La
speranza è la virtù dei poveri. L’affermazione, umanamente amara, si
carica per noi di attese inesprimibili, tanto più se possiamo dire che
è anche la virtù dei vergini. Ed è importante introdurci in una
riflessione sulla speranza pensando che nella vita cristiana essa non è
solo una virtù ma anche un dono. Il che apre a una dimensione mistica
in cui la persona viene proiettata verso orizzonti infiniti, che al
cuore è dato sperare.
Ora,
ogni cuore spera nei valori in cui crede. Nel nostro caso lo Spirito ha
già effuso una certa luce su quel che ci attende come creature
destinate a partecipare alla vita divina. Lo sguardo interiore si è
orientato verso l’inesprimibile da cui il cuore è stato afferrato e
la speranza fiorisce bella, quanto più si affina attraverso le virtù
cristiane che educano la persona.
Qui vediamo
come castità e povertà s’accompagnano con la speranza. Per noi sono
a un tempo voti e virtù che ci conformano a quel «genere di vita
verginale e povera che Cristo Signore si scelse per sé e che la Vergine
Madre sua abbracciò» (LG 46). E’ facilmente intuibile la valenza che
esse hanno sulla speranza come virtù infusa. E anche a voler guardare
più dall’esterno, rendono la persona consacrata testimone
privilegiata della speranza nel Regno che viene.
Stando
alla suggestiva intuizione di C. Péguy, la speranza è come la
“sorella minore” che tira le altre due grandi virtù, la fede e la
carità. Vorrei riprendere questa immagine, per vedere a loro volta
povertà e castità come due umili virtù che trascinano verso la grande
speranza.
Una
speranza di cui l’umanità oggi ha più bisogno che mai. Il progresso
stupendo raggiunto richiede un dono dall’alto che lo purifichi e lo
orienti lì dove possa essere valorizzato e assunto per il bene
dell’uomo. Al timone di tante realizzazioni ambigue può essere
determinante la presenza di un cuore aperto alla speranza.
Ma
una speranza eroica, frutto di santità. Come quella di chi sceglie di
vivere povero e casto per entrare più profondamente nella comunione con
Cristo. Dovremo anche riconoscere che è funzione particolare di chi è
consacrato vivere la speranza come attesa della venuta del Signore. E in
questa attesa ottimista e fiduciosa lasciar trapelare i bagliori di una
gloria in qualche modo già iniziata.
L’ora di una speranza
eroica
Stando
agli orientamenti che ci vengono dal magistero di Giovanni Paolo II, non
si può parlare di autentica vita cristiana se manca un fondamentale
impegno alla santità. E santità vuol dire virtù vissute fino
all’eroismo.
Quando
si fa il processo canonico per dichiarare che una persona è santa, ciò
che conta non è tanto quel che ha fatto quanto il modo eroico in cui ha
portato avanti la sua esistenza cristiana, con particolare riferimento
alla fede, alla speranza e alla carità, le virtù teologali che ci
tengono in comunicazione con Dio e da lui ci fanno attingere le risorse
per la nostra santità.
Lasciando
come base la dipendenza reciproca che esiste tra queste virtù-dono,
veniamo alla speranza per vedere come si colloca nella teologia e nella
spiritualità dei nostri giorni. Con la riflessione offerta dal Concilio
Vaticano II, la Chiesa sembra essersi maggiormente focalizzata sulla
dimensione escatologica dell’esistenza umana. E così l’accento si
è spostato sulla speranza come virtù che anima le prospettive della
fede e spalanca l’eternità al desiderio di amore.
Potremmo
dire che fede e carità si espandono nella speranza. Alla luce del
mistero pasquale di morte e risurrezione si aprono nuove prospettive. «Allora
nella speranza avviene la extensio
animi ad magna, come era chiamata nel Medioevo. Nel fatto di Gesù Cristo
la fede discerne l’alba di quel futuro di apertura e di libertà. La
speranza che ne nasce spazia sugli orizzonti che in tal modo si aprono
dinanzi a una vita altrimenti chiusa. La fede vincola l’uomo a Cristo.
La speranza rende quella fede aperta all’onnicomprensivo futuro di
Cristo».1
Per
ogni cristiano la speranza diventa attesa di un compimento in ordine al
quale anche le realtà terrene vengono viste sub
specie aeternitatis – alla luce dell’eternità – e l’animo
si carica di energie per impegni diversamente insperati. Questo noi
vediamo nei santi. E in ultima analisi dovremo dire che in essi la
speranza è stata la forza motrice per arrivare a realizzazioni, piccole
o grandi che siano, ma eroiche. Anche «sperando contro ogni speranza»,
come Abramo (Rm 4,8).
E’
chiaro che nel costruire un livello alto della speranza confluiscono
tante virtù della vita cristiana, come povertà e castità che qui ci
riguardano. E queste, in ordine alla speranza, hanno un valenza non solo
come virtù ma anche come voti. Perché i voti sono delle promesse e
ogni promessa è collegata con la speranza. Nella promessa, poi, c’è
qualcosa di immortale.
Bisognerà
coltivare la speranza come la piccola gemma turgida di vita, come scrive
Péguy. Fino a diventare noi stessi il germoglio da cui viene tutto. «Ora,
io ve lo dico, dice Dio, senza questo germogliare della fine
d’aprile… senza quell’unico piccolo germogliare della speranza,
che evidentemente chiunque può spezzare, senza quella tenera gemma
cotonosa… tutta la mia creazione non sarebbe che del legno morto (…)
Quando vedete tanta forza e tanta rudezza la piccola gemma tenera non
sembra proprio più nulla. E’ lei che ha l’aria di essere parassita
dell’albero… Eppure è da lei che tutto viene».2
Siamo
stati «rigenerati per una speranza viva» (1Pt 1,3), che zampilli da
noi come fonte di vita eterna anche per gli altri. Quanto più è viva
ed eroica, tanto più è feconda. Mi riferisco a una speranza capace di
recuperare tutte le illusioni che orientano l’umanità verso valori
falsi, che distruggono la persona. I santi, con le opere e con la
preghiera, si sono sempre impegnati a far cambiare rotta ai cammini
sbagliati; si sono posti al timone della storia sia nel nascondimento,
sia coinvolgendosi in prima persona negli eventi del loro tempo.
Perché
l’atteggiamento cristiano, proprio in forza della speranza, non è mai
passivo. E si spera anche in vista di quello che sarà il nostro destino
eterno. Intuiamo che ameremo e conosceremo Dio nella misura in cui le
nostre facoltà si saranno impegnate in questa esistenza terrena. Ora,
proprio la speranza ci spinge a crescere per fare grande l’eternità
dove, chiamati secondo il disegno di Dio, siamo predestinati a essere
conformi all’immagine del Figlio suo, nella gloria (cf Rm 8,28-30).
Un
nuovo modo di esistere che continuerà a tenerci coinvolti, insieme a
Cristo, nella vicenda umana. Come intuiva anche Teresa di Lisieux: «Se
Dio misericordioso esaudisce i miei desideri, il mio paradiso trascorrerà
sulla terra fino alla fine del mondo. Sì, voglio passare il mio Cielo a
fare del bene sulla terra».3
Mia parte è il Signore
La
spiritualità cristiana e la tradizione monastica da sempre hanno colto
un nesso tra i consigli evangelici della povertà e della castità e la
virtù della speranza. «La pratica della rinuncia, mediante la povertà
volontaria, è un atto nobilissimo della speranza, virtù teologale».4
Quando
i beni terreni sono valutati e usati per quello che sono, nella verità,
e il cuore si dà totalmente a Dio senza rimpianti per le creature,
nell’animo esplode la speranza.
«Il
Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle
tue mani è la mia vita.
Per me
la sorte è caduta su luoghi deliziosi,
è
magnifica la mia eredità» (Sal 15,5-6).
Si
può far riferimento a questi due versetti del salmo per dire lo stato
d’animo della speranza. E’ chiaro che tutto l’essere, trasportato
dallo Spirito, è andato oltre. Gesù non ci lascia nel vuoto. Vuol
trasferire l’interesse del cuore umano verso altri valori: «Dove è
il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34). Se il
tesoro è nel Signore, possiamo pure identificare la povertà con la
speranza.
Per
vedere come anche il dono del nostro corpo a Cristo sia in vista di una
ulteriorità, bisogna andare alle espressioni con cui i primi Padri
della Chiesa si rivolgevano alle vergini consacrate. «Custodite, o
vergini, custodite ciò che siete. Custodite quello che sarete. Vi
attende una magnifica corona. Il vostro coraggio avrà la meritata
ricompensa. Alla vostra castità sarà riservato un dono eccelso. Voi
avete già cominciato a essere quello che noi saremo. Voi avete già in
questo mondo la gloria della risurrezione».5
Camminiamo
nell’esistenza terrena sapendo che Dio è la nostra sorte per sempre (cf
Sal 72,26). Questa coscienza rende liberi, audaci e ottimisti. Un
ottimismo che diventa fiducia nell’amore di Dio: «Se Dio è per noi,
chi sarà contro di noi?… Chi ci separerà dall’amore di Cristo?…
Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né
avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’altra
creatura potranno mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù,
nostro Signore» (Rm 8,31-39).
La
speranza nutrita in un cuore povero e casto diventa via del ritorno a
Dio, prima ancora di essere attesa della sua venuta. «Noi fin d’ora
siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.
Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a
lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza
in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (1Gv 3,2-3).
Una
esigenza di purità che ci rimanda a un certo “vuoto” di cui parla
san Giovanni della Croce a proposito della speranza. «Vivendo nella
speranza, in cui è impossibile non sentire un certo vuoto, l’anima
emette un gemito, anche se soave e delicato, proporzionato a quanto le
manca per raggiungere il possesso perfetto dell’adozione dei figli di
Dio dove… anche il desiderio diventerà quieto».6
Quanto
più la persona purifica le sue facoltà, tanto più spera in Dio a un
livello adeguato a quel che Dio è. E in proporzione della speranza
comunica con Dio e lo possiede. Quindi la speranza come passione umana
va orientata in modo che desideri solo Dio: su questo desiderio,
inizialmente anche impuro, viene a innestarsi la speranza come virtù
infusa.
E’
interessante l’intuizione di Divo Barsotti secondo cui Dio ha creato
l’uomo in modo tale che dall’uomo stesso poi dovesse dipendere il
compimento del suo essere. Se si fosse volto a Dio, egli avrebbe tratto
con sé, nel suo ascendere a Dio, anche il suo corpo, e con il suo corpo
tutto il mondo creato. Ma avendo abbandonato Dio per fermarsi alle cose,
ora «per ritornate a Dio, deve distaccarsi da loro, deve, in una sua
rinnovata verginità, sciogliersi dal legame alle creature e ordinarsi
totalmente a Dio».7
In
questa via del ritorno si legano povertà, castità e speranza: andare
oltre le cose materiali, gli affetti sensibili, lasciando che l’anima
venga attirata dall’alto. Rivolgersi a Dio, sublimando tutta la
natura, secondo l’audace aspirazione di Paolo: «Sospiriamo in questo
nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste… In
realtà quanti siamo in questo corpo, sospiriamo come sotto un peso, non
volendo venire spogliati ma sopravvestiti, perché ciò che è mortale
venga assorbito dalla vita» (2Cor 5,2.4).
3. Nell’attesa della beata
speranza
Quando
il cuore diventa povero e casto, avendo trovato il suo bene nel Signore,
quel che spera lo attende. L’attesa è da sempre nota caratteristica
della spiritualità cristiana e ad essa ci richiamano anche oggi i
nostri Pastori: «Noi viviamo tra il giorno della risurrezione
di Cristo e quello della sua
venuta. Egli è colui che verrà
alla fine dei tempi, per portare a compimento in tutto il creato la
volontà del Padre. Per questo il cristianesimo vive nell’attesa,
nella costante tensione verso il compimento; e dove tale attesa viene
meno c’è da chiedersi quanto la fede sia viva, la carità possibile,
la speranza fondata».8
Dobbiamo
riandare alle origini della vita evangelica per respirare il clima in
cui ci si muove quando si aspetta il ritorno del Signore come qualcosa
di immediato. Tutto quel che è terreno diventa relativo. Lo mostra bene
la nota pagina della prima lettera ai Corinzi, dove Paolo parla di
matrimonio e verginità. Ciò che conta è tendere verso il Signore ed
adeguarsi a lui, liberi da ogni altra cura terrena. In tal senso il
rimanere vergini si presenta come una condizione privilegiata.
Con
il trascorrere dei secoli, la dimensione profetica di chi si dona
totalmente a Cristo viene avvalorata. «Alla vita consacrata è affidato
il compito di additare il Figlio di Dio fatto uomo come il traguardo
escatologico a cui tutto tende, lo splendore di fronte al quale ogni
altra luce impallidisce, l’infinita bellezza che, sola, può appagare
totalmente il cuore dell’uomo» (VC 16). La vocazione alla verginità
diventa così vocazione ad evangelizzare l’attesa del Signore, in modo
che tutta la Chiesa tenda verso la pienezza di quanto la fede ci
promette e la speranza ci fa aspettare. Tutti siamo chiamati a vivere
nell’unica fondamentale tensione verso il ritorno di Cristo.
La
parabola delle dieci vergini che attendono lo sposo esprime bene la
situazione della Chiesa intera chiamata a vegliare. «L’attesa, che
non è vigile, non è più attesa: è distrazione, noia, addormentamento.
Tocca ai poveri del Signore
richiamare con la loro vita il senso e la logica dell’attesa: perché
il compimento sia da Dio e
secondo Cristo, non dalla sapienza
dell’uomo. Tra i poveri del Signore staranno anche i vergini: nella
loro solitudine e nella loro sterilità».9
Un
cuore libero diventa capace di sperare con umiltà e senza presunzione,
sulla stessa lunghezza d’onda di quel che lo attende: qualcosa che si
coglie solo con lo spirito, perché la vita dei risorti non può essere
immaginata con le nostre categorie.
Quando
gli autori del Nuovo Testamento ci provano ad abbozzare quel che sarà
la vita eterna, finiscono piuttosto con il raccomandare le condizioni
per attendere e anche per “affrettare” la venuta del giorno di Dio.
Ci si prepara nella “santità”, dice esplicitamente Pietro. E
aggiunge ancora: «Secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e
una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia. Perciò,
carissimi, nell’attesa di questi eventi, cercate d’essere senza
macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace» (2Pt 3,13-14).
Anche
Paolo suggerisce quello che deve essere l’atteggiamento cristiano
nell’attesa della beata speranza: «vivere con sobrietà, giustizia e
pietà in questo mondo» (Tt 2,11).
Una
attesa che non distoglie dal presente. «La sostanza del presente non è
(come si dice generalmente) l’attenzione: è l’attesa, ossia la
proiezione del nostro essere verso ciò che non è ancora. L’essenza
del presente è questa tensione, questo slancio; se viene meno la
speranza, allora il presente ricade in malinconia».10
Siamo più condizionati dall’attesa del futuro che dal possesso del
presente.
La
liturgia della Chiesa ci offre ogni anno il periodo dell’Avvento per
ricaricarci di speranza. Non è solo attesa della nascita di Gesù. E’
fiducia che la presenza di lui nella storia faccia progredire tutta
l’umanità verso quella destinazione divina che la attende.
Un
compimento affidato anche al desiderio che viene da un cuore umile: quel
puro desiderio che è molto di più del bisogno di Dio. Viviamo in una
cultura in cui fare cose sembra più importante che aspettare il
Signore. L’attesa è specifica della femminilità matura. Ritorna alla
mente il coro delle donne di Canterbury nel dramma che rievoca
l’assassinio di S. Tommaso Becket: «Per noi, le povere, non v’è
l’azione ma solo l’attendere e il testimoniare».11
E’
difficile stare attivamente in silenzio alla presenza di Dio. Eppure è
in questa presenza che vive la speranza e il cuore esce nel grido
accorato con cui si chiude la Scrittura: «Vieni, Signore Gesù!».
Cristo in voi, speranza
della gloria
E’
nota l’immagine di san Bernardo secondo cui esiste un medium
adventus12
del Signore, il quale viene fin d’ora in coloro che lo accolgono e con
la sua misteriosa e dolce presenza fa già assaporare i frutti della
adozione a figli di Dio. Un sapore che non è possibile cogliere senza
un cuore povero e casto.
Per
dare concretezza a una speranza che si inveri lungo il cammino del
nostro vivere con Cristo, guardiamo alla figura di Maria: in lei tutte
le attese cristiane sono diventate realtà. E se dovessimo ricercare il
segreto di tanta grandezza, non potremmo trovarlo altro che nella sua
“purità”, un traguardo al quale ci è dato levar lo sguardo nella
speranza. Ricordiamo l’esortazione di sant’Ambrogio, il cantore
della verginità consacrata: «Sia in ciascuno l’anima di Maria a
magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare
in Dio; se secondo la carne una sola è la Madre di Dio, secondo la fede
tutte le anime generano Cristo; ognuna infatti accoglie in sé il Verbo
di Dio purché, serbandosi senza macchia e libera dal peccato,
custodisca con intemerato pudore la castità».13
Se
questo è vero, le cose grandi nel cristianesimo non sono una utopia.
Con la novità di vita la persona è chiamata anche ad anticipare. «Anticipare,
cioè realizzare nel tempo, fino ai limiti delle possibilità umane
fecondate dalla grazia di Dio, le promesse escatologiche di cui siamo in
attesa: la pace, la libertà, la salute, la giustizia, la comunione, la
condivisione… L’anticipazione è il primo dovere della speranza».14
In realtà tanti santi agli occhi del mondo sono apparsi utopisti.
La
speranza è virtù attiva, che incide nella vita e nella storia
preparandole alla venuta del Regno. Una preparazione che è in qualche
misura prefigurazione, come ci dice la dottrina del Concilio Vaticano II.
«L’attesa di una nuova terra non deve indebolire, bensì piuttosto
stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove
cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una
certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo» (GS 39).
Vorrei
leggere in questo anticipare non solo quel che si diventa capaci di fare
attivamente, ma soprattutto quel che si riceve.
«Non
c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o
padre o figli o campi a causa del vangelo, che non riceva già al
presente cento volte tanto» (Mc 10, 29-30). La vita non sarà facile,
aggiunge Gesù. Ma è un fatto che al di là delle apparenze, il Regno
di Dio cresce in noi e nella storia. E in questo crescere si costruisce
la pace e nasce la gioia, come doni di Cristo risorto. «Esultate di
gioia indicibile…» (1Pt 1,8).
Dopo
che la speranza ha dissolto in noi la paura della morte, la vita diventa
bella, qualunque sia la vocazione a cui siamo destinati. Si trova gioia
pura e autentica anche nella sofferenza, come testimoniano tante
esperienze di santità pure attuali.
A
ogni epoca il proprio tempo è sembrato il più nefasto, benché
sant’Agostino dica che simili paragoni non sono ispirati da saggezza;
ma se anche il male sembra crescere, Dio, più grande del cuore
dell’uomo, suscita anime sante capaci di controbilanciare l’odio che
satana suscita nel mondo. E’ la suggestiva intuizione di san Luigi
Maria Grignion de Montfort il quale vede gli “ultimi tempi”
contrassegnati da una dura lotta. Ma «verranno grandi uomini, che Maria
formerà per ordine dell’Altissimo, al fine di estendere il suo
dominio sopra quello degli empi».15
Ma
quando avverrà tutto questo? «Non spetta a voi conoscere i tempi e i
momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo
Spirito Santo che scenderà su di voi» (At 1,7-8). E con lo Spirito
Santo il Signore Gesù ci dona quella speranza che per duemila anni ha
fatto vedere i “cieli aperti” a chi vi si è abbandonato; così pure
ha colmato in modo imprevedibile il cuore povero e casto di tante
persone che si sono “promesse” a lui nelle più svariate forme di
vita consacrata.
Esprime
bene il compimento della speranza di un cuore che si è consegnato a
Cristo una antica antifona della festa di sant’Agnese. Mi piace
riportarla anche in latino per non diminuirne la bellezza: «Ecce, quod
concupivi, iam video; quod speravi, iam teneo; ipsi sum iuncta in caelis,
quem in terris posita, tota devotione dilexi».16
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