Una
sfida e un compito per la vita consacrata di oggi
Che
cosa di più urgente e vitale della “speranza”, nel mondo di oggi?
Dopo
i fatti del settembre scorso e durante questi mesi in cui la guerra,
senza essere dichiarata, sembra dilagare e coinvolgere ogni Stato e
Continente, ognuno si chiede se è ancora possibile sperare in un futuro
migliore, nella fine della violenza, del terrore.
Come
religiosa ho la sensazione che, in questi i tempi, non si possa andare
tranquillamente per strada senza sentirsi raggiungere da uno sguardo
indagatore, da una voglia di domande, senza avvertire che con la paura
c’è un’accorata ricerca di sicurezza e di speranza!
E
non è così automatico rispondere che è possibile sperare, mentre
cerchiamo in noi le ragioni e i motivi che fondano una sana speranza, la
quale non è una teoria sul futuro, né tanto meno un rincorrere ideali
irraggiungibili.
Per
un cristiano la speranza è una Persona, offerta al mondo; è Gesù che
nella sua carne e nel suo sacrificio riunisce i fratelli dispersi e
divisi; ed è Maria, la Madre sua, che ce lo consegna, ce lo affida, ce
lo addita, spingendoci a fare ‘quello che Lui ci dirà’.
Può
essere questa una tra le numerose icone bibliche che introducono alla
“speranza”. Una virtù, un atteggiamento difficile da coltivare e da
comprendere in questo tempo fortemente segnato dall’attivismo, dal
protagonismo, dalla voglia di programmare e rassicurarci il futuro,
perfino di calcolare e manipolare la vita e la natura, poiché ogni
incertezza e oscurità genera ansia, irrequietezza, avvilimento,
frustrazione.
La
fede ci apre alla certezza pacificante che siamo nella “pienezza dei
tempi” e che, in essa, esiste un disegno di Dio non solo sulla
universale storia umana, ma anche sul cammino di ogni singola persona;
disegno che si compirà e sarà sempre di salvezza e di redenzione. Si
tratta di avere la pazienza illuminata e robusta di coloro che vivono di
speranza, che si fidano e si affidano alla Parola e alla Promessa.
Il
Signore continuerà anche in futuro a essere il lievito messo nella
farina umana, a essere il buon seme sparso nella terra dell’umanità.1
Seminatrici di speranza, prima che un nuovo compito, mi piace
pensarlo un nome nuovo della vita religiosa femminile.
Nel
Documento Vita Consecrata, il
Papa parla spesso della vita religiosa come speranza della Chiesa:
«Che
sarebbe del mondo se non vi fossero i religiosi»? Al di là delle
superficiali valutazioni di funzionalità, la vita consacrata è
importante proprio nel suo essere sovrabbondanza di gratuità e
d’amore, e ciò tanto più in un mondo che rischia di essere soffocato
nel vortice dell’effimero. […]
La
Chiesa non può assolutamente rinunciare alla vita consacrata, perché
essa esprime in modo eloquente la sua intima essenza “sponsale”. In
essa trova nuovo slancio e forza l’annuncio del Vangelo a tutto il
mondo. C’è bisogno infatti di chi presenti il volto paterno di Dio e
il volto materno della Chiesa, di chi metta in gioco la propria vita,
perché altri abbiano vita e
speranza. Alla Chiesa sono necessarie persone consacrate le quali,
prima ancora di impegnarsi a servizio dell’una o dell’altra nobile
causa, si lascino trasformare dalla grazia di Dio e si conformino
pienamente al Vangelo» (105).
Altrettanto
forte ed evocativa la risposta di Fratel Alvaro Rodríguez Echeverria,
presidente dell’USG, alla domanda: dove
troveremo la vita religiosa di domani?
«La
troveremo tra i cercatori di Dio,
a fianco degli esclusi, tra i testimoni della speranza... Le nostre
comunità religiose devono fornire alla speranza un volto, essendo
presenti per scelta evangelica nelle situazioni di dolore e di miseria,
manifestando che la tenerezza di Dio non ha frontiere, che la
risurrezione di Gesù è garanzia di vittoria, che il Dio della Vita avrà
l’ultima parola sugli idoli della morte».
Seminatrici di speranza,
perché sorelle
Non
è in forza delle doti, capacità e progetti personali che la vita
religiosa penetra in ogni parte del mondo, ma solo in forza dello
Spirito che la suscita, in forza della chiamata a seguire Colui che è
venuto nel mondo e per il mondo: «Venite e vedete».
Legandosi
in modo incondizionato a Cristo, ogni religiosa si trova inserita nei
suoi legami di parentela; si è fratelli e sorelle perché figli e
figlie dello stesso e unico Padre.
Nel
vivere questa relazione profonda di ‘figlia’, ogni religiosa diviene
e si sente sorella dell’umanità, di ogni uomo e donna creati a
immagine di Dio.
‘Sorella’
rimanda a una stessa provenienza, richiama a delle affinità; ebbene,
nonostante le crisi, gli ostacoli, le brutte copie, possiamo veramente
testimoniare che la vita religiosa ci fa sorelle tra noi, ma soprattutto
sorelle di tutti, poiché «l’amore di Dio è stato riversato nei
nostri cuori» (Rm 5,5).
‘Sorelle’
per la familiarità con Dio e la prossimità con la gente. Sorelle per
una «speciale comunione col mistero della vita che matura nel seno
della donna».
Una
maternità che è fisica e spirituale. «La verginità, infatti, non
priva la donna delle sue prerogative; la maternità spirituale riveste
molteplici forme. Nella vita delle donne consacrate essa si potrà
esprimere come sollecitudine per gli uomini, specialmente per i più
bisognosi: gli ammalati, i portatori di handicap, gli abbandonati, gli
orfani, gli anziani, i bambini, la gioventù, i carcerati e, in genere,
gli emarginati.
Una
donna consacrata ritrova in tal modo lo Sposo, diverso e unico in tutti
e in ciascuno, secondo le sue stesse parole: “Ogni volta che avete
fatto queste cose ad uno solo di questi … l’avete fatto a me” (Mt
25,40)» (cf MD 18,21) .
E’
questa identità di ‘sorella e madre’ che va custodita e alimentata,
perché davvero ogni fratello possa essere toccato, nella sua forza di
libertà e amore, da questa vicinanza, dal nostro essere sorelle per
tutti.
Suor
Joan Chittister, benedettina della Pennsylvania, che lavora tra gli
immigrati e tra le ragazzine abbandonate, rilasciando una testimonianza
personale e comunitaria, affermava: «Questa gente cerca solo qualcuno
che porti loro generosità, che stia a sentirla con il cuore, senza
ingiungere loro altre leggi per controllare la loro vita».
L’essere
sorelle ci consente di stare al loro fianco senza alcun potere, se non
quello di offrire la nostra compagnia.
Continua
Sr. Joan: «Questo lo possiamo fare grazie ai nostri voti di povertà,
castità e obbedienza. Se essi hanno significato per noi, lo devono
avere anche per coloro che incontriamo e hanno bisogno di vedere
giustizia, generosità, amore, dignità.
I
voti non sono contro qualcosa, ma per aiutare gli altri… allora
significano… è allora che c’è la possibilità di una vita
religiosa nel mondo.
Quando
fai il voto di povertà nel cuore della città, non lo fai solo per
viverlo in maniera simbolica, ma per i poveri del mondo di oggi, dove le
risorse pendono tutte da una parte. Chi fa il voto di castità lo fa per
raggiungere qualcosa di valore, una vita d’amore senza limiti. I voti
sono per una giustizia più equa, per un amore senza limiti, per un
cuore che ascolta i bisogni di tutto il mondo; è questo che vogliamo
tutte, attingendo ogni mattina alla preghiera, che ravviva in noi il
dono della fede, della speranza e di una rinnovata energia».2
2. Alimentare la speranza
nella nostra “consacrazione” quotidiana
Vivere
la speranza significa attendere Dio ogni giorno e accogliere il dono che
irrompe dal futuro. E’ Dio che garantisce il futuro, ma vuole contare
su di noi per costruirlo.
Il
credente sa di essere nelle mani del Dio amore. Il suo amore è degno di
fede e di certezza. S. Paolo nella sua prima lettera (scritta 20 anni
appena dopo la morte di Gesù) ringrazia Dio per la fede viva dei
Tessalonicesi, per la loro carità operosa e per la loro costante
speranza (cf 1Ts 1,3).
La
speranza cristiana è un atteggiamento, una virtù concreta e attiva in
favore della vita e contro la morte. Include perciò l’audacia e il
rischio.3
La
differenza tra le diverse impostazioni di vita risiede proprio nei beni
sperati. Coloro che hanno imparato ad attendere il dono del Signore, a
ogni alba che sorge, si chiedono quale forma nuova di amore, di
fraternità, di perdono, di verità, di bellezza, di pace, di giustizia
possa irrompere nella loro esistenza; essi sono certi, infatti, che ogni
situazione può consentire una manifestazione inedita dell’azione
creatrice di Dio e quindi l’accoglienza di un nuovo dono di vita.
Allora
si può essere «pronti sempre a rispondere a chiunque domanda ragione
della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).
Per
una religiosa, l’esercizio esemplare e radicale della speranza è la
povertà. Votarsi alla povertà significa attendere solo il dono che ci
rende figli; non è infatti la mancanza delle cose a caratterizzare lo
stato di povertà per il Regno, ma è l’attesa del dono di Dio in
tutte le imprese, dono che è sempre a disposizione, quando è atteso e
accolto.
Per
questo Gesù chiedeva di distaccarsi completamente dalle cose: «Chi non
rinuncia ai suoi beni non può essere mio discepolo» (Lc 14,33).
Quando
ci è chiesta la vita, non possiamo offrire le cose. La vita può essere
offerta solo da coloro che non l’hanno affidata alle cose.4
«Collocate
nelle diverse società del nostro pianeta; società percorse spesso da
passioni e da interessi contrastanti, desiderose di comunione, ma
incerte sulla via da prendere, le comunità di vita consacrata nelle
quali si incontrano come fratelli e sorelle persone di differenti età,
lingua e cultura, si pongono come segno di un dialogo sempre possibile e
di una comunione capace di armonizzare le diversità.
Queste
comunità sono luoghi di speranza e di scoperta delle Beatitudini;
luoghi nei quali l’amore, attingendo alla preghiera, sorgente della
comunione, è chiamato a diventare logica di vita e fonte di gioia »
(VC 51).
La
Chiesa affida alle comunità di vita consacrata il particolare compito
di far crescere la spiritualità della comunione, aprendo o riaprendo
continuamente il dialogo della carità, soprattutto dove il mondo di
oggi è lacerato dall’odio etnico o dalle follie omicide.
«Le
nostre risposte saranno umili, perché siamo consapevoli di non essere
l’unica voce e perché sappiamo di non avere l’unica risposta. Le
nostre risposte dovranno essere di comunione e in collaborazione con dei
laici che condividono la nostra fede e magari il nostro carisma o
semplicemente la difesa della dignità dell’uomo».
La
nostra risposta sarà umile perché sappiamo, meglio che in altri tempi,
che non potremo cambiare molto dei fatti e delle realtà che ci sfidano
e che fanno soffrire tanti e tante fratelli e sorelle; spesso ci resta
solo l’accompagnarli, lo stare lì con loro, a volte impotenti come
essi stessi di fronte al fatto che li affligge. Ma umilmente staremo lì,
consapevoli che non potremo “aiutare” molto e rinunciando perciò
alle nostre fantasie di onnipotenza. Staremo ad accompagnare con la
nostra presenza e vicinanza umana, ben sapendo che attraverso di noi, è
il Signore colui che li accompagna e ben sapendo che è Lui che noi
accompagniamo».
Questa
è anche la testimonianza di una comunità delle Piccole sorelle di Gesù,
rimaste a Kabul, correndo il rischio di tanta gente, per continuare a
essere con semplicità e fiducia «una epifania vivente di Dio in mezzo
agli afgani».
3. Seminatrici di speranza,
dove..., tra ...
Negli
Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano Comunicare
il Vangelo in un mondo che cambia,
i Vescovi si rivolgono ai religiosi «chiamati proprio in virtù della
loro scelta di vita, che li rende ‘poveri e marginali’, a essere
segno di speranza, testimoniando la possibilità data a ogni uomo di
abitare le frontiere della società e della vita, trovandovi un senso,
una ragione per cui è possibile vivere e dare la vita.
Ognuno,
secondo il proprio carisma; i religiosi di vita apostolica andando
incontro attivamente ai bisogni e alle sofferenze degli uomini; quelli
di vita contemplativa praticando con amore e dedizione il ministero
dell’ospitalità» (cf n 62).
L’appello,
la sfida della speranza richiama presso i poveri, i malati, i piccoli,
presso coloro che hanno perso il senso della vita... vicino a quanti non
hanno nulla a causa delle calamità naturali, nelle aree devastate dalla
violenza, dall’oppressione e dalle guerre civili, presso i grandi
gruppi umani di rifugiati…, tra coloro che rimangono del tutto
indifferenti ai bisogni degli altri, o tra quelli che sembrano pieni di
se stessi, perché non mancano di beni materiali, ma spesso soffrono la
disperazione e la solitudine e sono tentati di rifiutare il dono della
vita.6
Essere
là dove la vita è minacciata da ogni forma di abuso, di potere, di
violenza, di abbandono, di rifiuto.
Percorrendo
la storia, sono molti i luoghi dove è caduto qualche seme di speranza e
di vita da mani di sorelle che, in forza di un Amore che le ha prevenute
e, sospinte dallo Spirito che le anima, hanno giocato tutte loro stesse
e continuano a farlo perché altri abbiano vita e speranza.
Di
notte e di giorno, nei diversi servizi, sulle strade, tra chi cerca la
vita e chi la rifiuta si spingono i consacrati, avanzano quelle
religiose che osano oltre ogni struttura per entrare nell’inedito di
Dio.
Seminatrici
di speranza perché il dono dell’amore di un Dio che ci è Padre, che
ha assunto nel Figlio la storia umana e ha camminato sulle nostre
strade, non può essere contenuto! E’ un dono che riempie il cuore,
che si fa volto, gesto, parola, vicinanza, sostegno, perché non si
spezzi la canna incrinata e non si spenga il lucignolo fumigante (cf Mt
12,20).
Essere
seminatrici... È un’immagine che richiama orizzonti sconfinati.
Seminare non esige un andare troppo rigoroso, ma è un procedere
fiducioso, uno spargere a piene mani, il più largamente e il più
lontano possibile, in sovrabbondanza.
Mentre
la cronaca nera invade il mondo, molte sorelle continuano a seminare
gesti di speranza e di bontà. La cronaca bianca non fa rumore, non
sbatte il fatto in prima pagina, ma dilata il cuore, illumina gli occhi
che intravedono un futuro, riaccende la speranza.
Questo
si prova quando veniamo a diretta conoscenza di alcuni fatti, quando
visitiamo qualche nostro “sito”, quando avvistiamo delle
pubblicazioni o pagine di cronaca che ci mettono a contatto con la vita
di tante nostre sorelle e comunità.
Ad
esempio, con Sr. Laura tra i prigionieri dell’Eritrea;
con Sr. Emmanuelle, ribattezzata la madre Teresa del Cairo; con il
“progetto speranza” per i meniños de rua, delle Serve di Maria
Riparatrice; con il movimento di religiose Usmi-Uisg, in mezzo al
“traffico di donne e bambini” per sottrarne almeno alcuni alla
violenza dell’abuso e del mercato del sesso; con diverse comunità
religiose, in Congo, Burundi, Sudan, Afganistan, ex Jugoslavia, Timor
Est ..., rimaste nei luoghi di guerra, per il solo motivo di condividere
fino in fondo la precarietà della gente, poiché non si può rompere
quel filo di speranza a chi ripete: «se voi rimanete, allora c’è una
qualche speranza anche per noi».
Potremmo
continuare a citare sorelle e comunità che osano sfondare barriere di
morte per offrire segni di vita.
A
Tirana, una comunità di quattro sorelle dell’Immacolata
Concezione di Ivrea, in collaborazione con la chiesa locale, è
impegnata, con ogni mezzo, a sostenere progetti per favorire la
formazione e l’inserimento lavorativo delle donne nei settori
possibili dell’economia locale. Il progetto si è fatto urgente dopo
l’incontro di Sr. Giovanna con Doriana, ragazza quattordicenne, orfana
di padre, con la madre malata di mente, un fratello minore, pronta per
venire in Italia a cercare lavoro.
«In
quel momento, dice Sr. Giovanna, ho risposto semplicemente a Doriana che
in Italia non avrebbe trovato lavoro, perché troppo giovane… ma che
poteva fare in Albania un lavoro con noi e aiutare così la sua famiglia».
A
Roma, si è aperto l’8 dicembre 2000, il Centro di accoglienza
“Teresa Verzeri” come risposta intercongregazionale (le Suore Serve
di Maria Riparatrici e le Figlie del Sacro Cuore di Gesù) al problema
delle ragazze, coinvolte nella prostituzione.
Molte
sono le iniziative su questo fronte, ma il problema più che ridursi
sembra spostarsi da una città all’altra, cambiando “soggetti di
mercato”, senza permettere di toccare la radice del problema. Si parla
ancora troppo ingiustamente di retate che ammassano sempre e solo le
donne, già vendute e violate; poche sono le retate di protettori e,
perché no, di clienti.
Anche
l’Italia, dove già con la vigente Legge sull’Immigrazione, articolo
18, si è fatto qualcosa per le donne che chiedono aiuto per sottrarsi
alla violenza e allo sfruttamento, si dovrebbe pensare a qualche legge
che punisca non solo chi si prostituisce, ma anche i clienti, come
avviene in Svezia, in Francia.
E
tra gli immigrati? Molte sono le sorelle che vi lavorano, anche se la
nostra presenza è forse ancora troppo spontanea e incerta.
Le
richieste non mancano, così pure le testimonianze. Leggevo tempo fa
quella di Sr. Paolina Tesselaar scmm, che lavora in uno dei servizi del
“Centro Astalli”, diretto dai Gesuiti, a Via
di Tricerro, Roma.
«Da luglio
2001, Tricerro ha accolto centinaia di rifugiati arrivati a Roma dopo
essere sbarcati a Lampedusa, Taranto, Brindisi, superando enormemente le
proprie capacità logistiche di accoglienza…. E non possiamo mandarli
via.
Quando
di sera, vado a fare il giro di controllo, a volte vedo un ragazzo senza
coperta o cuscino. Cerco di trovare qualcosa per farlo riposare meglio.
Se si svegliano, prima mi guardano impauriti e poi mi sorridono e mi
toccano il braccio. Questo è il nostro compito: dare un po’ di
affetto e ricordare loro di non perdere mai la speranza. Distribuire
loro quell’amore di Dio che noi sentiamo e vediamo concretamente
proprio grazie a loro ».7
L’elenco
di segni, gesti, luoghi di speranza è ben più lungo… e il seme
continua a cadere sulla terra buona, sassosa, arida… (cf Mt 13,4-9).
Non
ci è consentito rassegnarci agli esiti deleteri di una economia
globalizzata che pone in primo piano il profitto a scapito delle persone
e della loro dignità umana, o assistere inermi al rischio di uno
sfruttamento crescente della gioventù sulla base di queste ideologie.
Ogni
comunità religiosa può tracciare nuovi sentieri di vita e cammini di
speranza, ovunque: in frontiera, nel deserto, nella periferia, nel
contesto di un quotidiano sempre più problematico e complesso.
E’
sorprendente scoprire come lo Spirito Santo sa condurre la vita
religiosa là dove i progetti umani tardano ad arrivare!
Forse
sta proprio qui il futuro della vita consacrata: rimanere in ascolto
dello Spirito che l’ha suscitata nella Chiesa e rispondere alle ansie
e alle angosce dell’uomo di ogni tempo.
5. Speranza, una ragione per
mille ragioni di vita
“La
speranza poi non delude” (Rm 5,5). E’ questa la ragione che offre
mille motivi per far rinascere la speranza ogni giorno in noi e attorno
a noi!
L’evento
del Giubileo 2000 è stato certamente il passaggio dello Spirito che ha
riacceso il fuoco della speranza.
Il
Papa, nella sua lettera apostolica Novo
millennio ineunte, ci richiama a un rinnovato slancio basato su una
certezza che ha accompagnato la Chiesa per due millenni: «Ecco, io sono
con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Di
fronte alle sfide del nostro tempo non ci seduce certo la prospettiva
ingenua che ci possa essere una formula magica. No, non una formula ci
salverà, ma una Persona e la certezza che essa ci infonde: «Io sono
con voi!».
Ogni
religiosa ha bisogno di questa Parola per rinvigorire la speranza, per
credere in questa Presenza e mostrare il volto di Colui che ce l’ha
promesso, a quanti sono ai margini, a quanti hanno pronunciato la parola
fine perché non hanno più la forza di affacciarsi alla finestra della
speranza.
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