente.
È
un atteggiamento di attesa senza un fondamento concreto, la segreta
speranza, senza legame con il presente, che un giorno o l’altro tutti
i problemi scompariranno oppure si sarà abbastanza forti da sapere
gestirli senza difficoltà. L’eccessivo ottimismo è difensivo, basato
su una negazione inconscia della realtà che non si vuole accettare, sul
rifiuto di quella parte di sé che è conflittuale e aggressiva, sulla
riluttanza ad accettare perdite e delusioni. È come un’armatura per
tenere a distanza la realtà.
Quanti
alimentano queste fantasie hanno delle precise aspettative su se stessi,
sul loro ambiente e sulla vita in generale. Spesso sono persone che
appaiono ricche di energia e entusiasmo. Ma soprattutto quando
incontrano difficoltà, ostacoli e inciampi, tendono a ritirarsi, a
diventare passivi e non fare niente. Poi, dopo un tempo di inattività
in questi termini, ritornano al loro ottimismo entusiasta.
Molto
spesso chi sogna che “un giorno o l’altro” tutto cambierà,
richiesto di dettagliare un po’ di più questo sogno futuro, non è in
grado di farlo e si sente a disagio soprattutto se gli si chiede di
immaginare cosa succederà dopo quel giorno.
A
livello comportamentale varia molto l’espressione di questa fantasia.
Alcuni tentano di dedicarsi
al successo sociale o sul lavoro, altri lottano, altri ancora diventano
passivi in attesa del magico evento che cambierà tutto, o si rifugiano
nella droga a o altri espedienti antisociali.
Se soltanto…
Se
soltanto non fosse successo.. se soltanto fosse andata diversamente…
se soltanto avessi potuto…
Le
persone assorbite da queste fantasie sono poco aperte al futuro, hanno
scarso interesse nel futuro. Sono invece concentrate su alcuni aspetti
negativi del passato. Insistono che se solo certi fatti non fossero
successi (una separazione affettiva, una relazione fallita, un problema
di salute), tutto sarebbe stato molto meglio. Si tengono attaccate a
un’immagine idealizzata della vita prima dei fatti negativi e sognano
di tornare a quella vita di pace.
Intensa
nostalgia perciò accompagna questo tipo di “speranza”. Il desiderio
di ricatturare un passato idealizzato stimola dolore e gioia insieme: il
dolore viene dalla consapevolezza della separazione da questo passato
idealizzato, mentre la gioia è evocata dalla fantasticata riunione con
esso attraverso i ricordi. Il passato non viene lasciato definitivamente
attraverso l’esperienza del lutto, né viene integrato nel presente,
ma trattenuto in una sorta di limbo psichico da una testarda relazione
nostalgica.
Quindi
mentre la fantasia “un giorno o l’altro” idealizza il futuro, la
fantasia “se soltanto” si attacca al passato. Ma entrambe portano a
una discontinuità nell’esperienza di sé che produce una sorta di
alienazione dal presente. Entrambe distorcono la realtà perché devono
adattarla al loro sogno: l’interesse soggettivo prevale sulla
oggettività.
Quindi,
in entrambi i casi, in un cammino di maturità, queste fantasie devono
essere sostituite da aspettative realistiche.
Forse
abbiamo tutti una tendenza all’una o all’altra di queste
“speranze”, a prescindere dalle forme più severe che possono
diventare vere e proprie patologie. Sono fantasie che gettano luce sulle
difficoltà che una persona vive nel pensare al proprio futuro.
Quello
che è interessante notare è che le persone tendono ad avere ideali
realistici nelle aree in cui sono forti e irrealistici nelle aree in cui
sono deboli, il che conferma il carattere difensivo e compensativo di
queste speranze. Ci si aspetta di più per il futuro nelle aree in cui
si riesce meno nel presente.
La speranza è attiva
Qualsiasi
tendenza che indebolisce la propria capacità di preparare il futuro
vivendo bene il presente, cioè con tutto il cuore e realisticamente, è
un limite.
Una
persona spinta a desiderare una tranquillità passata e idealizzata o a
sognare un futuro magicamente raggiungibile vivrà in tensione in molti
aspetti della realtà. Diventa passiva, come se attendesse la
gratificazione dei suoi bisogni da una mamma che fa tutto e che perfino
li indovina senza che occorra dirglieli; evita le sfide, ripete le
vecchie dinamiche perché non conosce alternative e perché ne ricava un
guadagno. Aspetta che i problemi si risolvano, che magicamente i
conflitti spariscano, che le difficoltà scompaiano.
Per
educare alla speranza, occorre aiutare a smascherare e combattere questa
passività.
Dice
Tommaso d’Aquino che la speranza è una passione irascibile, cioè un
elemento fortemente attivo e combattivo.5
La
formazione dovrebbe spingere ad affrontare qualcosa in più di quello
che una persona sa già fare. Dovrebbe stimolare il sorgere di nuove
domande, favorire un processo di scoperta di se stessi, anche se questo
può sconvolgere l’equilibrio presente e sacrificare una certa
tranquillità, raggiunta però ai prezzi descritti sopra, cioè grazie
all’uso di “speranze” difensive.
Occorre
confrontare con gli schemi consueti e spingere a esplorare nuove
possibilità, attivare il desiderio di crescere, insegnare a godere
delle domande e della ricerca. Questo richiede un cambio delle speranze
e quindi il passaggio attraverso la delusione.
Delusi per poter sperare
Se
non si passa dall’illusione alla disillusione, non è probabile che il
processo di maturazione si realizzi. La strada dall’illusione alla
disillusione non è un cammino facile, ma è possibile.
Accompagnare le speranze
deluse
Un
cammino paradigmatico da una falsa speranza alla delusione e quindi alla
speranza vera è descritto negli Atti degli Apostoli (Lc 24,13-35): la
strada da Gerusalemme a Emmaus è il tratto in cui i due discepoli
rinunciano alle loro speranze per trovare quella autentica, perché
incontrano un maestro che insegna loro a comprendere la propria
delusione e li recupera dallo sconforto alla speranza.
«Noi
speravamo». Speravamo che “un giorno o l’altro”…, speravamo in
una soluzione magica, attraverso un messia liberatore.
Hanno
sperato, sono rimasti delusi. Ma non riescono a fare della loro
delusione un passo verso la speranza. Si rifugiano in un rimpianto: se
soltanto non lo avessero ucciso. Ci restano attaccati: non doveva
succedere, questo è tutto. Ci hanno detto, per la verità, qualcosa di
nuovo e diverso… ma noi non possiamo credere. Non sanno sperare. Sono
attaccati al loro sogno infranto.
Sciocchi…
Non avete letto? Non sapevate?
Una
speranza doveva rompersi perché nascesse qualcosa di nuovo. Il sogno di
prima, “un giorno o l’altro”, la tristezza di ora, “se
soltanto”, devono lasciare il posto alla speranza che è altra cosa.
Il
viandante maestro aiuta a rielaborare le delusione, a comprenderla come
passo necessario.
E
mentre camminando egli spiega le ragioni della delusione, non si sentono
scoraggiati o depressi; prima avevano il volto triste, ma ora il cuore
comincia ad ardere. È la speranza vera che si sveglia. Dunque c’è un
senso. Dunque quello “sta scritto” significa che non siamo fuori
dalle mani di un Dio che regge la storia, che non è stato tutto tragico
inganno ma compimento, che la realtà è migliore e più grande anche se
segnata dalla croce, anche se sorprende.
La
delusione che fa crescere non è l’infrangersi del sogno in se stesso,
ma l’accettazione di essere rimasti delusi, di aver sperato altro e di
scoprire come piccole e inadeguate fossero quelle speranze.
Avere
le proprie certezze, puntare sulle proprie forze, voler riuscire, essere
perfetti, non fallire mai, non conoscere umiliazione e rifiuti… tante
volte con consapevolezza più o meno chiara sono questi i puntelli delle
nostre cosiddette speranze. Speranze di farcela, di aver successo, di
non commettere errori…
Per
passare a una speranza vera occorre passare attraverso la delusione, una
specie di delusione di se stessi. È il cammino di tutti. Il passaggio
alla realtà, all’accettazione del limite, avviene nel riconoscimento
di una delusione, nell’esperienza che le speranze di prima non
bastavano, anche se erano troppo.
Formare
alla speranza significa insegnare e accompagnare in questo passaggio,
perché la delusione non sia distruttiva, ma compresa e interpretata.
Per
questo nella vita consacrata è importante formare alla speranza
“prima”, cioè fin dall’inizio della formazione, e poi
“durante”, cioè quando le delusioni avvengono. Prima, come aveva
fatto Gesù che ha avvisato i suoi che avrebbero rischiato una delusione
distruttiva (Gv 13,7.19; 14,25-26.29; 16,1.4.12.15.33). E durante, perché
loro possano dirsi: era questo, ora sappiamo, ora comprendiamo.
Un’autentica
formazione alla speranza deve insegnare a camminare e crescere
attraverso le crisi e le tentazioni, insegnando a individuare come
tentazioni le difese che scattano nei confronti della realtà quando è
sentita difficile. Non basta la preparazione dell’inizio. Gesù aveva
preparato i suoi con cura e tuttavia torna sulla loro strada per
aiutarli ad applicare quanto avevano ricevuto: Non c’era forse
scritto, non avevate forse letto? Torna a dirglielo, perché non
sprechino il cammino di formazione già fatto.
Forse
con troppa facilità la formazione dimentica Emmaus, cioè
l’accompagnamento che insegna discreto a vivere il momento difficile
della delusione.
E
per quella parola di interpretazione detta al momento giusto, il cuore
arde: lui aveva ragione e tutto si compie. E se il compimento è
cancellare false speranze non importa, perché quella vera è già qui,
che spezza il pane e si fa riconoscere. Una speranza diversa ma che
riempie. Una speranza umile e solida.
Conclusione
Dobbiamo
tornare alla domanda iniziale, quella che ci portiamo dentro e alla
quale la speranza vuole rispondere. Dobbiamo tornare al momento della
massima richiesta di speranza, il momento in cui è diventata grido.
Scendi
dalla croce: grido antico duemila anni. Dove è Dio, cosa fa? Se non fa
niente non è Dio.
Quanti
erano presenti e hanno sperato che ascoltasse il grido irriverente e
scendesse?
Tra
le parole di un perdono neppure richiesto, «Padre, perdonali, perché
non sanno quello che fanno», e la promessa di una misericordia che
riesce a pensare all’altro nel momento più tragico del dolore, «Oggi
sarai con me nel paradiso», tra queste due parole, tre volte risuona il
grido «salva te stesso», irridente, provocante o, chissà, in qualcuno
forse sincero.
Anche
a noi sembra che la speranza sia credere che Gesù scenderà dalla
croce. Ma non è vero.
La
croce è rimasta l’unico luogo al mondo dove l’amore è libero di
dare tutto.
Perché
Gesù non scende? Il suo non scendere è la risposta. Vuol dire che Dio
è lì. Non è vero che solo Dio può scendere dalla croce. Solo Dio può
non scendere dalla croce.
Non
scendere dalla croce! Perché quella è l’unica vera speranza rimasta.
La speranza che Dio non scenda. Che ci sia uno che ami fino in fondo,
l’unico ad amare fino alla fine, nonostante tutto, ad ogni costo, fino
all’ultima goccia di sangue, all’ultimo respiro.
Per
ogni uomo, fino all’ultimo uomo, senza nessuna, assolutamente nessuna
eccezione.
Non
abbiamo altro luogo che la croce per intuire un amore così, non abbiamo
nessun altro luogo per cui sperare.
Non
scendere dalla croce, almeno tu.
|