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1. Amore e speranza
L’uomo
è anzitutto un animal amans.1
Egli infatti è un essere che vive nella corporeità (homo somaticus),
che è capace di pensare (homo sapiens), di progettare (homo
volens), di trasformare (homo faber), di giocare (homo
ludens), di relazionarsi (homo
socialis), di progredire insieme (homo
culturalis). Ma tutto questo è possibile, perché egli è proteso a
un polo magnetizzante. È cioè capace di attractio,
delectatio, oblatio – polarizzazione, gioia e offerta generosa di
sé fino al sacrificio – che sono le componenti del processo
dell’amore.
L’amore
è il punto di coagulo delle dimensioni e operazioni dell’essere
umano. Ora, poiché l’uomo è l’essere che non è tutto dato, ma si
compie nello svolgimento dell’essere dinamico – noi non siamo
propriamente uomini, ma lo diventiamo ogni giorno2
– allora l’homo amans si
presenta come volto verso il suo obiettivo mai dato completamente, ma
sempre in distensione di ulteriorità.
Questa
tensione di essere non va confusa con il semplice istinto di
conservazione nel tempo, bensì è la percezione inestirpabile verso il più-d’essere
del proprio essere. L’uomo è un oltre-ogni-altro-oltre.
Egli
è, sì, animal rationale, ma la razionalità non completa l’estensione
metafisica della sua realtà. L’attitudine dell’amore – mette
conto averlo sempre presente – è il principio da cui partono tutte le
dimensioni e le espressioni dell’uomo e a cui si riconducono.3
Ora, se l’amore è proteso al futuro dell’obiettivo del suo slancio
mai esaurito, che non è altro se non la speranza, ne consegue che
l’uomo si presenta, al culmine della sua tensione di esistenza, come animal
sperans.
Ernst
Bloch ha focalizzato l’uomo come principio-speranza.4
L’uomo è essenzialmente un essere che si proietta verso il non-ancora. «È la creatura per
essenza che si protende nel possibile che gli sta di fronte».5
Il filosofo tedesco ricava le conseguenze sul piano pedagogico. Educare
vuol dire insegnare che la speranza è l’anima della storia sia del
singolo che della collettività. «Quello che importa è imparare a
sperare».6
L’esistenza
è come un viaggio dell’esser-ci,
cioè dell’uomo collocato in un qui, ora, così, nel mistero immenso
dell’essere, donde la definizione marceliana di homo viator.7
La speranza come tensione verso
mezzi di vita si presenta diversificata da quella come tendenza
alla vita in pienezza e a ciò
che ne anticipa la realtà, ad esempio nel caso dei rapporti di tipo
comunionale. La prima forma ha come suo oggetto l’ulteriore nella
durata, caratterizzato dall’avere di più. La seconda, invece, ha come oggetto il futuro
dell’essere sempre di più e
in più. La prima, quando
risulta inevasa, può creare solo turbamenti. La seconda, quando è
disattesa, fa sperimentare il fallimento esistenziale che è la
disperazione colta come tradimento dell’essere.8
La speranza si presenta come protensione verso il futuro. E questo si può
visualizzare o all’interno della storia, che per sua natura è segnata
dal limite e che non può mantenere la scommessa della pienezza
dell’essere, o all’esterno della storia stessa, oltre il limite ove
si intravede la pienezza dell’essere. La speranza assoluta «si
presenta come risposta della creatura all’Essere infinito al quale sa
di dover tutto ciò che è […]. Dal momento in cui mi prostro dinanzi
al Tu assoluto che nella sua infinita condiscendenza m’ha tratto dal
nulla, sembra che io mi vieti per sempre di disperare, o più
esattamente che riconosca implicitamente nella disperazione possibile un
indizio di tradimento tale da non potermici abbandonare senza
pronunciare la mia propria condanna».9
2. Morte e significato
Oggi,
con la caduta del pensiero forte e il dilatarsi del pensiero debole –
con il crollo dei valori al segno della domanda: che valore hanno più i
valori? – il problema più urgente che si impone è quello del significato.
E, applicando al nostro tema ci si chiede: che senso ha la morte? E, se
non ha senso, in quanto essa è sradicamento
di vita, che senso ha la vita, se il suo capolinea è privo di
significato? Se la morte è l’ultima parola, e l’uomo non può
mutuare il significato né del suo segmento di esistenza né della
globalità dell’universo e della storia, donde lo potrà desumere? E
in questo quadro, che valore ha la mia inestirpabile tensione
d’essere, in rapporto all’imperio universale della morte? E se non
è l’ultima parola, il senso della vita è legato all’immortalità
personale? E questa, radicalmente, esiste? E come va interpretata? Qual
è la base della sua sussistenza?
Oggi,
insomma, la problematica della morte viene impostata non a partire dalla
teoretica deduttiva della costituzione umana nei termini di anima e
corpo, ma a partire dall’io, che può anticipare la morte vivendola
come dimensione d’essere a cui conferire un significato che a sua
volta lo dia alla vita intera. Si tratta di esplorare il mistero
dell’uomo mortale lungo le direttrici di questi interrogativi
alternativi: l’uomo è segnato dal destino
o avviato a una destinazione?
E la morte è la fine di un essere biodegradabile
o l’inizio di un essere iper-elevabile?
È sigla di una conclusione o
spinta di una completezza? È
decesso completo o accesso
verso altro? È parola definitiva
o provvisoria? È uscita sull’abisso
o ingresso nella pienezza?
3. La speranza e le speranze
Impreteribile
è la risposta a questi interrogativi non solo per dar senso
all’esistenza, ma perché c’è una struttura d’essere dell’uomo
che, per sua natura, spinge alla ricerca sulla linea del positivo di
questa esplorazione.
Il
discorso contemporaneo dell’antropologia poggia sulla scoperta
dell’uomo come incessante autotrascendimento.
Egli è un oltre-ogni-altro-oltre.
La sua struttura fondamentale è la tensione verso un sempre-ulteriore.
Comunque si risolva poi il problema, questo è un dato
fenomenologico. E ha nome tensione
di speranza.
La
speranza, prima di essere una virtù, è una struttura
fenomenologica. Diventa virtù quando c’è l’assunzione
responsabile di questo dato da parte dell’uomo e il comportamento
conseguente. Se la speranza è una struttura d’essere, rifiutare gli
sbocchi intravisti a partire da essa significa coerentemente precludersi
la strada all’ottimismo nell’essere. Perché, se non si sfocia
nell’essere al di là del modo d’essere transeunte e pereunte,
allora è tutto l’essere a rivelarsi in-sensato, perché non
approdante rispetto a questa tensione costitutiva.
Gabriel
Marcel ha collocato come cuore della sua analisi dello homo
viator il capitolo che significativamente intitola Fenomenologia
e metafisica della speranza. Egli distingue l’espoir, o attesa del futuro dei mezzi per la vita, dall’espérance
o attesa della pienezza dell’essere. Il primo significato riguarda il funzionale e il sovrastrutturale,
o anche il propedeutico. Il
secondo riguarda l’essenziale
e il definitivo. «È
possibile vedere la distinzione di tono che separa l’“io spero”
preso in senso assoluto e l’“io spero che”».10
Con la prima formula si esprime la tendenza a conseguire una situazione
ambita ma transeunte. Conclusasi questa situazione, l’espoir
continuerà ancora a elaborare progetti parcellari e a sostituirli
quando le loro realizzazioni saranno consumate. Con la seconda, invece,
si esprime la tendenza al conseguimento non dei beni preparatori, ma del
bene-salvezza. Anzi, il fatto che ogni desiderio più ambito si concluda
sempre con la rincorsa ad altro – e questo dato si afferma
incessantemente – è il segno che c’è un oggetto di tendenza
basilare che non si esaurisce negli oggetti raggiunti. Poi, quando tutto
il possibile umano resta esaudito, come nella situazione in cui l’uomo
si trova davanti al muro invalicabile della morte, si avverte che le
speranze crollano e la speranza resta. Esperimenti condotti su malati
terminali hanno largamente provato questa percezione della speranza, che
trascende persino le speranze di guarigione.
4. Speranza fondamentale
Le
speranze specifiche potremo qualificarle come relative. La speranza,
invece, per i caratteri che abbiamo indicato, può essere chiamata fondamentale.
Essa si rivela sempre come una vittoria sulla disperazione. «Può
esservi speranza solo quando interviene la tentazione di disperare, la
speranza è l’atto mediante il quale questa tentazione è attivamente
o vittoriosamente superata».11
Tale
speranza fondamentale che struttura l’essere ha bisogno di esercizio
costante. C’è infatti il rischio, specialmente in un mondo di
immediatismo, che si eserciti soltanto come speranza di tipo relativo. E
così, questa struttura risulterebbe atrofizzata nel suo potenziale.
Ora, l’esercizio della speranza fondamentale è legato sempre ad una
esperienza d’amore nella misura della sua autenticità. «Amare un
essere significa attendere da lui qualcosa d’indefinibile,
d’imprevedibile; significa nel contempo dargli in qualche modo la
possibilità di rispondere a questa attesa. Sì, per quanto possa
sembrare paradossale, attendere significa in qualche modo donare; ma
altrettanto vero è il contrario: non attendere più significa
contribuire a rendere sterile l’essere dal quale non si attende più
niente, significa dunque in qualche modo privarlo, togliergli in
anticipo qualcosa».12
E ancora: «La speranza è sempre legata a una comunione. [...] Questo
è talmente vero che ci possiamo domandare se la disperazione e la
solitudine non siano in fondo identiche».13
Insomma,
la speranza fenomenologicamente considerata è la disponibilità di una
persona coinvolta a tal punto in un’esperienza di comunione, da
innescare una tensione che supera la pura razionalità del conoscere e
del volere, il puro scontato dell’esperienza di fatto. E si apre il
varco ad un tempo dalla durata illimitata, che fa esplodere i circuiti
della prigionia abituale del terrestre, per fare intravedere un totalmente-altro.
E di questo, ogni esperienza di speranza è anticipo e segnale.14
Distinguendo
l’anelito come tensione dell’uomo-cuore verso l’assoluto Bene e il
desiderio come tensione verso i beni relativi, l’anelito si colloca e
si dirige su vari livelli:
-
verso
la verità senza ombre
-
verso
la libertà senza ceppi
-
verso
la giustizia senza veli
-
verso
la comunione senza sponde
-
verso
la felicità senza fine
-
verso
l’essere senza vuoti.
L’anelito
ha cioè, come suo obiettivo di sintesi, la pienezza, la definitività,
la perfezione dell’Essere.
L’anelito
dell’immortalità è quello dell’oltrepassamento di una vita che si
percepisce incapace di dare questa pienezza. È, comunque sia, la
vittoria su ciò che, pur nell’ipotesi delle più desiderabili
condizioni di esistenza, porta lo sradicamento di quanto si è vissuto.
Che anzi, quanto più la morte – l’abbiamo notato – succede a una
situazione di forma umana perfetta, tanto più si rivela assurda e
ripugnante.
L’anelito
della felicità, come approdo al supremo Bene senza ombre, l’anelito
della conoscenza, come approdo alla Verità completa, l’anelito della
comunione, come approdo all’Essere perfetto in cui integrarsi,
contengono l’anelito all’immortalità personale. Esso non è
discontinuo, ma è presente in tutte le tensioni e le operazioni
dell’uomo. Mette conto qui ricordare in merito Agostino: «I desideri
dell’uomo sono sotto il sole, ma vanno ben oltre il sole».15
Ed è oltre che costante, anche costitutivo.
Se
da qualche parte, in qualche modo, non ci fosse alcuna risposta a questo
anelito, avremmo l’assurdo dell’uomo come animale peggio riuscito
nell’universo. Infatti, vediamo che a ogni fame corrisponde il proprio
pane. Se c’è la specie carnivora, la natura provvede con la carne.
Per quella erbivora, con l’erba. L’uomo è un teovoro
o affamato di assoluto. La ragione, sulla base dell’esperienza
universale, giunge a intravedere la possibilità aperta dell’approdo
dell’inquietum cor che non
si placa finché non raggiunge il Bene assoluto.16
5. Speranza come tensione
La
speranza non è dunque la probabilità, come talvolta si interpreta. È,
invece, l’attesa di un bene fondato, segnata dai caratteri dell’operosità,
dell’ardimento e del gaudio.
È attesa operosa, poiché si è chiamati alla con-laborazione
e alla con-costruzione
dell’ordito, nello sviluppo del bene germinale che già contiene il
futuro, come il seme contiene la pianta e la offre se viene curato con
il clima, con l’acqua, con il terreno preparato. La speranza inoltre
è coraggiosa, perché il bene verso cui si proietta si raggiunge
superando quegli ostacoli che sono come la permanente presenza dei
valori lungo l’itinerario di ogni impresa di esistenza, e che sono
avvertiti nella misura della loro grandezza.
L’uomo,
di fatto, è un esser-ci, cioè
un essere qui, ora, così. Vive nello spazio della temporalità come in
un oggi destinato a trasformarsi in un ieri, esattamente quando il
domani a sua volta prenderà il posto dell’oggi. Tutti i domani
dell’uomo sono diretti ad essere risucchiati nel vortice velocissimo
dell’oggi e a sfociare nell’oceano senza sponde dello ieri. Il
futuro dell’uomo ha come destinazione il passato. Il dio Cronos della mitologia genera i suoi figli e inesorabilmente li
divora. L’uomo, nel suo solco di essere, ha ogni giorno un po’ meno
di futuro e un po’ più di passato.
L’amore,
come attitudine radicale del soggetto di farsi attrarre e, godendo, di
offrirsi, lotta contro la voracità del chronos.
E, finché dura, il soggetto titolare dell’amore costruisce progetti e
sbreccia il futuro. In questo quadro, la temporalità, che caratterizza
l’essere nella storia, è tale che esige di ancorare al futuro il
presente del mondo, se si vuol rendere significativo il presente stesso.
Esso, come momento della durata della storia, prende senso dalla sua
capacità di portare nel suo seno lo sviluppo dell’ulteriore,
dell’umano ancora inedito e sempre possibile. Conseguentemente, il
vero realismo non è solo vedere le cose, ma intravedere le potenzialità delle cose, presenti nelle loro pieghe.
La realtà, nel profondo, è
per sua natura materia fermentante. Così, il vero realista non è colui
che si riferisce al bruto dato. Viceversa, è uno che, sulla base di
quello che le cose sono, proietta sullo schermo della sua progettazione
di vita quello che esse possono divenire.
6. Risurrezione e contemporaneità
Il
cuore dell’uomo, che elabora desideri nel tempo, li vede già nascere
in quanto posizionati verso l’aldilà del tempo. E, dallo spazio del
toltalmente-altro o dai cieli – che sono la metafora universale di una
presenza distantissima dalla terra e quindi si prestano a indicare il
totalmente-Altro – si annuncia: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi
e in eterno» (Eb 13,18). E
ciò è contenuto nell’evento del Cristo risorto, che è vincitore
della morte, punto culminante e di per sé sradicante
dell’essere-uomo. Il Risorto è, pertanto, lo éschatos,
il vero novissimus, l’esperienza dell’ultima forma dell’essere umano
destinato all’eterno. La vittoria della risurrezione garantisce la
perennità nell’essere. Che è stabilità nel dinamismo e non staticità
nell’inerzia.
La
risurrezione, inoltre, non riguarda solo la sfera dell’oltre-tempo,
ma anche coinvolge la temporalità. In altri termini, il nostro oggi è
segnato profondamente dalla novità della risurrezione.
L’uomo,
di per sé, è ieri, oggi e domani. Cristo è ieri, oggi e in eterno,
come è stato annunciato. Orbene, l’uomo, innestato in Cristo, diventa
l’essere di ieri, di oggi e dell’eterno. Come nell’uomo
dell’ultima forma che è il Risorto, temporalità ed eternità si
incentrano, così nell’uomo nuovo in Cristo, che compie la
kierkegaardiana contemporaneità
con Cristo grazie alla relazione assoluta e totalizzante con lui, tempo
ed eterno si incontrano.
Nella
vita del discepolo, il tempo è normato dall’eterno. E l’eterno è
preparato nel cantiere del tempo. Ad ogni istante, così, il chronos
o tempo quantitativo diventa kairós
o tempo qualitativo. È per questo che nell’esistenza
l’aspetto più importante non è dato da quanto
si vive, trascinando magari una vita piena di cose vuote, ma da come
si vive una vita piena di
eterno anticipato. Si compioni le azioni più ordinarie nel tempo, con
lo stile dell’oltre-tempo. La
proiezione verso questo secondo obiettivo è vissuto nella speranza.
Far
dialogare temporalità ed eternità nella propria coscienza significa
assumere le beatitudini che sono già lo stile dell’eterno nel tempo.
Con questo non viene deprezzato il tempo con la sua carica di umano, ma
viene elevato nell’anticipazione della forma
vivendi dell’eterno. Alcune beatitudini sono coniugate al
presente, indicando che la felicità promessa nell’eterno viene
anticipata all’interno della storia quotidiana.
E
siccome il soggetto uomo vive nel presente anche la dimensione del
pregresso e del non-ancora, ne deriva applicando che solo la
contemporaneità con cristo permette di farsi ogni giorno discepoli.
7. Sognare e sperare
E
così si può sognare alla
grande. Qui si riassume un categoriale biblico che è densamente
antropologico. Il sogno dell’uomo si coniuga con la speranza
integrale, come l’inserimento del progetto-anelito
dell’uomo-speranza nel piano salvifico del Dio Emmanuele. Che è poi
l’incrociarsi tra lo homo viator
nel tempo e il Deus viator dall’eterno.
Ora,
sognare è partire non solo dal visibile reale, ma anche
dall’invisibile più profondo, che è il livello delle potenzialità.
Non solo dal già, ma
soprattutto dal non-ancora. Non
solo dall’edito umano, ma dall’indeito divino-umano. Non solo
dall’essere, ma dal poter-essere
e dal poter-far-essere. Non solo dal dato obiettivo, ma dal potenziale
creativo. Non è chi non veda che qui si sta trattando non del sogno
onirico-passivo, bensì di quello innovattivo-attivo. Coincide con la fantasia
creatrice,17
che si inserisce nella logica dell’amore.
Da
quando Dio si è comunicato con l’autorivelazione e con l’autodono
del mistero di Cristo, nelle viscere della realtà, al di là della
visione di superficie, non si danno due storie parallele: quella
cosiddetta profana e l’altra di carattere sacro. C’è, invece, una
sola storia, quella della salvezza.
Il
sogno dell’uomo, ai livelli della sua profondità, è andare verso Dio
nella tensione dei più arditi desideri umani che lo trovano sempre al
di là. Dio è il tutto, ma è anche l’al di là di tutto.
Sognare
in questo senso è sperare nel tempo che il già dell’evento-Cristo si
completi nel non-ancora
dell’evento del Cristo totale. E questo è possibile lasciandosi
portare dal santo Spirito di Dio, nella grande memoria della Vergine
sperante che si sente rispondere dal nunzio celeste: «Lo Spirito Santo
ti coprirà con la sua ombra» (Lc 1,35). Tale ombra
è come la nube che
accompagnava il popolo di Dio nel deserto.18
Quando si parla di ombra, non si dice opposizione alla luce, ma
piuttosto adattamento della luce alla nostra capacità visiva. Si parla
di nube non perché si tratti di una realtà nebulosa, ma di una realtà
intensamente luminosa che, in quanto sorgente della luce, ci trova
incapaci di una visione diretta. Nube, dunque, per noi. Luce intensa in
sé. Il futuro della storia della salvezza era già contenuto nella nube
luminosa della prima pentecoste di Gerusalemme. L’esplorazione di
questa realtà è la presa di coscienza graduale del futuro di Dio. Alla
luce di questa indicazione, il futuro è il sempre-non-ancora contenuto
in un grembo. Il grembo è lo Spirito di Dio che è libertà. A lui
appartiene l’avvenire, inteso come futuro umano presenziato e animato
dall’adventus Dei. Lo
Spirito pertanto «vi annunzierà le cose future» (Gv 16,1b). Il
collaboratore dello Spirito nel prevedere e nell’anticipare il futuro
è l’uomo credente che sogna ed è la comunità profetica che legge
nel non-ancora il disegno di Dio che va dipanandosi.
8. Una chiesa che sogna
Alla
comunità, nella misura in cui accetta di rinnovarsi costantemente con
il «battesimo nello spirito e nel fuoco» (Mt 3,11), non è lecita
l’operazione autoreferenziale del ripiegamento nella discussione di
problemi di morte e dello sconcerto della vittoria del male sul bene
come capitò ai discepoli nel viaggio da Gerusalemme a Emmaus (cf Lc
24,14-24). La comunità dei discepoli si apre invece alla presenza del
Risorto che fa l’esegesi di sé per decodificare anche il mistero
dell’uomo. E così, al calore della Parola di cui testimoniano i due
lungo la via (cf Lc 24,32), si sbreccia il futuro, si apre la speranza,
mentre poco prima avevano coniugato il verbo sperare al passato, cioè
avevano espresso il loro sentimento di disperazione.
La
comunità dei discepoli viene richiamata al futuro sua patria, ben
sapendo che l’adventus Dei viene dal futuro. Essa si impegna a farsi Chiesa del
sogno, ma che si fa segno. Del progetto che si fa effetto. Di quella utopia
che si fa topía, cioè di quella verità che ancora non trova spazio (ouk
tópos) nella storia e che, invece, con la forza dello Spirito lo può
trovare.19
Ovviamente tale utopia, lungi dall’essere evasione dal piccolo spazio
di ogni giorno, è invece autenticata dalla fedeltà nel quotidiano. Cioè
dall’incarnazione del kairós divino e umano nel chrónos
più ordinario. Solo chi vive l’ordinarietà di ogni giorno può
presentare l’autentica utopia nel senso detto, marcata dalla presenza
del divino.
9. Speranza come destarsi
Il
discepolo, esperto della speranza che è intrinsecamente di carattere
pasquale, diventa seminatore di speranza e stimolatore delle energie
sopite di una umanità posta sotto anestetico da un sistema che ne ha
tutto l’interesse per smerciare prodotti di mercato e per far
accettare messaggi manipolatori.
Il
discepolo esperto di speranza è in posizione di slancio verso la meta
che è Cristo. Formidabile resta l’icona sportiva di Paolo nella Lettera
ai cristiani di Filippi, quando dice che si protende verso la meta
utilizzando un termine che mutua dal linguaggio olimpionico: ep-ek-teinómenos (Fil 3,13). È un lemma che include lo stacco
dalla pedana (ek), la
concentrazione di tutta la muscolatura del corpo (epi)
guidata dalla tensione indomita dello spirito verso l’obiettivo (teinómenos).
Sperare,
come protendersi verso l’infinito del traguardo, non è perdersi in
una posizione fumogena di evasioni e distrazioni dal reale. Ma è
restare incarnati nella vita del qui-ora-così e protesi verso
l’invisibile Presenza che la fede coglie e vive. È dunque uno stato
di risveglio delle dimensioni e delle espressioni dello spirito. In
obbedienza all’imperativo della Parola: «Svegliati, tu che dormi,
risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14).
Solo
a queste condizioni si può essere in grado di svegliare il mondo di
oggi, assopito nell’effimero e nell’assolutizzazione del relativo e
del funzionale, come il potere, il piacere e l’avere. Il Salterio
registra simboli potenti di una letteratura archétipa. L’aurora è il
segno di un futuro che si apre. È pronta a offrirsi, come a sua volta
promessa di luce più alta, a chi l’ha attesa nel buio. Va però
preparata con il canto mattutino dell’innamorata che si è svegliato
per «mattinar lo sposo, perché l’ami».20
Il salmista intende ridestare nel chiarore pealbare gli strumenti
musicali più delicati per rimettere in movimento il nuovo giorno: «Svegliatevi,
arpa e cetra, voglio svegliare l’aurora» (Sal 108,3; 57,9). È
interessante notare che il compositore del Salmo
57 si presenta come circondato da leoni: «Io sono come in mezzo a
leoni, che divorano gli uomini. I loro denti sono lance e frecce, la
loro lingua spada affilata. […] Hanno teso una rete ai miei piedi, mi
hanno piegato, hanno scavato davanti a me una fossa» (Sal 57,5.7). Al
di là di queste immagini icastiche, si intravede che il seminatore di
speranza e lo stimolatore delle potenzialità sopite non è uno che ha
vita comoda e si diletta nel descrivere facili figure di sogno. È
invece un lottatore contro minacce che lo insidiano da tutte le parti e
tentano di distruggerlo. L’uomo della speranza recettiva e attiva è,
insomma, il cantore che trova nei tre giovani della fornace (cf Dan
3,23-90) una cifra emblematica di credenti ancorati alla Parola che
salva e non alle vicissitudini che favoriscono l’euforia. La speranza
qui appare come una tensione ardua e il suo titolare è il rocciatore
ardito.
Oggi
urge risvegliare i tempi nuovi nei compagni di viaggio soggetti alla
deconcentrazione nell’effimero.
Svegliare l’aurora
significa svegliarsi per ridestare quell’immenso potenziale di
ricchezze umane sopite.
Svegliare l’aurora è testimoniare che la crescita a misura umana
non è nel benessere, ma nel più-essere.
Svegliare l’aurora è evidenziare i segni veri del tempo
messianico di oggi, quando ancora le bombe di ogni tipo si possono
trasformare in pani e gli immensi sprechi possono diventare cespiti di
preziosi aiuti.
Svegliare l’aurora è superare i punti morti dei pessimismi e
delle fughe dagli impegni. È aiutare la gente a far rifunzionare la
struttura d’essere della speranza che tutti possiedono con il seme
pasquale che è certezza del già avvenuto nel Cristo risorto e del
non-ancora che attende ogni uomo nel tempo e al di là del tempo.
L’amore è stupore, è per sua natura ex-statico.21
È stupore davanti alla meraviglia che gli si prospetta. Qui si tratta
della risurrezione dell’Unigenito, che il Padre vuol partecipare a
tutti i figli innestati nel Figlio. Si tratta del futuro di Dio,
collocato nell’orizzonte infinito e che costituisce la meraviglia
suprema che attende il discepolo come sua destinazione.
Svegliare l’aurora è far riascoltare credibilmente ed
efficacemente il lieto annunzio di Isaia, preludio del vangelo (euanghéllion) del tempo pieno: «Non ricordate più le cose
passate. Non vogliate pensare più alle cose antiche. Ecco, faccio una
cosa nuova: proprio ora germoglia. Non ve ne accorgete?». (Is 43,18-19)
Il discepolo esperto della speranza acutizza il suo occhio per cogliere
i primi germogli della primavera anche in un paesaggio ancora invernale.
È colui che incolla al suolo l’orecchio per avvertire il distendersi
del seme che marcisce, ma per fiorire e fruttificare.
La
speranza è pasquale, perché poggiata su Cristo risorto che è il vero
seme caduto in terra per morire, ma che porta molto frutto. (cf Gv
12,24)
L’amore
proteso al futuro, suo compimento, è la speranza pasquale del discepolo
afferrato (Fil 3,12) dal Risorto. E lanciato alla pienezza della pasqua
dell’uomo e dell’universo.
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